jaylee
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domenica 4 ottobre 2020
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tutto quello che ci piace, e non, dell’america
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Sembra proprio che tocchi ai canali internet via internet (accusati di mettere in crisi i circuiti delle sale cinematografiche) a tenere alto il livello di produzione di quello che si vede in sala: in un periodo in cui, con l’eccezione del Tenet di Nolan, davanti al grande schermo si vedono fondi di magazzino in attesa di riaprire al 100% le sale, sembra paradossale che sia Netflix a produrre i tradizionali colossal made in USA. Prima The Irishman di Scorsese, ora Il Processo ai Chicago 7, che originariamente avrebbe dovuto essere diretto da Spielberg (invece ora solo prodotto dalla Dreamworks del buon Steven) ed uscire qualche anno fa.
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Sembra proprio che tocchi ai canali internet via internet (accusati di mettere in crisi i circuiti delle sale cinematografiche) a tenere alto il livello di produzione di quello che si vede in sala: in un periodo in cui, con l’eccezione del Tenet di Nolan, davanti al grande schermo si vedono fondi di magazzino in attesa di riaprire al 100% le sale, sembra paradossale che sia Netflix a produrre i tradizionali colossal made in USA. Prima The Irishman di Scorsese, ora Il Processo ai Chicago 7, che originariamente avrebbe dovuto essere diretto da Spielberg (invece ora solo prodotto dalla Dreamworks del buon Steven) ed uscire qualche anno fa.
Siamo nel 1968: le elezioni prevedono come candidati Nixon e Humphries, entrambi candidati considerati troppo conservatori dai movimenti di sinistra: vengono organizzate delle proteste pacifiche a Chicago, sede del Partito Democratico, ma queste proteste sfoceranno in sanguinosi scontri con la polizia locale. 7 dei leader della dimostrazione vengono incriminati dalla nuova amministrazione Nixon per cospirazione; e per buona misura viene anche incluso Bobby Seale, leader del movimento dei Black Panthers, che il giorno della dimostrazione, stava facendo un discorso a Chicago. Il Processo si rivela subito estremamente ostile verso gli imputati, e gli avvocati Kunstler e Weinglass, capiscono da subito (senza volerlo ammettere davanti agli altri) che si tratta di un processo politico a tutti gli oppositori del Vietnam.
Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin, uno dei migliori sceneggiatori della Hollywood “impegnata” degli ultimi 40 anni (suoi Codice D’Onore, The Social Network, Moneyball, e altri), ma solo alla sua seconda regia, porta sullo schermo una storia poco nota da noi, ma che in questo periodo in cui la politica soffoca la libera espressione delle persone, è quello che si direbbe un film “necessario”. Alcune delle scene, reali anche se drammatizzate, fanno accapponare la pelle a qualunque persona che abbia a cuore la giustizia e la libertà e ci sono di monito, tra cui quella in cui Bobby Seale (l’imputato nero, al quale fu negato il diritto di avere un proprio avvocato) viene letteralmente legato ed imbavagliato in aula e quella dove i poliziotti si tolgono il distintivo e la targhetta del nome prima di spingere i dimostranti dentro una vetrina per arrestarli. D’altro canto, fu anche un esempio in cui il sistema giudiziale USA riuscì a correggere i propri errori, e ci è di esempio. Curioso che un film che sarebbe dovuto uscire anni fa, esce quasi provvidenzialmente in un periodo critico della politica USA, e davvero dovrebbe essere visto da tanta gente.
