1987, New York. Il ventiduenne Jordan Belfort (DiCaprio) inizia la sua carriera come apprendista broker a Wall Street. Dopo qualche tempo si mette in proprio e fonda, insieme a Donnie Azoff (Hill) la Stratton Oakmont. L’agenzia, da piccola e insignificante, diviene una delle più importanti di Wall Street, il tutto truffando migliaia di persone. I vari broker conducono una vita folle, fatta di sesso, orge, denaro, fiumi di droga e alcolici. Finchè un agente dell’FBI (Chandler) riuscirà ad incastrare Belfort e i suoi compari. Scritto da Terence Winter (sceneggiatore televisivo), questa mega-produzione (100 milioni di dollari) indipendente (nessuna major collabora al progetto) era uno dei titoli più attesi del nuovo anno. È un capolavoro. Potrei fermarmi qui ma non ho l’abitudine di fare recensioni da otto righe scarse. Basato sulle memorie dello stesso Belfort, Scorsese ne ha tratto uno dei suoi film migliori: è una commedia nera, sotto il segno dell’eccesso. Il vero prtagonista del film, oltre alle droghe, le prostitute e naturalmente Belfort, è il Denaro. Ma parliamo del denaro con la D maiuscola. Quel Dio a cui l’America è succube da tanti, tantissimi anni. Il denaro, come la dipendenza dal sesso e dalla droga, è una malattia. Una malattia della mente. E Belfort è un malato grave. Divertente, esilarante, folle, il film ha la sembianza di una farsa per quasi tutti i suoi centottanta minuti di durata. È una scena di cruda violenza domestica a risvegliarci da quest’illusione. The Wolf of Wall Street è una commedia, d’accordo, infatti si ride molto e molte sequenze (in particolare quella in cui Belfort e Azoff prendono il Lemmon e si contorcono per terra) sono davvero esilaranti. Ma il cuore del film è il dramma profondo che rappresentava e rappresenta questo tipo di finanza: L’obbiettivo di un broker-dice Mark Hannah, mentore di Belfort-è prendere i soldi dalle tasche dei clienti e metterli nelle sue. Questo è quello che avviene per tutto il film e Belfort è uno di quei mostri veri che ci sono nel nostro mondo. Quei mostri che di scannarti con una telefonata se ne fanno un baffo. Quei mostri a cui non importa niente di nessuno, tranne che di se stessi. Idea resa benissimo dal finale: Azoff non esita a rovinare Belfort. Perché a Wall Street non esiste l’amicizia: vince chi riesce a mangiare di più. Il quadro finale è quello di una critica feroce al capitalismo USA e al mondo alta finanza. Ennesimo capolavoro di un maestro che a settant’anni suonati continua e non smette di stupire. A questo punto dobbiamo fare almeno due parole su DiCaprio (premiato con un Golden Globe) che si lancia coraggiosamente (mettendoci anche soldi suoi) in un progetto rischioso e hard-core e ci regala una performance da brivido, probabilmente la sua migliore interpretazione in assoluto; materiale da Storia del Cinema. Se l’Academy questa volta gli nega l’Oscar ci si dovrà profondamente interrogare (e non che non l’abbia già fatto) sul criterio con cui assegna il premio. Chiusa la parentesi DiCaprio è rimasto poco da dire: Hill è magistrale, McConaughey, per quel poco che appare, lascia il segno e la Robbie (classe 1990!!!), talentuosa e bellissima attrice australiana, rimane per forza impressa nella memoria dello spettatore. Cinque nomination agli Oscar: miglior film, regia, attore, attore non protagonista, sceneggiatura non originale.
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