writer58
|
martedì 13 marzo 2012
|
dal foro a rebibbia
|
|
|
|
Camorristi, spacciatori, detenuti condannati per omicidio, un paio di ergastolani rinchiusi nel carcere romano di Rebibbia. Questi sono gli attori che rappresentano il "Giulio Cesare" di Shakespeare, che interpretano i ruoli di Bruto, Cassio, Decio, Marco Antonio, dello stesso Cesare. Nel farlo, rappresentano anche la propria vita, le proprie scelte, i propri errori. Impastano un presente, fatto di celle, cancelli, porte chiuse a chiave, spioncini che guardano simmetricamente su altri muri, altre porte, altri cancelli, con un passato che li ha condotti nello spazio totalitario del carcere e con un futuro che per qualcuno è segnato dalla mancanza di una data di fine pena.
[+]
Camorristi, spacciatori, detenuti condannati per omicidio, un paio di ergastolani rinchiusi nel carcere romano di Rebibbia. Questi sono gli attori che rappresentano il "Giulio Cesare" di Shakespeare, che interpretano i ruoli di Bruto, Cassio, Decio, Marco Antonio, dello stesso Cesare. Nel farlo, rappresentano anche la propria vita, le proprie scelte, i propri errori. Impastano un presente, fatto di celle, cancelli, porte chiuse a chiave, spioncini che guardano simmetricamente su altri muri, altre porte, altri cancelli, con un passato che li ha condotti nello spazio totalitario del carcere e con un futuro che per qualcuno è segnato dalla mancanza di una data di fine pena.
"Cesare deve morire" dei fratelli Taviani è un film potente, doloroso, intenso, a tratti catartico. La corrispondenza tra la tragedia che viene messa in scena e le vicende drammatiche che hanno segnato l'esistenza dei detenuti-attori è sorprendente: il senso dell'onore, i tradimenti, la lotta al potere costituito, la vendetta, l'espiazione e la colpa ne costituiscono i tasselli essenziali. La recitazione è forte, sobria, piena di emozione e verità autentiche. Durante il provino, i detenuti devono declinare le proprie generalità - la prima volta come se si trovassero a un posto di frontiera e stessero dicendo addio a una persona amata, la seconda volta con rabbia, come se fossero informazioni estorte dopo un interrogatorio brutale- Lo fanno in un modo commovente, appassionato, caricando di intensità emotiva un elenco di freddi dati anagrafici.
Il film dei fratelli Taviani è qualcosa di più di un "docu-fiction"; è territorio di confine tra cinema, teatro, ricerca di senso, percorsi di riscatto personale. La scelta del bianco e nero si sposa alla perfezione con l'ambientazione carceraria e l'uso del dialetto caratterizza il "Giulio Cesare" come un "melting pot", una sorta di crocevia di itinerari personali, gerghi, culture che genera un effetto di forte prossimità con la materia originale narrata nella tragedia di Shakespeare.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a writer58 »
[ - ] lascia un commento a writer58 »
|
|
d'accordo? |
|
pepito1948
|
giovedì 8 marzo 2012
|
carcere ed arte
|
|
|
|
Nel 1989 Nanni Loy realizzò “Scugnizzi”, film incentrato sull’allestimento di un musical presso il San Carlo di Napoli con la partecipazione di ragazzi del riformatorio di Nisida. Le prove e le scene dello spettacolo si intrecciavano con le storie personali dei protagonisti (molti attori erano presi dalla strada) mediante l’alternarsi di piani temporali diversi, fino ad una conclusione tragica e speranzosa insieme. Il film non ebbe successo, sembra perché la commistione tra delinquenza (minorile) e arte non era ancora nelle corde del pubblico e della critica di allora. Ciò in cui fallì Loy è invece riuscito ai fratelli Taviani, che, genialmente, hanno riproposto lo stesso schema ma con varianti fondamentali: un gruppo di detenuti condannati a lunghe pene accetta di girare un classico di Shakespeare come il “Giulio Cesare” nei locali di Rebibbia.
