gattamelata
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sabato 4 agosto 2012
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non tutte le ciambelle vengono col buco
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Non tutte le ciambelle vengono col buco anche quando a farle sono grandi registi come Kurosawa. Infatti anche se abbiamo a che fare con grande autore bisogna pur avere il coraggio e l'onestà di chiamare le cose con il loro nome e di dare ai film i giudizi che si meritano. Il film dipinge la vita di un'umanità disperata e ed emarginata che vive in una favela immaginaria del Giappone. Il problema è che lo fa con toni esageratamente retorici ed enfatici. Tutto ciò trasforma il preteso realismo del soggetto in un polpettone drammatico dove il dramma per essere troppo teatrale e letterario diviene stucchevole e grottesco. Tra libro Cuore, i Pagliacci di Leoncavallo e i bassifondi di Parigi, il film ci fa vedere degli straccioni troppo straccioni, degli ubbriaconi troppo ubbriaconi, perché ogni figura viene puntualmente ridotta alla sua maschera, al suo stereotipo, alla sua caricatura teatrale.
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Non tutte le ciambelle vengono col buco anche quando a farle sono grandi registi come Kurosawa. Infatti anche se abbiamo a che fare con grande autore bisogna pur avere il coraggio e l'onestà di chiamare le cose con il loro nome e di dare ai film i giudizi che si meritano. Il film dipinge la vita di un'umanità disperata e ed emarginata che vive in una favela immaginaria del Giappone. Il problema è che lo fa con toni esageratamente retorici ed enfatici. Tutto ciò trasforma il preteso realismo del soggetto in un polpettone drammatico dove il dramma per essere troppo teatrale e letterario diviene stucchevole e grottesco. Tra libro Cuore, i Pagliacci di Leoncavallo e i bassifondi di Parigi, il film ci fa vedere degli straccioni troppo straccioni, degli ubbriaconi troppo ubbriaconi, perché ogni figura viene puntualmente ridotta alla sua maschera, al suo stereotipo, alla sua caricatura teatrale. II tutto alla fine è così sopra le righe e così inverosimile da non provocare poi nessun effetto sul pubblico se non quello di compiacere quel pubblico che già condivide certi gusti da operetta. Kurosawa non è stato mai un vero regista realista, ma ci aveva regalato delle interessanti incursioni realistiche nel suo cinema del dopoguerra, poi aveva trovato la sua vena di ispirazione nel genere dell'epica dei samurai attraverso cui riusciva a trasmettere dei messaggi educativi e morali senza essere pesante ma anzi coinvolgendoci nelle sue belle favole. In questo film si consuma una svolta. Anche quest'epoca epica o tragica è finita e il regista è in cerca di un nuovo tipo di ispirazione lasciandosi sedurre dalle sirene dei luoghi comuni di una certa sensibilità progressista dell'epoca, che però in fondo era piccolo broghese. In questo senso questo è un film di passaggio verso la sua ultima fase in cui si concede maggiori libertà narrative ma in cui spesso perde anche la forza del passato salvo in certi ritorni di fiamma per la tragedia epica come in Ran.
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paola di giuseppe
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lunedì 1 febbraio 2010
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vite al confine
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Dodés'ka-dén è il film degli anni difficili del regista,ma forse proprio questo fa sì che produca un’opera così innovativa e acuminata,che nulla concede a facili sociologismi e travalica di parecchie misure un certo modo di fare cinema di quegli anni,anticipando scenari di deprivazione,violenza,vuoto morale ed esistenziale,vite underground che nel cinema odierno rappresentano a pieno titolo una certa condizione umana.E allora si capisce il rifiuto,all’epoca,l’impossibilità di entrare nei meccanismi di quel modo di fare cinema che usava codici così stranianti,inusitati,disturbanti,al punto che si tentò perfino di eliminare la storia dell’homeless visionario col piccolo figlio che muore,uno dei momenti più belli e strazianti del film.
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Dodés'ka-dén è il film degli anni difficili del regista,ma forse proprio questo fa sì che produca un’opera così innovativa e acuminata,che nulla concede a facili sociologismi e travalica di parecchie misure un certo modo di fare cinema di quegli anni,anticipando scenari di deprivazione,violenza,vuoto morale ed esistenziale,vite underground che nel cinema odierno rappresentano a pieno titolo una certa condizione umana.E allora si capisce il rifiuto,all’epoca,l’impossibilità di entrare nei meccanismi di quel modo di fare cinema che usava codici così stranianti,inusitati,disturbanti,al punto che si tentò perfino di eliminare la storia dell’homeless visionario col piccolo figlio che muore,uno dei momenti più belli e strazianti del film.
Una bidonville di Tokio ricostruita sul set,con scenari dipinti a colori,dice Bernard Cohn, “antinaturalistici e fantastici”,che commentano a contrasti forti le scene e ne accentuano valenze semantiche a cui è perfettamente complementare il commento sonoro di Takemitsu,storie minime di convivenza fra “dannati della terra” che s’intrecciano in uno spazio claustrofobico,una piazzetta con comari in cerchio intorno ad una fontanella dove si lava e ci si lava,si commentano i rari passanti, fioriscono pettegolezzi e si trascina il giorno fra rifiuti di archeologia industriale,mentre passa sferragliando di tanto in tanto il minus habens Rokuchan,convinto di condurre un tram scandendo il metallico rumore delle lamiere…Dodés'ka-dén, Dodés'ka-dén…
Interni di baracche che riflettono gli abitanti,in un rispecchiamento puntuale di scelte di vita che vanno dal tentativo di décor piccolissimo borghese dell’impiegato Shima e sua moglie, orrida virago ma anche angelo del focolare per il marito(l’origine dei suoi tic nervosi non è un problema per lui), all’antro del solitario monomaniaco tagliuzzatore di tessuti,chiuso in un silenzio di morte,albero secco e senza vita come quello che spunta davanti alla sua porta,al rassicurante monolocale del signor Tamba, capace di smontare chiunque con inaspettati interventi a metà tra ironia e antica sapienza.
Il rumoroso disordine delle baracche delle due coppie di “scambisti” dedite all’alcool fa da contrappeso all’ordine maniacale del laido zio che stupra la dolce Katsuko,schiava muta per cui la tenerezza del ragazzo delle bottiglie è un bene troppo grande per aspettare che finisca da sé.E lo accoltella.
Ma si può anche non avere neppure una baracca e dormire nella carcassa di una macchina da cui sognare la casa in collina con piscina,e vederla crescere fantasticamente ogni giorno,a partire dal cancello stile inglese,o forse liberty,fino al porticato,dove il bambino potrà giocare o sostare a leggere.
Stupefacente il linguaggio colto dell’homeless e ancor più la dolcezza comprensiva e diligente del bambino.
La piscina,unico intervento del piccolo sulla fantasia del padre (una maschera espressionista di rara efficacia) sarà la fossa dove verrà deposta la piccola urna bianca con le sue ceneri.
La tecnica della ripresa con la macchina fissa,prevalente in tutto il film,ci consegna un’idea di tempo fuori del tempo,fra delirio e realtà,senza prospettive e dunque senza durata.
Uno sguardo in un girone d’Inferno dove si fugge nell’immaginario,nel silenzio,nell’alcool,nella demenza.
O nella quotidianità,comunque sia,che può perfino apparire l’unica forma di vita possibile a chi è stato negato tutto.
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