The Holdovers - Lezioni di vita

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Una lezione di vita per tutti Valutazione 4 stelle su cinque

di Clara Stroppiana


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mercoledì 14 febbraio 2024

 “Ecco il film che potrà diventare il classico da mandare in TV a Natale sostituendo Capra. Ecco l’erede di It’s a wonderful life”. Questo mi è venuto da pensare dopo una mezz’ora di THE HOLDOVERS. La storia si ambienta in quel periodo dell’anno con il freddo che punge e arrossa le guance, la neve che ammorbidisce il paesaggio, gli abeti scintillanti di lucine e tutto quello che, volenti o nolenti, atei o credenti, fa parte di un immaginario che ci si è incollato sotto la pelle fin dall’infanzia. Già l’atmosfera delle prime sequenze ci immerge  in quelli che saranno il tono e il ritmo del film, tra esterni  bianchi e silenziosi e l’esuberanza  rumorosa dei ragazzi che si preparano a lasciare la scuola. Le riprese sono state realizzate effettivamente in quei giorni d’inverno e tutte on locations. Eigil Bryld, che ha firmato la fotografia, ha conferito alle immagini un leggero effetto grana come nelle pellicole degli ultimi anni ’60 e i primi ’70 perché THE HOLDOVERS è, anche, un omaggio al cinema della New Hollywood  tanto amato da Alexander Payne  che ha voluto girare un film come l’avrebbe fatto in quel passato in cui per motivi anagrafici non ha potuto. David  Hemingson, autore del soggetto e della sceneggiatura (meritata candidatura agli Oscar 2024), colloca le vicende  nel 1970 nel  New England in un Istituto per i figli dei ricchi, durante le vacanze di Natale. Dunque tutti a casa a festeggiare con le famiglie. No, non proprio tutti. Resta Angus, uno studente dotato ma refrattario alle regole, la cui madre all’ultimo minuto fa sapere di essere in luna di miele con il suo secondo marito. Resta il professor  Paul Hunham, al quale è toccato il compito di sorvegliarlo. Insegnante intransigente, uomo introverso e solitario, scapolo. Infine, deve restare per provvedere ai pasti, Mary la capocuoca, una vedova che ha perso in guerra l’unico figlio. Tre vite difficili per tre interpreti tutti all’altezza dei loro ruoli: l’esordiente Dominic Sessa che rende bene rabbia, ribellione, paure e fragilità di un adolescente, senza mai strafare. Paul Giamatti che si è guadagnato una candidatura agli Oscar come attore protagonista in una delle migliori interpretazioni della sua carriera, forse la migliore, tra momenti drammatici e raffinata ironia. Da’Vine Joy Randolph anche lei candidata tra le attrici non protagoniste.  
Tre holdovers  nell’America di Nixon e della guerra del Vietnam, attraversata dalle contestazioni giovanili contro l’autorità dei padri e dello Stato, e dai movimenti per l’uguaglianza razziale. Contenuti che non entrano direttamente nel film ma arrivano allo spettatore attraverso le inquietudini che agitano i personaggi: la dura elaborazione del lutto da parte di Mary che non smette di pensare che se non fosse stata povera e nera forse suo figlio sarebbe ancora vivo. La difficoltà per il professore di continuare a indossare la maschera dietro la quale nasconde inadeguatezze e frustrazioni. La ribellione di Angus ed il suo smarrimento così ben interpretato dallo sguardo che ci ricorda quello di Dustin Hoffman in The Graduate (1967). E non sarà un caso se Payne sceglie di mandare i due protagonisti a vedere Little big man, che in USA uscì il 23 dicembre del 1970, e di mostrarcene una breve scena  con un primo piano di Hoffman.
Così, durante una quotidianità condivisa per obbligo, un po’ alla volta le dinamiche tra i personaggi si modificano, le reciproche diffidenze si smussano fino a quando “fuggono” in auto alla volta di Boston come in un road movie liberatorio. Intanto ognuno cambia una parte di sé per salutarci diverso da come l’avevamo incontrato. Racconto di formazione dunque per il giovane Angus, ma lezione di vita per tutti. Film ironico, vivace, autentico e profondo. Un film che emoziona, commuove e fa sorridere in un equilibrio perfetto tra le sue varie anime. Molto più di un film “buono” solo per Natale.

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