[+]
Nel 1989 Nanni Loy realizzò “Scugnizzi”, film incentrato sull’allestimento di un musical presso il San Carlo di Napoli con la partecipazione di ragazzi del riformatorio di Nisida. Le prove e le scene dello spettacolo si intrecciavano con le storie personali dei protagonisti (molti attori erano presi dalla strada) mediante l’alternarsi di piani temporali diversi, fino ad una conclusione tragica e speranzosa insieme. Il film non ebbe successo, sembra perché la commistione tra delinquenza (minorile) e arte non era ancora nelle corde del pubblico e della critica di allora. Ciò in cui fallì Loy è invece riuscito ai fratelli Taviani, che, genialmente, hanno riproposto lo stesso schema ma con varianti fondamentali: un gruppo di detenuti condannati a lunghe pene accetta di girare un classico di Shakespeare come il “Giulio Cesare” nei locali di Rebibbia. Non ci sono attori professionisti, ciascuno interpreta se stesso e si esprime nel proprio dialetto per marcare la propria individualità, la location non fuoriesce dai muri del carcere, l’opera scelta è una tragedia famosa che in qualche modo consente un’identificazione catartica degli interpreti; infatti potere, tradimento, sangue, delitto, onore, libertà, morte sono i temi forti che hanno contrassegnato le vite degli attori e che quindi consentono di creare un arco voltaico tra spettacolo teatrale e sfera evocativo-emozionale di ciascun interprete. A tutto vantaggio della ottimizzazione della recitazione, ma anche per dare ai reclusi un’occasione di riflessione sui propri errori e di ricreazione di un’identità inquinata dalla colpa. La vicenda, realizzata come una docu-fiction, si snoda sostanzialmente in tempo continuo; le divagazioni personali (interazioni e dialoghi intimi tra attori) sono appena accennate e rimangono nell’alveo del racconto in diretta, a differenza dei flash-back del film di Loy; i piani narrativi –prove, recita, momenti privati- si alternano e quasi si confondono armonicamente, con conseguente sfumatura dei confini tra finzione e realtà, fino a sfociare nell’apoteosi della rappresentazione finale che unisce idealmente recitanti e pubblico plaudente. Fine dello spettacolo, fine della temporanea fuga dalla dura realtà quotidiana; i detenuti, spogliati degli abiti di scena, rientrano nelle rispettive celle, un po’ mesti, un po’ forse arricchiti da un’esperienza che ha lasciato il segno, tra il rumore freddo ma ormai familiare delle serrature azionate dai secondini. I Taviani, genialmente, dopo aver introdotto il momento clou dello spettacolo –l’uccisione del tiranno- con colori cupi ma di forte contrasto, passano improvvisamente al bianco e nero, dando un segnale visivo di freddo grigiore che connota, fisicamente e psicologicamente, il luogo- simbolo della non libertà e orientando le sensazioni, ancora incerte, dello spettatore. Che, attraverso lo sviluppo del dramma rappresentato e i riferimenti ai drammi, questi veri e reali, degli attori-detenuti, prenderà coscienza di quanto sia potente, tra gli altri, l’effetto dell’arte di sublimazione ed elevazione dell’animo umano, anche di quello corrotto dalla colpa. “Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione”, elucubra “Cassio”. E se l’arte è massima sublimazione, il carcere per contrasto è uno degli aspetti più orridi della vita, come sembrano ricordarci le inquadrature esterne finali di Rebibbia, che richiamano il simbolico mostro marino dell’epilogo della Dolce vita.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a pepito1948 »
[ - ] lascia un commento a pepito1948 »
|
|
d'accordo? |
|
antonello chichiricco
|
mercoledì 3 ottobre 2012
|
anime schiacciate
|
|
|
|
L’ultima opera dei fratelli Taviani è indubbiamente un riuscito film-documento (modernamente definito con l’ennesimo anglicismo traslato dalla Tv: docufiction) che, impalcato sul parziale libero adattamento di Fabio Cavalli (presente lui stesso nel film) del dramma scespiriano “Giulio Cesare”, affronta con efficacia il terribile tema della reclusione.
Favorire lo sviluppo di percorsi d’integrazione sociale e inserimento lavorativo per un ex detenuto che esce dal carcere è certamente arduo, tuttavia produce discrete probabilità di successo. Salvaguardare la psiche e la dignità di un essere umano costretto dentro una cella per lunghissimi anni o per tutto il resto della sua vita è molto più difficile e delicato.
[+]
L’ultima opera dei fratelli Taviani è indubbiamente un riuscito film-documento (modernamente definito con l’ennesimo anglicismo traslato dalla Tv: docufiction) che, impalcato sul parziale libero adattamento di Fabio Cavalli (presente lui stesso nel film) del dramma scespiriano “Giulio Cesare”, affronta con efficacia il terribile tema della reclusione.
Favorire lo sviluppo di percorsi d’integrazione sociale e inserimento lavorativo per un ex detenuto che esce dal carcere è certamente arduo, tuttavia produce discrete probabilità di successo. Salvaguardare la psiche e la dignità di un essere umano costretto dentro una cella per lunghissimi anni o per tutto il resto della sua vita è molto più difficile e delicato. Lavoro, letture, studio, sono certamente utili ma presentano valenza soprattutto pedagogico-cognitiva. Mentre il laboratorio teatrale opportunamente intensificato e organizzato all’interno delle carceri potrebbe rappresentare per quegli esseri umani che “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” un formidabile strumento polivalente di recupero della propria integrità. Forse il più efficace. Una sorta di psicodramma metamorfico e liberatorio di rinvenimento individuale.
