motasex
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mercoledì 16 gennaio 2008
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ribadendo..
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come continuare... non sono un critico, ma uno spettatore nemmeno particolarmente colto. però, rivedendo "la schivata" al cinema, e accingendomi a vedere "cous cous" nei prossimi giorni, non posso che esultare per la presenza di un regista del genere nel panorama cinematografico europeo. che leggerezza, che armonia, che interpreti. quanta simpatia per i propri personaggi, dei quali viene mostrato il buono e il cattivo senza troppi giudizi che non siano una tenera ed empatica simpatia. e poi, un film ambientato nella banlieue parigina, parlato in verlan (il vernacolo parolaccesco di zone come la Zone o Seine-saint denis reso insulso dal nostro doppiaggio), con protagonisti per lo più arabi che riesce a raccontare una bella storia d'amore senza i soliti riferimenti alla droga (vabbé, una funzionale cannetta in macchina), senza piagnistei sull'integrazione mancata, senza insomma tutti gli stereotipi dei film di genere.
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come continuare... non sono un critico, ma uno spettatore nemmeno particolarmente colto. però, rivedendo "la schivata" al cinema, e accingendomi a vedere "cous cous" nei prossimi giorni, non posso che esultare per la presenza di un regista del genere nel panorama cinematografico europeo. che leggerezza, che armonia, che interpreti. quanta simpatia per i propri personaggi, dei quali viene mostrato il buono e il cattivo senza troppi giudizi che non siano una tenera ed empatica simpatia. e poi, un film ambientato nella banlieue parigina, parlato in verlan (il vernacolo parolaccesco di zone come la Zone o Seine-saint denis reso insulso dal nostro doppiaggio), con protagonisti per lo più arabi che riesce a raccontare una bella storia d'amore senza i soliti riferimenti alla droga (vabbé, una funzionale cannetta in macchina), senza piagnistei sull'integrazione mancata, senza insomma tutti gli stereotipi dei film di genere. ma in italia, esiste cinema così? esistono sì, pellicole come saimir, o i film di marra, c'è il bellissimo lettere dal sahara, l'orchestra di piazza vittorio.. c'è anche un lungometraggio con protagonista bengalese di cui mi hanno parlato e che non ho ancora trovato. e, di qualche anno fa, l'assedio di bertolucci. mi chiedo però chi se li va a vedere questi film se non gli abitanti di grosse città o i frequentatori di cineclub. basta dare un'occhiata al forum su cous cous per capire che in generale da noi c'è ancora un certo rifiuto per questo cinema. e non sono film fatti per i critici: non c'è intellettualismo ne "la schivata", è fatto apposta per qualsiasi tipo di spettatore. perché non promuoverli di più, allora, invece di proiettarli solo in spazi come concorsi o sale d'essai, per i soliti quattro topi di cineteca che poi se li raccontano tra di loro? sono convinto che questo film, se italia1 lo programmasse addirittura di pomeriggio, troverebbe il suo pubblico. se venissimo abituati a sensazioni e storie del genere, poi ci accorgeremmo in un batter d'occhio dell'inconsistenza di pieraccioni e de sica e moccia e brizzi e muccino, di quanto si divertano a prenderci in giro e a trattarci come una mandria addomesticata a tette e pernacchie. è il solito discorso che muore lì e che non attecchirà mai, è che basterebbe così poco..
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michele il critico
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giovedì 12 maggio 2005
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la schivata
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LA SCHIVATA
regia: Abdel Kechiche
In una multietnica periferia parigina un gruppo di adolescenti (eccezionale l'espressività degli interpreti) "cresce" come in una giungla. A scuola la professoressa organizza la messa in scena di uno spettacolo teatrale...
Tra Loach e Rohmer il cinema di Kechiche è etico ed essenziale.
Una bellissima storia in cui il teatro rappresenta la ragione, l'elemento dialettico che può portare al superamento dell'ordine sociale regolato dalla violenza (di chi lo subisce e di chi lo difende).
Il finale, amaro e spiazzante, dà modo di riflettere: il cinema non può modificare la realtà, ma può solo limitarsi ad indicare agli uomini una strada da seguire.
