davidestanzione
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lunedì 23 gennaio 2012
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l'incestuosa e lunare poesia filmica di bertolucci
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L’essenza profonda de “La luna”, il primo film di Bertolucci dopo la monumentale saga Novecento e anche uno dei suoi capolavori più enigmatici, si annida nel suo affascinante e folle incipit: girandola caleidoscopica di suggestioni accumulate per eccesso, palpiti lirico-sinfonici e ridondante tessitura registica in cui la volitiva macchina da presa sonda ambienti e stanze in interni donandogli un’epica tumefatta e un’ariosa, inquietante vitalità (la stessa di Ultimo Tango a Parigi). A Bertolucci, regista nostrano che forse più di ogni altro (insieme a Marco Bellocchio) ha scandagliato le profonde (com)pulsioni della mente umana, la significazione psicanalitica del suo racconto non può di certo sfuggire.
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L’essenza profonda de “La luna”, il primo film di Bertolucci dopo la monumentale saga Novecento e anche uno dei suoi capolavori più enigmatici, si annida nel suo affascinante e folle incipit: girandola caleidoscopica di suggestioni accumulate per eccesso, palpiti lirico-sinfonici e ridondante tessitura registica in cui la volitiva macchina da presa sonda ambienti e stanze in interni donandogli un’epica tumefatta e un’ariosa, inquietante vitalità (la stessa di Ultimo Tango a Parigi). A Bertolucci, regista nostrano che forse più di ogni altro (insieme a Marco Bellocchio) ha scandagliato le profonde (com)pulsioni della mente umana, la significazione psicanalitica del suo racconto non può di certo sfuggire. Anzi, il maestro se ne fa coraggiosamente carico. “La luna”, come tutti i film che affrontano la lacerazione di una coscienza, parte dall’assenza. Al giovane protagonista Joe manca un padre, morto, una madre che c’è ma è come se non ci fosse, una ragazza che egli dice di avere ma di fatto non ha, abbandonandosi allora alle delicate suggestioni della prima volta con un’affine e fulva coetanea, Arianna. Poco prima che i due possano annullarsi reciprocamente nell’atto sessuale però il tetto che li sovrasta si scoperchia come in un racconto fantastico. Ecco che parte la girandola cineteatrale, da cui Bertolucci dipana tutto il suo sapiente e amoroso gorgheggio cinéphile, la sua passione profonda per la celluloide e per il lato più furente, sublime e inquieto del melodramma verdiano. La luna in tutto ciò fa da poetica, sopraelevata contemplatrice distaccata, mentre si intrecciano ricordi d’infanzia e rimembranze di vecchie proiezioni (“Niagara”) e messe in scena (guarda caso proprio “Il trovatore” di Verdi). Ben presto però al voluttuoso e irreale incanto magico si sostituisce l’altrettanto ovattata crudezza di un estremo rapporto madre-figlio, fulcro tematico e narrativo del film: un rapporto violento, riottoso, lui la chiama “troia!”, la picchia, ne nasce un legame incestuoso. Col padre assente, edipicamente è l’unica soluzione possibile per annegare i laceranti contrasti. Joe cade nel tunnel dell’eroina che gli viene procurata dall’amico marocchino Mustafa, ma la dimensione del racconto non subisce mai contraccolpi o lacerazioni tali da disorientarne l’inclinazione: il piglio di Bertolucci si mantiene meravigliosamente ancorato all’evasione allegorica, che astrae e ricorre ai più smaccati simbolismi. Joe canta e balla Nightfever in una scena sensazionale e magnetica, mentre sua madre, il soprano italoamericano Jill Clayburgh continua a rivendicare l’autonomia sognante della sua anima d’artista. Inizialmente lei lo coccola, tenta di richiamargli alla memoria i ricordi più accoglienti della sua infanzia, nonostante i reciproci tormenti i due si supportano a vicenda, traendo reciproca linfa psicotica, dapprima confortandosi e poi azzannandosi selvaggiamente in un’alcove contronatura. Nella massima libertà d’espressione bertolucciana, lui le morde rapace le lette e lei lo masturba. C’è di che scandalizzarsi per i più bigotti, ma ai meno moralizzatori non sfugge l’elemento favolistico di un racconto di formazione allucinato, dolcissimo e al contempo infinitamente brutale. Un’audacia espressiva immane e ad oggi, viste le corde di involuta pochezza su cui si è assestato il nostro cinema, praticamente impossibile da trovare. All’epoca suscitò, come spesso accadeva col cinema di Bertolucci, non pochi dissensi. Oggi va obbligatoriamente riscoperto.
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(di giorpost)
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dandy
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domenica 3 aprile 2011
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a suo modo delicato e poetico.