Il Processo ai Chicago 7 è di impianto classico, ma non scontato (il racconto degli scontri ad esempio, avviene in una serie di flashback non lineari raccontati dagli imputati), ed inizia nell’ufficio del Ministro della Giustizia, neo-nominato da Nixon, che “incarica” letteralmente il Pubblico Ministero (un Joseph Gordon-Levitt con una recitazione tranquilla ma per niente noiosa) di vincere la causa a qualunque costo (e con qualunque mezzo, lo stile di Nixon era quello), per far capire che quello che si sarebbe visto sarebbe stato una farsa in un’aula di giustizia, con un giudice (Frank Langella, strepitoso) che evidentemente non avrebbe dato una chance agli imputati. Dove il film manca in originalità, potrebbe essere stato tranquillamente girato 20 anni fa sia come fotografia, musica, ecc., è ampiamente ripagato da una sceneggiatura di altissimo livello (2 ore he incollano allo schermo), e delle interpretazioni, individuali e corali, che lasciano il segno. Oltre ai già citati Gordon-Levitt e Langella, menzioni d’onore per Sacha Baron Cohen (il deflagrante Abbie Hoffmann) che pronuncerà una delle linee più memorabili della pellicola (“nessuno mi ha mai processato per i miei pensieri fino ad ora” – forse la sintesi migliore di tutto quello che successe in quell’aula), Mark Rylance (l’avvocato attivista) e Michael Keaton (che in 10 minuti scarsi sullo schermo ruba la scena). A dimostrazione che, alla fine, le emozioni vengono suscitate dalle storie e da chi le racconta, il resto è tecnica. Questo è grande cinema. Anche sul piccolo schermo. (www.versionekowalski.it)
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jaylee
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domenica 4 ottobre 2020
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tutto quello che ci piace, e non, dell''america
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Sembra proprio che tocchi ai canali internet via internet (accusati di mettere in crisi i circuiti delle sale cinematografiche) a tenere alto il livello di produzione di quello che si vede in sala: in un periodo in cui, con l’eccezione del Tenet di Nolan, davanti al grande schermo si vedono fondi di magazzino in attesa di riaprire al 100% le sale, sembra paradossale che sia Netflix a produrre i tradizionali colossal made in USA. Prima The Irishman di Scorsese, ora Il Processo ai Chicago 7, che originariamente avrebbe dovuto essere diretto da Spielberg (invece ora solo prodotto dalla Dreamworks del buon Steven) ed uscire qualche anno fa.
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Sembra proprio che tocchi ai canali internet via internet (accusati di mettere in crisi i circuiti delle sale cinematografiche) a tenere alto il livello di produzione di quello che si vede in sala: in un periodo in cui, con l’eccezione del Tenet di Nolan, davanti al grande schermo si vedono fondi di magazzino in attesa di riaprire al 100% le sale, sembra paradossale che sia Netflix a produrre i tradizionali colossal made in USA. Prima The Irishman di Scorsese, ora Il Processo ai Chicago 7, che originariamente avrebbe dovuto essere diretto da Spielberg (invece ora solo prodotto dalla Dreamworks del buon Steven) ed uscire qualche anno fa.
Siamo nel 1968: le elezioni prevedono come candidati Nixon e Humphries, entrambi candidati considerati troppo conservatori dai movimenti di sinistra: vengono organizzate delle proteste pacifiche a Chicago, sede del Partito Democratico, ma queste proteste sfoceranno in sanguinosi scontri con la polizia locale. 7 dei leader della dimostrazione vengono incriminati dalla nuova amministrazione Nixon per cospirazione; e per buona misura viene anche incluso Bobby Seale, leader del movimento dei Black Panthers, che il giorno della dimostrazione, stava facendo un discorso a Chicago. Il Processo si rivela subito estremamente ostile verso gli imputati, e gli avvocati Kunstler e Weinglass, capiscono da subito (senza volerlo ammettere davanti agli altri) che si tratta di un processo politico a tutti gli oppositori del Vietnam.
Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin, uno dei migliori sceneggiatori della Hollywood “impegnata” degli ultimi 40 anni (suoi Codice D’Onore, The Social Network, Moneyball, e altri), ma solo alla sua seconda regia, porta sullo schermo una storia poco nota da noi, ma che in questo periodo in cui la politica soffoca la libera espressione delle persone, è quello che si direbbe un film “necessario”. Alcune delle scene, reali anche se drammatizzate, fanno accapponare la pelle a qualunque persona che abbia a cuore la giustizia e la libertà e ci sono di monito, tra cui quella in cui Bobby Seale (l’imputato nero, al quale fu negato il diritto di avere un proprio avvocato) viene letteralmente legato ed imbavagliato in aula e quella dove i poliziotti si tolgono il distintivo e la targhetta del nome prima di spingere i dimostranti dentro una vetrina per arrestarli. D’altro canto, fu anche un esempio in cui il sistema giudiziale USA riuscì a correggere i propri errori, e ci è di esempio. Curioso che un film che sarebbe dovuto uscire anni fa, esce quasi provvidenzialmente in un periodo critico della politica USA, e davvero dovrebbe essere visto da tanta gente.