Come è possibile che a Roma "La schivata" sia proiettato in una sola sala con la capienza di 32 posti?
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LA SCHIVATA
regia: Abdel Kechiche
In una multietnica periferia parigina un gruppo di adolescenti (eccezionale l'espressività degli interpreti) "cresce" come in una giungla. A scuola la professoressa organizza la messa in scena di uno spettacolo teatrale...
Tra Loach e Rohmer il cinema di Kechiche è etico ed essenziale.
Una bellissima storia in cui il teatro rappresenta la ragione, l'elemento dialettico che può portare al superamento dell'ordine sociale regolato dalla violenza (di chi lo subisce e di chi lo difende).
Il finale, amaro e spiazzante, dà modo di riflettere: il cinema non può modificare la realtà, ma può solo limitarsi ad indicare agli uomini una strada da seguire.
Come è possibile che a Roma "La schivata" sia proiettato in una sola sala con la capienza di 32 posti?
VOTO ****
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[+] wow il film "la schivata"
(di gosvamj sakeram)
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philippe
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sabato 12 febbraio 2005
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linguaggio, il luogo della violenza
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Nonostante l'urtante schematismo di fondo (il turpiloquio esasperato come certificato di autenticità, il teatro come alternativa alla violenza, la fatalità dei condizionamenti sociali), "La schivata" riesce a conquistare una sua verità e a difenderla coi denti fino alla fine. Abdel Kechiche gira con piglio secco, spigoloso, incisivo, attento a catturare la più piccola sfumatura nella recitazione dei giovani interpreti. L'asprezza stilistica giova alla credibilità della vicenda, ad alto rischio buonismo, ed alla definizione di personaggi che lasciano progressivamente emergere un universo sentimentale tutt'altro che piatto e stereotipato. Stupefacente la cura del sonoro, un impasto indistinto in cui si accavallano rumori e dialoghi.
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Nonostante l'urtante schematismo di fondo (il turpiloquio esasperato come certificato di autenticità, il teatro come alternativa alla violenza, la fatalità dei condizionamenti sociali), "La schivata" riesce a conquistare una sua verità e a difenderla coi denti fino alla fine. Abdel Kechiche gira con piglio secco, spigoloso, incisivo, attento a catturare la più piccola sfumatura nella recitazione dei giovani interpreti. L'asprezza stilistica giova alla credibilità della vicenda, ad alto rischio buonismo, ed alla definizione di personaggi che lasciano progressivamente emergere un universo sentimentale tutt'altro che piatto e stereotipato. Stupefacente la cura del sonoro, un impasto indistinto in cui si accavallano rumori e dialoghi. Il linguaggio diventa un vero e proprio luogo di combattimento, spazio di lotta per la sopravvivenza. Parlare significa affermarsi. Il volume della voce è segno di potere. Tacere significa soccombere. Il silenzio è annichilimento. Inutile sottolineare che un lavoro così stupefacente è irrimediabilmente vanificato da un doppiaggio che sceglie le scorciatoie dello slang americanizzante (del tipo "che te lo dico a fare?"). Superfluo reclamare l'assoluta necessità per un film del genere di essere sottotitolato. E per questo, forse, il film di Abdel Kechiche fa ancora più male.
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jean remi
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martedì 10 settembre 2013
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il vero linguaggio adolescenziale
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Sicuramente la cosa più originale ma nel contempo più difficile da comprendere e da gistificare, per chi non è oramai più adolescente, è il linguaggio che i ragazzi utilizzano tra loro; ma vi assicuro che frequentando, non una "banlieu" francese ma un qualsiasi quartiere popolare di periferia di una qualsiasi città della provincia italiana è quel linguaggio che si ritrova, espresso in maniera esemplare ed estremamente realistica nel film di Kechiche, splendido esempio di integrazione razziale.
Linguaggio che cambia radicalmente quando ci si rivolge ad un adulto "buongiorno signora, come sta suo marito........gli porti i saluti da parte mia.
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Sicuramente la cosa più originale ma nel contempo più difficile da comprendere e da gistificare, per chi non è oramai più adolescente, è il linguaggio che i ragazzi utilizzano tra loro; ma vi assicuro che frequentando, non una "banlieu" francese ma un qualsiasi quartiere popolare di periferia di una qualsiasi città della provincia italiana è quel linguaggio che si ritrova, espresso in maniera esemplare ed estremamente realistica nel film di Kechiche, splendido esempio di integrazione razziale.