Mi spiego meglio. Recitare – e questo vale per qualunque attore – è un po’ entrare in un personaggio ricercandone in se stessi un approvvigionamento emotivo mediabile e differenziabile. Nel caso del detenuto-attore, anche se non ha mai recitato, si spalanca in più un contatto diretto con la coscienza di sé in un incontro istintuale col proprio Io disaffermato. Si dissotterra la sua anima schiacciata, spaventata, indurita, reclusa più del corpo stesso. In quel “recitare” convergono allora potentissime pulsioni quali disperazione, castrazioni affettive, reminiscenze, paure, spasimi vitali, rivendicazioni, rigurgiti d’orgoglio, spinte autodistruttive, sensi di colpa, vettori che emergono esplodendo in superficie, legittimati da una finzione che libera la loro autenticità ed innesca un’ebrezza catartica incontenibile. E’ troppo superficiale e semplificatorio quindi affermare “ma guarda che bravi attori si rivelano questi detenuti!”.
Felicemente adeguata, riconducente al neorealismo, la scelta - che mi piace pensare con-passionevole - del bianco e nero, dove forse per un carcerato i colori dell’anima restano Fuori (“quanto azzurro lassù…”).
Apprezzabili nel significato ma paradossalmente poco verosimili o mal rappresentati gl’inserti “veristi”, sui retroscena conflittuali e personali dei vari interpreti. Forse insistere di più con stacchi su prove e preparativi avrebbe rimarcato ulteriormente l’autenticità della recita accentuandone il lirismo.
Azzeccate le presentazioni degli attori con nomi e cognomi nonché marchio identificativo della durata della detenzione. Irresistibilmente struggente la frase finale di Cosimo Rega, alias Cassio: “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. E a proposito di frasi mi ha colpito negativamente quella tipica del gergo giuridico-carcerario, riportata nella scheda di alcuni interpreti: “fine pena: mai”. Un infelice locuzione inferta quale monito, secondo me concepita da un sadico con sottile perfidia. Quel “mai”, duro e inflessibile, suona tanto di crudele gratuita empietà, allora era meglio “ergastolo”, o “carcere a vita”.
Per concludere, un’opera di primaria importanza, che onora il cinema italiano (meritatissimo l’Orso d’oro di Berlino), che riporta l’attenzione su un dramma irrisolto della società civile e che conferma l’impegno e la coerenza dei “terribili vecchietti” Paolo e Vittorio Taviani.
Sarebbe interessante vedere un film analogo trasposto al femminile.
Antonello Chichiricco
[-]
|
|
[+] lascia un commento a antonello chichiricco »
[ - ] lascia un commento a antonello chichiricco »
|
|
d'accordo? |
|
amicinema
|
lunedì 12 marzo 2012
|
un testo e un film assoluto e necessario
|
|
|
|
Mi sento un uomo fortunato: in due giorni ho letto un magico libro italiano ("Mr Gwyn" di Baricco) e visto uno stufacente film di due ultraottantenni sempre italiani (appunto "Cesare deve morire").
Ho bevuto due distillati del miglior vino artistico italiano e sto ancora gustandomi con il pensiero ogni singola goccia, brivido dopo brivido.
Penso che il testo "Giulio Cesare" di Shakespeare sia un opera quasi perfetta, ogni parola e' incastonata stabilmente nel tessuto narrativo ed e' come se il suo posto non potesse che essere li', c'e' una assolutezza che quasi mi spaventa.
Questa impressione penso abbia sicuramente colpito anche i detenuti del carcere di Rebibbia che hanno fatto loro l'opera del bardo inglese come vestendo un abito gia' indossato in passato.
[+]
Mi sento un uomo fortunato: in due giorni ho letto un magico libro italiano ("Mr Gwyn" di Baricco) e visto uno stufacente film di due ultraottantenni sempre italiani (appunto "Cesare deve morire").
Ho bevuto due distillati del miglior vino artistico italiano e sto ancora gustandomi con il pensiero ogni singola goccia, brivido dopo brivido.
Penso che il testo "Giulio Cesare" di Shakespeare sia un opera quasi perfetta, ogni parola e' incastonata stabilmente nel tessuto narrativo ed e' come se il suo posto non potesse che essere li', c'e' una assolutezza che quasi mi spaventa.
Questa impressione penso abbia sicuramente colpito anche i detenuti del carcere di Rebibbia che hanno fatto loro l'opera del bardo inglese come vestendo un abito gia' indossato in passato.