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Dopo la saga di "Novecento" Bertolucci(sceneggiatore col fratello Giuseppe e la futura moglie Clare Peploe)racconta il rapporto madre-figlio,e cerca una dimensione più intima,affidandosi a ricordi d'infanzia,spunti cinefili e all'amore per Giuseppe Verdi.Forse un pò troppo,visto l'eccesso di scene madri(come quella iniziale in cui Caterina imbocca il figlio col miele)e il continuo ricorso alla pscicoanalisi(il twist di Tomas Milian con pesce e coltello in mano).Ma non tanto da meritare la stroncatura feroce da parte di molti critici che lo definirono con disprezzo un "mielodramma"(sempre per la scena iniziale).Se si escludono certe forzature ideologiche( l'immotivata apparizione del comunista interpretato da Salvatori che Caterina incontra nei pressi di Parma)il film ha retto meglio del previsto alla prova del tempo,e riesce a catturare con l'atmosfera irreale e a tratti quasi magica.
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Dopo la saga di "Novecento" Bertolucci(sceneggiatore col fratello Giuseppe e la futura moglie Clare Peploe)racconta il rapporto madre-figlio,e cerca una dimensione più intima,affidandosi a ricordi d'infanzia,spunti cinefili e all'amore per Giuseppe Verdi.Forse un pò troppo,visto l'eccesso di scene madri(come quella iniziale in cui Caterina imbocca il figlio col miele)e il continuo ricorso alla pscicoanalisi(il twist di Tomas Milian con pesce e coltello in mano).Ma non tanto da meritare la stroncatura feroce da parte di molti critici che lo definirono con disprezzo un "mielodramma"(sempre per la scena iniziale).Se si escludono certe forzature ideologiche( l'immotivata apparizione del comunista interpretato da Salvatori che Caterina incontra nei pressi di Parma)il film ha retto meglio del previsto alla prova del tempo,e riesce a catturare con l'atmosfera irreale e a tratti quasi magica.Vanno menzionate a tal proposito la scena(castissima) dell'iniziazione sessuale di Joe al cinema dove proiettano "Niagara"e la messa in scena del "Trovatore",con la fusione tra macchine teatrali e cineprese.Assai notevole la disinvoltura con cui è presentato il tema dell'incesto,dapprima aleggiante e poi esplicato con un rapporto consumato a metà,che all'epoca fece ovviamente scalpore.Nel cinema italiano odierno ce lo potremmo solo sognare.Roberto Benigni e Carlo Verdone(al suo secondo film come attore) interpretano rispettivamente l'uomo che sistema le tende a casa di Caterina(che non ne gradisce il colore)e il direttore del Caracalla nel finale.
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great steven
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giovedì 27 aprile 2017
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incesto fra madre incattivita e figlio in caduta.
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LA LUNA (USA/IT, 1979) diretto da BERNARDO BERTOLUCCI. Interpretato da JILL CLAYBURGH, MATTHEW BARRY, VERONICA LAZAR, TOMAS MILIAN, ALIDA VALLI, ROBERTO BENIGNI, CARLO VERDONE, RENATO SALVATORI, FRANCO CITTI, FRANCO CITTI, ELISABETTA CAMPETI, FRED GWYNNE, PETER EYRE, STEPHANE BARAT
Caterina è una cantante lirica che abbandona il suo lavoro, che le ha regalato numerose soddisfazioni, dopo la morte improvvisa del marito Douglas, dovuta ad un infarto durante la guida della sua autovettura.
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LA LUNA (USA/IT, 1979) diretto da BERNARDO BERTOLUCCI. Interpretato da JILL CLAYBURGH, MATTHEW BARRY, VERONICA LAZAR, TOMAS MILIAN, ALIDA VALLI, ROBERTO BENIGNI, CARLO VERDONE, RENATO SALVATORI, FRANCO CITTI, FRANCO CITTI, ELISABETTA CAMPETI, FRED GWYNNE, PETER EYRE, STEPHANE BARAT
Caterina è una cantante lirica che abbandona il suo lavoro, che le ha regalato numerose soddisfazioni, dopo la morte improvvisa del marito Douglas, dovuta ad un infarto durante la guida della sua autovettura. Sconvolta dal dolore, Caterina non riesce a coltivare decentemente l'affetto per il figlio quindicenne Joe, di cui scopre la tossicodipendenza. Madre e figlio intraprendono dunque un viaggio da New York a Roma nel tentativo, voluto da lei, di riallacciare i rapporti e far scoprire a Joe cose importanti, a lui ancora sconosciute, sul suo passato. Le cose, per molto tempo, non vanno secondo i piani: Joe non sembra voler uscire dal tunnel della droga, e gli unici risultati esistenziali importanti che ottiene sono l'amicizia con la coetanea Arianna (con cui tenta un maldestro approccio amoroso) e quella con Mustafà, giovane marocchino che gli procura gli stupefacenti. Sempre più distante dal figlio e oppressa da una sofferenza che non accenna a diminuire, Caterina ha con lui un breve ma deprecabile rapporto incestuoso. Tutto si risolve con la comparsa di Giuseppe, il vero padre di