Linguaggio che cambia radicalmente quando ci si rivolge ad un adulto "buongiorno signora, come sta suo marito........gli porti i saluti da parte mia......può chiamare suo figlio per favore.....". Uno spaccato di vita adolescenziale privo dei stereotipi utilizzati per film del genere tipo "la colpa è sempre della società" "la colpa è della mancata integrazione" " per forza sono così, sono figli di delinquenti" ecc...
Unica perplessità sta forse nel doppiaggio in romanesco, ma come si fa a sottotitolare un film che utilizza un linguaggio così particolare?
Film da non perdere anche per l'intreccio teatrale con il settecentesco Gioco del caso e dell'amore di Miravaux. Grande interpretazione dell'insieme dei ragazzi che più "veri" non potrebbero essere; il regista non ha bisogno di elogi basti ricordarlo come autore di "Tutta colpa di Voltaire" di "Cous-Cous" e dello strano "Venere nera".
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angelo umana
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giovedì 10 ottobre 2013
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le jeu de l'amour et du hasard
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La ragazzina di 15 anni, Lydia, che viene dapprima mostrata prepotente e opportunista, risulta poi essere retta e lineare. Protagonista è un gruppo di adolescenti, con genitori di razze e provenienze diverse, ma tutti appartenenti ad una periferia di casermoni. E’ retto anche Abdelkrim, chiamato dai compagni Krimò, che maldestramente vuole conquistare Lydia o uscire con lei, un ragazzo schivo e impacciato (sarebbe bello pensare che l’esquive significasse lo schivo ma così non è, il titolo è di una schivata che non si comprende bene in che consista). Il papà di Krimò è in prigione e da lì gli manda disegni di barche a vela e di mare, sintomi di libertà ma anche di un animo nobile.
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La ragazzina di 15 anni, Lydia, che viene dapprima mostrata prepotente e opportunista, risulta poi essere retta e lineare. Protagonista è un gruppo di adolescenti, con genitori di razze e provenienze diverse, ma tutti appartenenti ad una periferia di casermoni. E’ retto anche Abdelkrim, chiamato dai compagni Krimò, che maldestramente vuole conquistare Lydia o uscire con lei, un ragazzo schivo e impacciato (sarebbe bello pensare che l’esquive significasse lo schivo ma così non è, il titolo è di una schivata che non si comprende bene in che consista). Il papà di Krimò è in prigione e da lì gli manda disegni di barche a vela e di mare, sintomi di libertà ma anche di un animo nobile.
E’ nobile anche l’intenzione della professoressa della classe a cui appartiene la maggior parte del gruppo - un’affascinante Carole Franck - che prepara gli alunni volontari ad una recita, tratta da “Le jeu de l’amour et du hasard” di Marivaux, l’esuberante Lydia ne è la protagonista. Bello pensare alla letteratura come strumento redimente di ragazzi di strada (o anche di criminali, vedasi Scialla!).
Fin qui la trama scarna del film. Il grande merito del regista (r. anche dei notevoli Cous-Cous e Venere Nera) consiste però nel rappresentare fedelmente l’atmosfera interna al gruppo di ragazzi, il loro linguaggio diretto e immediato, poco importa se costellato da parolacce o rudezze, i loro visi ripresi quasi sempre in primo piano così da esprimere emozioni ancor più delle parole. Kechiche ci fa entrare direttamente nel gruppo, nelle loro alleanze possessive e totalizzanti che non prevedono privacy e da cui gli adulti sono esclusi: deve aver studiato bene le dinamiche interne alle cerchie di adolescenti a beneficio di coloro per i quali “or non è più quel tempo e quell’età”.
Riusciranno questi ragazzi apparentemente delle “periferie” a scavalcare i ruoli di appartenenza e non essere condizionati dall’origine sociale, a differenza di come sembra suggerire la commedia di Marivaux (due ricchi si sposano tra loro e due servi pure)? C’è davvero da augurarselo, ne hanno le qualità.
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