Borderlands

La verità degli adolescenti

Si potrebbe riscrivere l'intera storia del cinema, e probabilmente qualcuno lo ha già fatto, usando come metro l'infanzia e la prima adolescenza. Ogni epoca e Paese hanno usato infatti codici diversi per dare forma a quel periodo evanescente e insieme incancellabile della vita. Ogni autore ha messo a punto strategie spesso molto sofisticate per raccontare ciò che non sempre si poteva mostrare, magari forzando i confini del visibile. Il nuovo film di Kore-eda, il grande regista di "Un affare di famiglia", "Father and Son" e tante altre storie di crescita e confronto, sceglie la strada del mystery raccontando la stessa storia tre volte. La prima dal punto di vista della madre del protagonista. La seconda da quello del suo insegnante, accusato di maltrattamenti. La terza, la migliore, con gli occhi dello stesso Minato e del suo compagno di classe Yori. Ognuno infatti ha le proprie ragioni per interpretare a suo modo le stranezze e i silenzi di quel ragazzino che ha già perso il padre, verso cui sembra provare un misto di astio e ammirazione. Ma solo Minato e Yori sanno cosa è successo veramente, a scuola e fuori, ovvero cosa sognano, cosa temono e cosa vogliono proteggere, sia dagli adulti che dai coetanei. Così quella che sembrava una versione nipponica di "La sala professori", poco a poco scivola sul terreno di "Close", il gran film del belga Lukas Dhont sul rapporto tra due compagni di classe. Con qualche sottotrama di troppo, forse perché per la prima volta Kore-eda lavora su uno script non suo, per giunta firmato da una star come Yuji Sakamoto, dunque non scava poco a poco dentro i suoi personaggi e le loro contraddizioni, ma li fa vivere e rivelarsi attraverso una serie di peripezie da manuale che mettono un poco in ombra la parte più preziosa del film. Quella dedicata a Minato e a Yori, appunto, al loro rifugio segreto, a quel misto di fantasticherie ed emozioni che scrive davvero un nuovo capitolo nella rappresentazione di quell'età al cinema. E che Kore-eda e i suoi giovanissimi attori rappresentano con una schiettezza, una delicatezza, una misura, difficili da immaginare fino a pochi anni fa (se non scriviamo mai la parola "gay" o "omosessuale" è perché nessuno le usa nel film, ma anche perché siamo al di qua, o al di là, di distinzioni di questo tipo). Ovvi quanto fuorvianti i paragoni con "Rashomon". Kurosawa dava pari legittimità a ogni diversa versione della storia. Qui solo l'ultima è vera. In compenso il giudizio sugli adulti e le loro miopie è senza appello. Eppure a Cannes - altro segno dei tempi? hanno premiato proprio lo script.
Da L'Espresso, 23 agosto 2024


di Fabio Ferzetti, 23 agosto 2024