di Emanuele Sacchi
È sempre una scelta coraggiosa quella di dare un seguito a un film amato dal pubblico (è tuttora il film non americano che più ha incassato negli Stati Uniti), dalla critica e persino dall'Academy (Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera), specie quando questo avviene a distanza di molti anni. Il lascito di La tigre e il dragone di Ang Lee va infatti ben oltre quanto immaginato nel lontano 2000 in cui fu realizzato e ha generato sequel apocrifi e epigoni a non finire, ma soprattutto ha rivitalizzato un genere cinematografico - il wuxia pian, film in costume "di cappa e spada", che può includere elementi di arti marziali e di fantasy - contribuendo a generare una nuova forma di blockbuster per il mercato cinese e per quello da esportazione, specie verso il mercato statunitense.
Dopo più di quindici anni il coreografo di quel capolavoro (oltre che di Matrix, Kill Bill e Drunken Master con Jackie Chan), il maestro Yuen Woo-ping, affronta il rischio e recupera ambientazioni e personaggi, introducendone di nuovi e affascinanti.
A decretare il successo del film, oltre all'indubbia qualità tecnica e artistica in ogni sua sfaccettatura, il fatto di unire l'avanzamento tecnologico della post-produzione digitale allo spirito del cinema degli Shaw Brothers dell'epoca d'oro di Hong Kong; o strizzate d'occhio per esegeti del genere - la comparsata di Cheng Pei Pei nei panni della perfida Volpe di Giada - e sorprese per i meno avvezzi, come la leggerezza dei corpi dei maestri Wudang, capaci di rimanere in piedi su un ramo di bambù senza spezzarlo.
Partendo dal presupposto di non poter resuscitare Li Mu Bai e Jen - e con lui il grandioso Chow Yun-fat e la bellissima Zhang Ziyi che li interpretavano - Yuen doveva affiancare a Michelle Yeoh una star maschile che avesse un carisma pari a quello di Chow e possibilmente spiccate doti "marziali". Chi meglio di Donnie Yen, quindi, l'Ip Man della saga di Wilson Yip ormai lanciato a Hollywood, al punto di essere coinvolto nell'imminente spin-off di Star Wars, Rogue One.
Yen aggiunge così il contributo delle sue MMA, mixed martial arts, e il suo inglese sempre più fluido: già, perché Sword of Destiny, a differenza de La tigre e il dragone, è interamente parlato in inglese anziché in cinese mandarino.
Se Donnie Yen e Michelle Yeoh hanno dovuto cimentarsi, con successo, con una lingua a cui sono meno avvezzi, il resto del cast è stato selezionato privilegiando chi fosse madrelingua inglese, come i giovani Harry Shum jr. e Natasha Liu Bordizzo o il villain Jason Scott Lee. Una scelta duramente contestata, con l'accusa di falsare il verismo dell'ambientazione wuxia pian: detto che anche nella galassia lontana lontana di
Dalla sceneggiatura di John Fusco (Il regno proibito, Marco Polo) emerge chiaramente come il pattern vincente alla base de La tigre e il dragone sia stato rispettato quasi alla lettera.
Nel silenzio dei passi furtivi di personaggi leggeri come l'aria, o come i dardi velenosi scagliati nella notte, Sword of Destiny si rivela uno scrigno di segreti rivolto agli amanti del wuxia come a quelli del mélo, oltre che un possibile trampolino di lancio per nuove star del firmamento, come fu per Zhang Ziyi diciassette anni fa.
Se da un lato sembra dominare la trama la sfida marziale tra chi rispetta onore e dignità e chi guarda solo a un rapido profitto, con la lama di Destino Verde contesa tra le fazioni, è il plot sottocutaneo quello destinato a conquistare i cuori del grande pubblico. La romantica e impossibile love story che guidava le scelte spesso incomprensibili e pericolose della Jen di Zhang Ziyi torna in una versione quasi simmetrica, con Wei-fang e Snow Vase nei panni degli amanti riuniti dal Fato, dove la vita e scelte altrui li hanno separati. Anche per Shu Lien, autocondannatasi a un'esistenza di solitudine in ricordo di Li Mu Bai, avverrà qualcosa di inatteso, destinato a sconvolgere i suoi sentimenti e le sue consolidate certezze.