Semidei non è il solito documentario “sull’arte” proposto con l’ormai consueto e stereotipato linguaggio televisivo. Qui il “capolavoro”, le due statue conosciute come I Bronzi di Riace (V secolo a.C.),non sono le protagoniste assolute, le star indiscusse corteggiate dalla cinepresa, ma diventano il filo conduttore di un racconto che lega il passato al presente, il mito e la leggenda alla storia, il sacro al profano. Gli autori, Fabio Mollo e Alessandra Cataleta, sviluppano una narrazione che procede per contrasti, associazioni e intuizioni tanto sorprendenti quanto inaspettate che subito però appaiono allo spettatore naturali e irrevocabili come se la regia dei fatti fosse stata scritta dal Fato. Metafora ne sono gli improvvisi marosi che agitano un mare tranquillo che torna poi sempre a brillare degli azzurri del cielo.
In una di quelle tempeste la nave sulla quale le due statue migravano verso l’Oriente, fece naufragio proprio a un passo dalle coste di una terra di migranti, un paese della Calabria, Riace, che ogni anno festeggia i santi patroni Cosma e Damiano ai quali la popolazione si raccomanda: San Cuosimu e San Damianu porgitimi la manu ca sugnu foresteru e biegnu di luntanu. Terra di migranti ma anche terra di accoglienza e integrazione. Così capita che il Damiano dell’oggi sia un ragazzo Rom che nella notte della festa “porge la sua mano” all’organetto per far ballare tutta la piazza fino all’alba. Se Cosma e Damiano erano fratelli, forse lo erano anche i due bronzi in cui gli studiosi hanno ravvisato Eteocle e Polinice rivali nella sanguinosa tragedia di Eschilo, I Sette a Tebe (467 a.C.). Un duplice fratricidio dunque li ha fatti precipitare sul fondo del mare e li ha trasformati in statue. Ipotesi affascinante nata dall’immaginario del giovane che inconsapevolmente si lega a una lunga tradizione di statue di sale e di pietra in cui donne e uomini subirono bibliche e mitologiche metamorfosi, per punizione o vendetta.
Là sotto, nascosti tra la sabbia, i due guerrieri hanno aspettato per centinaia di anni che un altro giovane arrivasse da lontano, il sub romano Stefano Mariottini, scelto dal destino per la loro resurrezione (1972).
Miracolo che non si è rinnovato in una notte di febbraio di cinquant’anni dopo su quell’altra riva poco più avanti, a Cutro, dove il mare ha restituito solo corpi esanimi tra i relitti del naufragio nonostante le tante mani tese dell’ humana pietas. Questo accadeva mentre la troupe cinematografica di Semidei lavorava per ricostruire la storia dei Bronzi e ancora una volta passato e presente si sono intrecciati e la tragedia contemporanea è andata a legarsi all’antica.
Sono invece i documenti d’archivio di cui si avvale la sceneggiatura, inseriti con un ottimo montaggio, che presentano allo spettatore il contesto storico e sociale della Calabria dei primi anni ’70 in cui i Bronzi “sbarcarono” stranieri. Un cinema del reale che omaggia nei minuti iniziali Vittorio De Seta, riconosciuto padre del documentario italiano con alcune sequenze del suo I Dimenticati (1959). Un modo per il regista, nato a Reggio Calabria, di indicare un legame con la tradizione, anche artistica, del racconto della sua terra dalla quale era partito ragazzo per tornarvi più tardi a girare Il Sud è niente (2012). “I ricordi a volte straziano e bisogna metterli alla giusta distanza, ma cancellarli è un errore perché senza il passato non c’è il futuro”. Sono le parole di una giovane donna rumena che sembra riflettere a voce alta. Così alle vicende dei bronzi è dato lo stesso respiro delle onde, la stessa forza di una terra che non nasconde le sue rughe. Senza tralasciare aspetti archeologici e problematiche del restauro, il film diventa storia di viaggi, di partenze e ritorni, di rifiuti e accoglienza, di scontri e abbracci, di urla disperate e canti gioiosi. Di uomini e dei. Di speranze in una seconda occasione di vita.
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