Si perche' loro le vicende, i temi, gli odi, i dolori, i tradimenti di Cesare, Bruto, Cassio e Antonio le hanno conosciute veramente nella loro vita (e lo ricordano piu' volte nel film), quello che non hanno mai vissuto e' appunto l'assolutezza, la necessarietà estrema che anima i personaggi della tragedia. Hanno vestito un abito conosciuto, ma l'opera gli ha donato un anima, vogliamo essere piu' prosaici e chiamiamola consapevolezza, che non gli abbandonerà mai piu'.
Intenso, forte nel suo tragico bianco e nero (io lo avrei mantenuto anche nelle scene finali), pieno di scene magistrali, e' un film che da lustro davvero al nostro paese e a una coppia di registi ancora con la voglia di sperimentare e di osare strade non ancora battute. Insieme a "This must be the place" il piu' bel film italiano della stagione (mi restituisce fiducia dopo la brutta esperienza di Faenza...).
[-]
|
|
[+] lascia un commento a amicinema »
[ - ] lascia un commento a amicinema »
|
|
d'accordo? |
|
gianmarco.diroma
|
martedì 31 luglio 2012
|
'na cosa mia
|
|
|
|
"Chesta è 'na cosa mia!", dice Bruto/Salvatore Striano, rivolgendosi rabbioso al suo regista, quando il racconto che sta interpretando inizia a coinvolgerlo troppo. Mentre Marco Antonio/Antonio Frasca, preda dello stesso malore (frutto dei rischi insiti in una recita giocata in prima persona) risponde con un mutismo assordante, che lascia intuire spazi bui di un'anima che ha conosciuto l'inferno di chissà quali interrogatori.
La frase/battuta "chesta è 'na cosa mia!", pronunciata da Bruto/Salvatore ed il silenzio di cui si nutre la rabbia di Marco Antonio/Antonio, sono i due estremi entro i quali si muove il dramma shakespeariano (o scespiriano) del Giulio Cesare filmato tra le mure di Rebibbia dai fratelli Taviani.
[+]
"Chesta è 'na cosa mia!", dice Bruto/Salvatore Striano, rivolgendosi rabbioso al suo regista, quando il racconto che sta interpretando inizia a coinvolgerlo troppo. Mentre Marco Antonio/Antonio Frasca, preda dello stesso malore (frutto dei rischi insiti in una recita giocata in prima persona) risponde con un mutismo assordante, che lascia intuire spazi bui di un'anima che ha conosciuto l'inferno di chissà quali interrogatori.
La frase/battuta "chesta è 'na cosa mia!", pronunciata da Bruto/Salvatore ed il silenzio di cui si nutre la rabbia di Marco Antonio/Antonio, sono i due estremi entro i quali si muove il dramma shakespeariano (o scespiriano) del Giulio Cesare filmato tra le mure di Rebibbia dai fratelli Taviani. Nello spazio di una "cheba" (come si direbbe a Venezia), che per associazione evoca l'immagine di una gabbia qual è lo spazio della prigione, s'inscena il tempo dell'arte. Esiste il tempo dell'arte diceva Sun Tzu. Ed esiste il tempo della guerra. Curioso come l'Italia abbia rivoluzionato i codici linguistici dell'arte nel secolo scorso poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (con il Futurismo), e subito dopo la fine della Seconda (con il Neorealismo). Curioso come questi personaggi possano incarnare con tale intensità le parole del Bardo: sono detenuti nella vita prestati al cinema verità dei fratelli Taviani, persone che non solo hanno vissuto delle guerre durissime che si possono solo immaginare (e che hanno perso), ma che vivono in una condizione di guerra permanente (in guerra con il proprio passato, rappresentato dall'"essersi fidate di persone sbagliate" in un sistema-malavita in cui "anche i gabbiani hanno scelto di (o sono costretti ad) andarsi a sfamare nelle discariche", in guerra con il proprio presente, rappresentato dallo spazio angusto di un "buso", e con il proprio futuro, in cui diventa difficile pensare di potersi reintegrare). E tra la pieghe di questa macabra curiosità, in cui si cela un qualcosa di masturbatorio, si cela quella stellina mancante per giudicare (con tutta l'umiltà possibile e con il rispetto necessario che Paolo e Vittorio Taviani meritano) questo film un capolavoro. Perché il film si chiude con questa battuta (più o meno), pronunciata da Cosimo Rega/Cassio: "Da quando ho conosciuto l'arte, questa stanza è diventata veramente una prigione". Perché chiudendo il film con questa battuta si è voluto elogiare la forza liberatrice dell'arte, trascurando però le cause che hanno permesso a questo film di essere un'opera d'arte a tutti gli effetti: la prigionia forzata dei suoi protagonisti, ovvero la condizione necessaria per la riuscita di questa operazione! E quindi diventa ancora più curioso constatare una reale corrispondenza tra i personaggi e i detenuti scelti per interpretarli. Se ne scelgono due in questa sede: Bruto e Marco Antonio. Bruto è una sorta di "pasionaria" repubblicana che quando il gioco si fa duro, non si riesce a trattenere ed urla al proprio regista, "chesta è 'na cosa mia!". Marco Antonio sceglie la via del silenzio quando il dolore della sua interpretazione si fa troppo pressante ed interpreta colui che con grande abilità politica obbligherà Bruto (e Cassio) alla fuga e alla battaglia (e alla sconfitta e al suicidio). Da una parte lo sfogo femmineo quindi, dall'altra il rigore del silenzio. Da una parte quindi la biografia spettacolarizzata di Salvatore Striano. Dall'altra il silenzio di Antonio Frasca.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a gianmarco.diroma »