Il Processo ai Chicago 7 è di impianto classico, ma non scontato (il racconto degli scontri ad esempio, avviene in una serie di flashback non lineari raccontati dagli imputati), ed inizia nell’ufficio del Ministro della Giustizia, neo-nominato da Nixon, che “incarica” letteralmente il Pubblico Ministero (un Joseph Gordon-Levitt con una recitazione tranquilla ma per niente noiosa) di vincere la causa a qualunque costo (e con qualunque mezzo, lo stile di Nixon era quello), per far capire che quello che si sarebbe visto sarebbe stato una farsa in un’aula di giustizia, con un giudice (Frank Langella, strepitoso) che evidentemente non avrebbe dato una chance agli imputati. Dove il film manca in originalità, potrebbe essere stato tranquillamente girato 20 anni fa sia come fotografia, musica, ecc., è ampiamente ripagato da una sceneggiatura di altissimo livello (2 ore he incollano allo schermo), e delle interpretazioni, individuali e corali, che lasciano il segno. Oltre ai già citati Gordon-Levitt e Langella, menzioni d’onore per Sacha Baron Cohen (il deflagrante Abbie Hoffmann) che pronuncerà una delle linee più memorabili della pellicola (“nessuno mi ha mai processato per i miei pensieri fino ad ora” – forse la sintesi migliore di tutto quello che successe in quell’aula), Mark Rylance (l’avvocato attivista) e Michael Keaton (che in 10 minuti scarsi sullo schermo ruba la scena). A dimostrazione che, alla fine, le emozioni vengono suscitate dalle storie e da chi le racconta, il resto è tecnica. Questo è grande cinema. Anche sul piccolo schermo. (www.versionekowalski.it)
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felicity
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martedì 12 gennaio 2021
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in memoria delle vittime delle lotte del passato
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Il processo ai Chicago 7 parla delle tensioni negli USA di oggi, tra presidenti guerrafondai, guardie che nascondono distintivo e targhetta identificativa prima di picchiare senza pietà, eserciti per le strade, sbirri infiltrati tra le fila dei movimenti, e pugni chiusi di protesta librati in aria.
La confezione hollywoodiana garantita dalla co-produzione Dreamworks mantiene il Sorkin regista su binari decisamente più saldi del suo problematico esordio e chiaramente ancora una volta la differenza la fanno gli interpreti, con il fenomenale duo Baron Cohen/Jeremy Strong che spande la maggiore carica intergenerazionale.
Il processo ai Chicago 7 è uno di quei film che più lo guardi e più senti crescere dentro una tale rabbia, ma anche disprezzo, per quello che è stato, e quello che sfortunatamente ancora è.
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Il processo ai Chicago 7 parla delle tensioni negli USA di oggi, tra presidenti guerrafondai, guardie che nascondono distintivo e targhetta identificativa prima di picchiare senza pietà, eserciti per le strade, sbirri infiltrati tra le fila dei movimenti, e pugni chiusi di protesta librati in aria.
La confezione hollywoodiana garantita dalla co-produzione Dreamworks mantiene il Sorkin regista su binari decisamente più saldi del suo problematico esordio e chiaramente ancora una volta la differenza la fanno gli interpreti, con il fenomenale duo Baron Cohen/Jeremy Strong che spande la maggiore carica intergenerazionale.
Il processo ai Chicago 7 è uno di quei film che più lo guardi e più senti crescere dentro una tale rabbia, ma anche disprezzo, per quello che è stato, e quello che sfortunatamente ancora è.
Si, perché nonostante il film di Aaron Sorkin tratti di eventi avvenuti nel “lontano” 1969, risuonano attualissimi e forti ancora oggi, e sono un’eredità di cui è difficile liberarsi. E proprio per questo che questo film si aggiunge ad una lunga lista di film necessari, necessariamente arrabbiati, che giocano l’importantissimo ruolo di ricordare quello che non deve essere più.
Il racconto, il cuore pulsante del film, taglia nelle sue due ore e poco più un processo, o meglio farsa, che ha estenuato per le sue 180 sedute gli imputati colpevoli solo di professare una diversa fede politica.
Il susseguirsi dei momenti centrali della storia finiscono con lo stremare anche lo spettatore, inorridito dalla legalità delle barbarie promosse dalla “giustizia” americana. Ma Sorkin non si lascia mai sopraffare dall’emotività, eludendo lo scontro ideologico e muovendosi al di sopra, con la semplice intenzione di mettere in scena uno spregevole capitolo dei bellicosi anni ’60.
Il processo ai Chicago 7 viene gestito con capacità ed eleganza che tutto, ogni scena e ogni personaggio, si trova perfettamente al suo posto all’interno di una struttura filmica serratissima.
Attorno alle singole figure, che solo raramente agiscono individualmente e che si muovono come una macchina corale, si costruisce il dramma legale che smaschera il circo mediatico del processo. Su tutto troneggia il gigante Frank Langella nei panni dello spregevole giudice Hoffman, conduttore e pagliaccio di questo circo.
