Hirayama è un uomo comune. Vive solo in una modestissima casa alla periferia di Tokio. Del suo passato non sappiamo quasi nulla. Suo padre sembra sia stato un uomo difficile; ha una sorella che incontra senza entusiasmo dopo molti anni: una donna ricca. S’intuisce che un tempo viveva diversamente ed è stato lui a voler cambiare. Avrà commesso errori, procurato e subìto torti, provato piacere e dolore come ognuno di noi, ma non lo dice. Hirayama è uomo di pochissime necessarie parole.
Circa sessantenne, lo seguiamo – quasi lo spiamo – per qualche settimana nel ripetersi di giorni uguali. La sveglia prima dell’alba, il futon ripiegato con gesti precisi, la toilette essenziale, la cura delle piantine, la tuta da lavoro, un sorriso al cielo sulla soglia di casa, il caffè del distributore automatico, il furgoncino attraverso la megalopoli ancora addormentata. Il fiume del suo tempo quindi scorre in tanti incontri mentre cammina con secchio e spazzolone per i giardini e le piazze di Tokio. Hirayama per mestiere pulisce i bagni pubblici. E lo fa con impeccabile cura, come se fosse importante e desiderabile.
Nelle pause Hirayama fotografa il sole attraverso gli alberi, in bianco e nero con una macchina analogica. Ascolta rock anni ‘60 e ‘70 su vecchie cassette. Ha un telefono a conchiglia che non usa quasi mai, e pensa che spotify sia un negozio. Dei vecchi strumenti forse apprezza l’imperfezione, l’esposizione alla sorpresa, ai salti e agli errori. A sera torna nella sua stanza essenziale – una lampada, un mobile basso e una libreria –, e legge Faulkner prima di addormentarsi. Tutte le notti, sogna, ancora in bianco e nero, le sfumature della sua giornata: i sogni di Hirayama sono della sua stessa lieve sostanza.
Hirayama è un uomo diverso dagli altri – o almeno dalla maggior parte. Non è la versione zen di chi vorrebbe scaricare casa, mutuo, lavoro e moglie, sognando un chiosco di mojito su una spiaggia tropicale; magari per ricadere nelle stesse delusioni. Hirayama è cambiato dentro. Il mestiere che ha scelto, la cura e la dignità della sua pratica, vanno oltre l’etica del dovere, dimostrando che non esistono condizioni inferiori, ma solo modi ingannevoli e avvilenti di vivere la propria realtà. Le sue giornate all’apparenza misere e ripetitive custodiscono interi mondi. Non cerca fughe o distrazioni perché sa cogliere l’attimo che c’è nel cielo ogni momento; l’infinita novità nelle foglie di un albero mosse dal vento. Prende al volo l’occasione di un foglietto lasciato in una fessura per giocare a tris con qualcuno che non vedrà mai; beve birra e gioca a pestare l’ombra con un uomo appena incontrato.
Hirayama – interpretato dall’ottimo Koji Jakusho – è un personaggio seducente nonostante lo squallido posto in cui cena e la carta igienica che gli cade in testa. Impastato di natura, musica e letteratura, ha usato la libertà per liberarsi. Gentile, sensibile, attento, giocoso, ironico, pronto allo stupore; si lascia fare dal mondo senza subirlo: non cerca gli altri, ma li accoglie quando li incontra. Non è perfetto:sembra privo di amici e ignoriamo quali legami e responsabilità abbia lasciato nel prima che è stato. Il suo fascino sta anche nell’imbarazzo di certi sguardi, nel pudore, nella trasparente debolezza.
Dopo lo splendido e dolente “Il Sale della Terra” il cui orizzonte era il mondo, Wim Wenders sceglie Tokio per un manifesto alla sottrazione. “Perfect Days” invita a toglierci di dosso cose e parole che ci rendono più difficili e poveri; ma è soprattutto una visione del mondo. La proposta di otto miliardi di umane silenziose rivoluzioni interiori. La vera transizione ecologica, senza la quale ogni promessa di progresso sarà solo truffa o illusione.
“Perfect Days” non doveva essere un film. A Wenders, già felice interprete del Giappone in "Tokio-Ga" (1985), era stato chiesto qualche breve cortometraggio su “The Tokio Toilette”: innovativo programma di ricostruzione dei bagni pubblici nella zona di Shibuya, in cui architetti di rilievo internazionale hanno versato una raffinata estetica, insolita per questo tipo di struttura. Dall’iniziale progetto documentaristico è nata l’idea del personaggio di Hirayama e quindi il film; ma forse l’essenza di “Perfect Days” è già tutta nella trasfigurazione delle toilettes di Tokio attraverso il disegno, i materiali, il colore e la luce. Valorizzare, dare dignità, a ciò che di solito si maschera e nasconde. Pensare le stesse cose di sempre, anche le meno attraenti, in maniera diversa. Rovesciare la visione. Distillare, direbbe Emily Dickinson, un senso sorprendente da significati ordinari.
Dopo quasi quarant’anni da “Il Cielo sopra Berlino” gli angeli di Wenders abitano ancora sulla Terra che hanno preferito al Paradiso. Sarà per questa vaga memoria che Hirayama ama guardare e fotografare il cielo? c’entra qualcosa con i suoi sogni e le ombre? Come ogni riflessione sulle questioni importanti, “Perfect Days” rimane aperto. Wenders tiene lontano il suo personaggio da qualunque Dio o religione: Hirayama sembra essersi già salvato da solo. Da buon contemporaneo ignora l’Assoluto; ma scavando ancora – magari entrando nella sua storia con le nostre – potrebbe non essere l’ultima parola. Bastano le sue qualità a dare un senso alla sua vita? offrono una mappa ai suoi passi nel labirinto di Tokio? La sua serena solitudine quant’è resistente al tempo e al caso?
Verso la fine del film, un uomo chiede a Hirayama un impegno che, se lui accettasse, cambierebbe molto la sua vita. “Un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso” può essere fonte di decisioni importanti per sé e per gli altri? colma il vuoto che prima o poi incontriamo in noi e nel prossimo? è una vera risposta alle domande che salgono dal profondo? Hirayama, a sera, sotto la luce della lampada, legge “Le Palme Selvagge”, enigmatico romanzo composto di due storie diverse accomunate da un disastroso destino. Ma è soprattutto il suo volto nel primo piano della sequenza finale – il lento mutare dal sorriso al pianto – ad esprimere un irrefrenabile smarrimento. Una richiesta di aiuto? Anche gli angeli di Wenders potrebbero non bastare a sé stessi.
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