[ - ] lascia un commento a gianmarco.diroma »
|
|
d'accordo? |
|
donni romani
|
venerdì 21 settembre 2012
|
shakespeare a rebibbia
|
|
|
|
Coraggioso Orso d'oro al Festival di Berlino - coraggioso perchè il film dura poco più di un'ora, perchè la pellicola è in bianco e nero, perchè gli attori sono dilettanti e perchè "profanare" Shakespeare facendolo recitare in dialetto è una magia riuscita a pochi - arriva in sala l'ultima fatica dei fratelli Taviani e spiazza anche i puristi, anche chi Shakespeare è abituato a sentirlo recitare da attori come Sir Lawrence Olivier o Kenneth Branagh. Perchè il gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia cui è affidato il compito di allestire il "Giulio Cesare" di Shakespeare mettono in scena non solo i versi immortali e mai tanto attuali - fatti di arrivismo, tradimento e congiure politiche - del Bardo, ma anche le loro storie, il loro vissuto doloroso, la delusione e il fallimento di una intera esistenza.
[+]
Coraggioso Orso d'oro al Festival di Berlino - coraggioso perchè il film dura poco più di un'ora, perchè la pellicola è in bianco e nero, perchè gli attori sono dilettanti e perchè "profanare" Shakespeare facendolo recitare in dialetto è una magia riuscita a pochi - arriva in sala l'ultima fatica dei fratelli Taviani e spiazza anche i puristi, anche chi Shakespeare è abituato a sentirlo recitare da attori come Sir Lawrence Olivier o Kenneth Branagh. Perchè il gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia cui è affidato il compito di allestire il "Giulio Cesare" di Shakespeare mettono in scena non solo i versi immortali e mai tanto attuali - fatti di arrivismo, tradimento e congiure politiche - del Bardo, ma anche le loro storie, il loro vissuto doloroso, la delusione e il fallimento di una intera esistenza. E danno vita, e voci roche, e volti scavati, e corpi provati, ad un'opera che è insieme testimonianza del potere dell'arte, afflato di partecipazione umana ad un progetto comune, rivincita verso se stessi e verso il destino, e non ultimo, una messa in scena appassionata, in cui ogni battuta è stata provata centinaia di volte, nel silenzio di una cella, nascosti in cortile, per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stessi, che se pur estromessi dal mondo civile si ha ancora un'anima cui aggrapparsi. La messa in scena è semplicemente magistrale, le scene si sovrappongono e gli spazi entro cui si provano i dialoghi si aprono come se fossero davvero i Fori Romani. I protagonisti, da Cesare, a Bruto, a Cassio, ad Antonio, hanno il merito di mettere in palcoscenico tutte le loro fragilità, tutta la violenza in cui sono cresciuti, tutta la voglia di riscatto - due di loro hanno poi scritto un libro, un terzo è diventato attore dopo aver scontato la sua pena - ma è ai grandi registi che sono i fratelli Taviani che va il merito di aver saputo maneggiare tematiche più che scottanti senza mai calcare la mano o prendere una posizione politica, ma di aver semplicemente fatto dell'arte pura, vera, cinematograficamente impeccabile ed umanamente emozionante.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a donni romani »
[ - ] lascia un commento a donni romani »
|
|
d'accordo? |
|
chiarialessandro
|
giovedì 15 marzo 2012
|
come re mida
|
|
|
|
Il buon cinema è talvolta paragonabile alla grande cucina, nel senso che un cuoco dotato di tutti gli attributi non ha necessità di caviale, tartufo bianco o aragosta per preparare un pranzo con i fiocchi; allo stesso modo, un (due) regista in stato di grazia non ha bisogno di trame complicate per realizzare un’opera d’arte; “Cesare deve morire” ne è la prova incontestabile. La trama è infatti di una semplicità quasi elementare: parla di un gruppo di detenuti che deve rappresentare teatralmente l’opera di Shakespeare. Vi lascio immaginare pure quella che possa essere la scenografia (quattro pareti e poco più) oppure i costumi di un gruppo di carcerati (talmente essenziali che forse riuscirei a farli anche io).