Joe, cui egli gli si rivela, provocando lo sconcerto dell'uomo che, appena saputo che Caterina ha deciso di ritornare sulle scene, la raggiunge alle terme di Caracalla e fa sì che il presepe famigliare si ricomponga. La lunga permanenza italiana ha dunque giovato al ragazzo per permettergli di recuperare gli affetti e uscire dall'inferno della droga... ma per quanto? Prodotto con denaro statunitense, è, insieme a L'ultimo imperatore (1987), il film di produzione straniera più strabiliante di Bertolucci, una discesa nell'incoscio umano che si muove su due binari paralleli che però finiscono per incrociarsi indissolubilmente: la mente turbata della madre frustrata e quella non meno scossa dell'adolescente che trova la sua unica ragion di vita in un vizio sempre più spersonalizzante. J. Clayburgh è perfetta nel tracciare la psicologia di un'artista teatrale estremamente talentuosa, non priva di un'intima ferocia e di una nevrosi galoppante, pronta a sacrificare le sue qualità per dedicarsi all'amore (a un certo punto anche tutt'altro che platonico) per il figlio, col quale inizia a condividere morbosamente la prosecuzione di un'esistenza sentimentale vuota, e spaventosa. Il tema dell'incesto è trattato in modo molto intelligente, soprattutto per l'originalità in esso insita, nel senso che, spesso, al cinema, si ha avuto a che fare con la relazione incestuosa fra il genitore maschio e la figlia femmina (ne sono validi esempi film anche alquanto differenti da La luna, fra cui, a titolo puramente esemplificativo, si possono citare Chinatown, Il colore viola, Volver e Precious), mentre qui, con la sceneggiatura concentrata con un corto ma intenso intervento, la morbosità dell'incontro sessuale mette a nudo, letteralmente e figurativamente, la vacuità sentimentale di una madre delusa che ha rinunciato a combattere e la perdita di senso della vita che il figlio vive, poiché disconosce le sue radici e non ha alcun modello cui appellarsi con una certa validità. M. Barry è una sensazionale rivelazione: il suo Joe è svogliato, testardo, malgrado le apparenze anche sessuofobico, irruento e arrogante. E ha bisogno di essere amato da entrambe le figure di riferimento, paterna e materna. Un'analisi dell'animo umano che evita di sconfinare nei meandri psiconalitici (e il rischio era ben presente) per privilegiare un discorso di ricerca del sé incentrato fortemente sulla costruzione della sicurezza e sulla conquista di un'indipendenza largamente sfaccettata: lavorativa, affettiva, morale e fisica. Emerge anche un T. Milian che abbandona per un po' i panni di Er Monnezza per calarsi in un insolito, ma riuscitissimo, ruolo drammatico: il padre Giuseppe (nome forse scelto non a caso, che rimanda alla figura religiosa del padre di Gesù) che Joe non ha mai incontrato e che compare in maniera non poi tanto repentina, in quanto Caterina s'impegna affinché il figlio lo veda, è anch'egli un uomo sconfitto dalla vita, che necessita di riaggrapparsi al suo passato per riprendere in mano il corso degli eventi e rispolverare un significato troppo a lungo disilluso e smarrito. Nel cast, compaiono anche, in apparizioni brevissime: un 29enne C. Verdone nei panni di un regista teatrale romano; F. Citti, nelle vesti dell'uomo che si appropinqua sadicamente a Joe in un bar; R. Salvatori nei panni di un comunista; e un esilarante e giovanissimo R. Benigni che rompe la tensione drammatica prorompendo, per pochi secondi, come il buffo operaio che monta le tende nella villa italiana di Caterina. Nel reparto femminile, inoltre, spiccano la Valli come madre di Giuseppe e V. Lazar come Marina, l'amica della protagonista e critica teatrale che recensisce sempre positivamente i suoi spettacoli. A proposito, anche il mondo dello spettacolo ha nella vicenda un'importanza non indifferente: le rappresentazioni delle più famose opere di Verdi (i titoli di coda ricordano in particolar modo La traviata, Rigoletto e Il trovatore) aggiungono alla trama una nota di soave poesia, stendendo una coltre di ottima musica classica che forma una colonna sonora di tutto rispetto, per quanto risulta gradevole e adeguata. E poi c'è la splendida fotografia di Vittorio Storaro, già collaboratore di Bertolucci in Ultimo tango a Parigi. Intenso, disomogeneo e profondo, ha il suo unico difetto in una parte centrale fiacca e fin troppo riflessiva, che viene però riscattata da un inizio acrobatico e un finale saggiamente non consolatorio, ma che non cancella del tutto la speranza di un futuro migliore. Nella filmografia del regista, è la sua pellicola più intimista e introspettiva, e senza dubbio una delle sue prove più stupefacenti dietro alla macchina da presa. Scritto insieme al fratello Giuseppe e a Clare Peploe.
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