Di fronte, sul tavolo degli imputati i 7 costituiscono, compatti, l’ossatura del film. Ma proprio quei personaggi, seppur interpretati magistralmente da ognuno degli attori chiamati a recitare la parte, sono investiti, come il film stesso, di una patina che sembra purtroppo l’unica pecca di un film altrimenti perfetto.
Ne scaturisce un’atmosfera stantia, che si percepisce con forza nel personaggio dell’avvocato dell’accusa Richard Shultz, che sembra ricucito addosso a personaggi proveniente da un altro mondo, tra Gary Cooper e James Stewart.
Nelle grida di denuncia del film di Sorkin riecheggiano le voci di un’Hollywood d’oro che si confronta, e si scontra, con le necessità di un cinema crudo e di spessore sociale.
Il film metabolizza l’indignazione nei confronti di un governo che abusa del proprio potere, ieri come oggi.
Da Il processo ai Chicago 7 emerge uno spirito popolare che avverte ed incita, necessariamente, alla memoria delle vittime e dei martiri delle lotte passate, e di quelle presenti. Risulta impossibile non unirsi al grido, o meglio, allo sfogo, di protesta che echeggia in quell’aula di tribunale, segno della grande componente emozionale ed emotiva del film di Sorkin.
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paolp78
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mercoledì 14 settembre 2022
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faziosissimo, ma non disturba
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Il cinema a volte racconta episodi storici che hanno avuto un importante valore politico e sociale; in questi casi difficilmente la pellicola riesce a mantenersi obiettiva, del resto non è questo il compito a cui deve mirare, tuttavia quando si valicano certi limiti l’opera sembra scordarsi anche i canoni estetici e di intrattenimento a cui invece deve mirare, divenendo un prodotto poco attrattivo, appunto perché concentrato nel narrare in modo fazioso i fatti oggetto della rappresentazione.
Questa pellicola diretta e sceneggiata da Aaron Sorkin costituisce una piacevole eccezione alla regola sopra enunciata; non si può di certo dire che non si tratti di un film oltremodo schierato, tuttavia Sorkin riesce a confezionare un prodotto accattivante ed estremamente godibile, anche per coloro che non condividono il suo punto di vista.
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Il cinema a volte racconta episodi storici che hanno avuto un importante valore politico e sociale; in questi casi difficilmente la pellicola riesce a mantenersi obiettiva, del resto non è questo il compito a cui deve mirare, tuttavia quando si valicano certi limiti l’opera sembra scordarsi anche i canoni estetici e di intrattenimento a cui invece deve mirare, divenendo un prodotto poco attrattivo, appunto perché concentrato nel narrare in modo fazioso i fatti oggetto della rappresentazione.
Questa pellicola diretta e sceneggiata da Aaron Sorkin costituisce una piacevole eccezione alla regola sopra enunciata; non si può di certo dire che non si tratti di un film oltremodo schierato, tuttavia Sorkin riesce a confezionare un prodotto accattivante ed estremamente godibile, anche per coloro che non condividono il suo punto di vista.
La sceneggiatura è l’elemento che fa la differenza. I processi sono sempre apparsi una delle attività che meglio si prestano ad essere rappresentate sul grande schermo; questo particolare processo, che pure nella realtà fu estremamente spettacolare, mediatico e pieno di colpi di scena, esalta tale regola offrendo a Sorkin la base ideale per scrivere una perfetta opera cinematografica.
Ottimo il ritmo incalzante del film, garantito dalle avvincenti fasi processuali; buona la scelta di ricorrere a continui flashback che sostituiscono le deposizioni aiutando efficacemente la scorrevolezza della narrazione.
Altro elemento di forza del film è il cast corale davvero di alto livello. Tra i tanti ottimi interpreti che lo compongono i due che mi sono rimasti più impressi sono quelli più in là con gli anni, ovvero l’inglese Mark Rylance, che interpreta l’avvocato difensore, e il bravissimo Frank Langella nella parte del giudice ostile: le scaramucce verbali tra i due sono spassosissime. Molto bravi anche Sacha Baron Cohen e Eddie Redmayne che interpretano rispettivamente i noti attivisti Abbie Hoffman e Tom Hayden, oltre che Joseph Gordon-Levitt, molto convincente come procuratore che sostiene l’accusa, pur non credendola fondata. Si ricordano infine Michael Keaton in una parte di scarso minutaggio ed i bravi caratteristi John Carroll Lynch, John Doman e Jeremy Strong.
Al di là di come la si pensi circa i fatti narrati, la pellicola costituisce comunque uno stimolo per approfondire un’interessante pagina della recente storia americana.
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