[+]
Il buon cinema è talvolta paragonabile alla grande cucina, nel senso che un cuoco dotato di tutti gli attributi non ha necessità di caviale, tartufo bianco o aragosta per preparare un pranzo con i fiocchi; allo stesso modo, un (due) regista in stato di grazia non ha bisogno di trame complicate per realizzare un’opera d’arte; “Cesare deve morire” ne è la prova incontestabile. La trama è infatti di una semplicità quasi elementare: parla di un gruppo di detenuti che deve rappresentare teatralmente l’opera di Shakespeare. Vi lascio immaginare pure quella che possa essere la scenografia (quattro pareti e poco più) oppure i costumi di un gruppo di carcerati (talmente essenziali che forse riuscirei a farli anche io). Ma allora forse qualcuno si chiederà se e cosa mai ci possa essere in questa opera; risposta semplice semplice: potenza, forza espressiva (aumentata dall’uso del vecchio e caro “bianco e nero”), visionarietà, umanità, sensibilità, condivisione, partecipazione, ispirazione, recitazione, intensità, fiducia, creatività, scommesse, passato, presente, futuro, (oserei dire passati, presenti, futuri), rimorsi, riscatto, ispirazione, arte, vita, creatività, indipendenza, coraggio (follia?). Non è facile raccontare con le parole i sentimenti e le emozioni che nascono durante la visione di questa meraviglia; molto più semplice e gratificante andare al cinema. Da non scordare un concetto, emblematico ma non esaustivo, espresso da uno degli attori: “Il carcere è diventato una prigione da quando ho conosciuto l’arte”.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a chiarialessandro »
[ - ] lascia un commento a chiarialessandro »
|
|
d'accordo? |
|
aleister
|
mercoledì 14 novembre 2012
|
cesare deve morire: arte e redenzione
|
|
|
|
Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo.
[+]
Quando si parla di sperimentalismo, non necessariamente bisogna pensare ad una sorta di salto a occhi chiusi nel vuoto, ad un viaggio verso ''territori'' inesplorati in qualunque ambito artistico, anzi molte volte con questo termine possiamo riferirci alla fusione e la conseguente ripresa di stili, modi di rappresentazione più o meno illustri del passato, tesi però verso nuovi obiettivi. Con questo Cesare Deve Morire, i fratelli Taviani ( Padre Padrone, Kaos, Tu ridi) sembrano seguire proprio questa forma di sperimentalismo.
Il film infatti è stato definito un docu-film, poichè riprende le prove e la messa in scena del Giulio Cesare di W. Shakespeare, di un gruppo di attori se vogliamo non convenzionale: infatti, gli interpreti di questo dramma storico sono i carcerati reclusi nel settore di massima sicurezza di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Tutti gli attori-carcerati sono condannati a pene che ammontano a diversi anni di carcere o all'ergastolo stesso, avendo compiuto gravissimi reati, fra i più disparati. Veniamo a sapere durante i provini degli stessi carcerati per entrare a far parte del cast, le loro generalità, il reato commesso e il tipo di pena da scontare. Un realismo estremo contraddistingue le prime sequenze del film: veniamo infatti direttamente a conoscenza delle informazioni basilari riguardo a dei pluriomicidi, spacciatori, mafiosi. Già dai provini risulta assolutamente evidente dai volti, dalle parole e dai gesti di questi individui, il loro stato di emarginazione, abbrutimento, disperazione. Ma queste sequenze danno corpo semplicemente all'incipit, il film infatti non ha come scopo principale quello di documentare una condizione umana ormai degradata. Il film documenta una presa di coscienza, un rinnovamento morale di un gruppo di carcerati, semplicemente riprendendo le prove di ogni scena del dramma, il costante studio delle battute soprattutto da parte degli attori protagonisti, gli interpreti di Bruto, Cesare e Cassio, fino ad arrivare alle scene finali in teatro della battaglia di Filippi e del suicidio dei due cesaricidi. Non è un Giulio Cesare convenzionale quello interpretato dai carcerati di Rebibbia: infatti, ogni attore recita le battute nel proprio dialetto di origine, chi in napoletano, chi in romanesco, con brevi passaggi in italiano. L'influenza del neorealismo italiano è evidente da questi primi particolari: a recitare non sono attori professionisti, ma gente ''della strada'', carcerati in questo caso. Non meno palese è il retaggio di Pasolini, per cui gli attori ,presi dalla strada, parlano il loro dialetto, per esprimere in modo autentico, immediato, vero, pur mantenendosi nella finzione, le passioni che emergono dalle loro parole, come nei film del regista-scrittore romagnolo. Man mano che si va avanti con le prove delle scene, una convinzione sempre più forte comincia a insinuarsi fra gli attori-carcerati, ciò che essi stanno facendo e dicendo solo per finta, non li ha semplicemente aiutati ad uscire da una condizione da reclusi, emarginati: questi individui sono entrati in una dimensione fino ad allora a loro sconosciuta, l'arte. I carcerati così, scoprono la libertà espressiva di cui l'arte è garante; cominciano a rendersi conto che quelle stesse passioni di cui quei personaggi furono portatori restano immortali grazie alla rappresentazione teatrale, grazie al loro sforzo in questo caso, di far rivivere quelle passioni. In definitiva, la scoperta dell'arte provoca nei carcerati la presa di coscienza di una superiore forma di libertà; cosicchè si ha la sensazione che ogni scena del dramma shakespeariano recitata dal gruppo di carcerati arrivi ad assumere un'aura epica, solenne: ogni dialogo fra i congiurati, ogni monologo, rappresenta nella finzione del dramma quanto per gli stessi carcerati, un passo avanti verso una sorta di ''avvaloramento'', ma soprattutto di pura redenzione morale. Quale tragedia avrebbe potuto esprimere meglio questi sentimenti, se non il dramma per antonomasia sulla lotta titanica contro il tiranno per la conquista della libertà, il Giulio Cesare? E' cosi che in questo film, grazie a questo particolare esperimento (neo)realista di teatro nel cinema, emerge dalla finzione scenica la pura verità sulla natura ancora profondamente e disperatamente umana di questi carcerati, che arrivano a identificarsi e immedesimarsi più che nella mente, nell'anima stessa dei loro personaggi, di Cesare, di Bruto, di Cassio, di Antonio. Ecco che nel film sorge spontanea la riflessione sul significato della recitazione, dell'interpretazione: non si tratta della semplice identificazione con una maschera fittizia, ma essa è tale se viene a crearsi l'amore vero e proprio per un personaggio, una condivisione di passioni e ideali. Il carcerato che interpreta Cesare, arriva a considerare il suo personaggio ''un genio'', l'interprete di Bruto prova con impegno maniacale le sue battute tanto è rimasto sedotto dalla tragica vicenda del cesaricida, in cui sembra quasi rivivere fatti di sangue di cui lui stesso fu testimone o protagonista. L'esperienza artistica-teatrale cambia radicalmente questi uomini, ma dopo la fine della rappresentazione teatrale, gli ''attori di Rebibbia'' tornano nelle loro celle, carichi di una nuova, tragica consapevolezza. Infatti, l'interprete di Cassio, rinchiuso nella sua cella, dopo qualche secondo di silenzio amaramente afferma:'' Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione''. La libertà interiore raggiunta grazie all'arte, ha reso pienamente consapevoli i carcerati della loro condizione, in cui sembra ormai impossibile esprimere se stessi a causa della reclusione. Questi uomini si rendono conto dell'altra faccia dell'arte, la sua natura illusoria, fittizia, appunto perchè libera creazione, ma che per qualunque uomo, e più che mai per condannati all'ergastolo o ad anni di prigione, può diventare più reale e straordinaria della vita stessa.
Tutto ciò viene espresso stilisticamente da uno splendido bianco e nero per tutte le scene del film ambientate nel carcere, che esprime perfettamente il senso di prigionia, aridità, inquietudine, e che nei moltissimi primi piani e nei campi lunghi delle scene di gruppo, come la riunione per il giuramento dei congiurati e dell'assassinio di Cesare, dona anche l'atmosfera di tragicità e maestosità per un Giulio Cesare girato direttamente in carcere per giunta.
Questa pellicola pertanto, raggiunge per questi motivi un livello di eccellenza tale che ha pochissimi paragoni nel cinema italiano di questi ultimi anni, poichè la potenza visiva e comunicativa del film grazie alla sintesi di vita e arte, di verità e finzione, di Shakespeare e cinema, ha dato vita ad un'opera unica nel suo genere. Cesare deve morire è stato il film italiano scelto per partecipare agli Academy Awards del 2013 fra le pellicole che concorrono per aggiudicarsi l'Oscar al miglior film straniero. Il cinema italiano rappresentato dai precedenti Gomorra scelto nel 2009 e Terraferma nel 2012, non ebbe attribuita la statuetta, nonostante l'indiscutibile qualità superiore di queste pellicole, ma forse, il film dei Taviani riuscirà finalmente a ridare un po' di lustro ufficiale al nostro martoriato cinema, dopo l'ultimo Oscar a La Vita è Bella di Benigni nel '99.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a aleister »
[ - ] lascia un commento a aleister »
|
|
d'accordo? |
|
fukaeri
|
giovedì 28 giugno 2012
|
shakespeare a rebibbia
|
|
|
|
Favoloso film del fratelli Taviani, come dimostra il meritatissimo Orso d'Oro che si sono aggiudicati a Berlino.
Tratta della rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia, i quali riescono ad attualizzarlo a tal punto, da rivedersi negli stessi personaggi che interpretano. Questo parallelismo tra rappresentazione e realtà viene esaltato ancora più da quelle che sono le principali caratteristiche di questi detenuti-attori: il senso dell'onore, del rispetto, la vendetta..
Si assiste quindi, a una meravigliosa recitazione, profonda e significativa che risalta la sofferenza e la rabbia dei protagnisti.
[+]
Favoloso film del fratelli Taviani, come dimostra il meritatissimo Orso d'Oro che si sono aggiudicati a Berlino.
Tratta della rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia, i quali riescono ad attualizzarlo a tal punto, da rivedersi negli stessi personaggi che interpretano. Questo parallelismo tra rappresentazione e realtà viene esaltato ancora più da quelle che sono le principali caratteristiche di questi detenuti-attori: il senso dell'onore, del rispetto, la vendetta..
Si assiste quindi, a una meravigliosa recitazione, profonda e significativa che risalta la sofferenza e la rabbia dei protagnisti.
"Cesare deve morire" non è un semplice film, ne un documentario; ma un filo conduttore tra cinema, teatro e vita.
Ottima la scelta del bianco e nero che esalta la narrazione, così come l'utilizzo dei vari dialetti.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a fukaeri »
[ - ] lascia un commento a fukaeri »
|
|
d'accordo? |
|
rosemberg
|
lunedì 2 dicembre 2013
|
sta' cella me pare na' prigione
|
|
|
|
Con una frase memorabile termina il docu-dramma dei fratelli Taviani (meritatissimo orso d'oro al festival di Berlino del 2012) intitolato "Cesare deve morire": siamo in una cella,precisamente nella cella dove alloggia un certo Cosimo Rega,delinquente di primissimo ordine che,dopo aver recitato la parte di Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare dice :"Da quando ho conosciuto l'arte sta' cella me pare na' prigione". La storia si svolge nel carcere di Rebibbia,dove il il regista teatrale Fabio Cavalli sceglie di mettere in atto per l'opera teatrale annuale il famoso dramma shakespeariano e di farlo interpretare (l'avrete capito) dagli stessi carcerati.
[+]
Con una frase memorabile termina il docu-dramma dei fratelli Taviani (meritatissimo orso d'oro al festival di Berlino del 2012) intitolato "Cesare deve morire": siamo in una cella,precisamente nella cella dove alloggia un certo Cosimo Rega,delinquente di primissimo ordine che,dopo aver recitato la parte di Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare dice :"Da quando ho conosciuto l'arte sta' cella me pare na' prigione". La storia si svolge nel carcere di Rebibbia,dove il il regista teatrale Fabio Cavalli sceglie di mettere in atto per l'opera teatrale annuale il famoso dramma shakespeariano e di farlo interpretare (l'avrete capito) dagli stessi carcerati. La cosa di per sé è audace e particolarmente "umana",ma non straordinaria quanto il fatto di farli recitare ognuno nel suo dialetto di origine. E così abbiamo un Giulio Cesare che parla un romanaccio da nobile,un Bruto che si esprime usando una specie di napoletano-casertano,un Cassio napoletano per eccellenza,un Decio pugliese e così via. Varie sono le parti memorabili di questo film di 76 minuti,vari i momenti in cui,nonostante l'enfasi delle prove e l'assoluta partecipazione emotiva dei carcerati riusciamo,noi miseri spettatori,a cogliere la frustrazione e il dolore di uomini costretti a vivere 24 ore su 24 in gabbia. E così di notte assistiamo,o meglio ascoltiamo,i pensieri di uomini che,a causa di strade inaffidabili (bella la scena in cui "Cassio" dice di avere l'impressione che Shakespeare sia vissuto per le vie più malfamate di Napoli) o di scelte di vita quasi obbligate,si ritrovano in galera,lontani da tutto,lontani dal mondo. Alla fine quello che rimane della trama è il ritorno di uomini sconfitti alle loro gabbie,accompagnati da semplici guardiani nei loro personalissimi e silenziosi inferni di cemento. L'arte non li salverà da niente,ma questa non è certo una novità. Ed è questa consapevolezza a rendere il film meno banale di quel che sembrava inizialmente.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a rosemberg »
[ - ] lascia un commento a rosemberg »
|
|
d'accordo? |
|
|