Non sapremo mai “quanto Paolo Virzì” sarà possibile scorgere in filigrana nella futura carriera da regista di Micaela Ramazzotti. È certo che le auguriamo tante altre opere profonde e poeticamente vere come “Felicità”. Se Virzì, infatti, ci ha regalato storie stupende che partono dalle vicende di poche persone (“Ovosodo”, “La prima cosa bella”, “Tutta la vita davanti”), se non addirittura di una coppia (“Tutti i santi giorni”, “La pazza gioia”), per farci riflettere e sorridere sui grandi temi della vita, Micaela Ramazzotti ci sorprende partendo dall’esistenza incasinata della parrucchiera Desirè Mazzoni per affrontare il “tema dei tema”: la famiglia. E così nei cento minuti di durata della storia, mentre un filo sottilissimo di angoscia pian piano rischia di insinuarsi nello spettatore, la Ramazzotti (anche sceneggiatrice) racconta del rapporto genitori/figli e dei danni incalcolabili arrecati ai giovani da padri e madri frustrati o inaspriti dai fallimenti e delusioni della loro vita, e quindi desiderosi di riscatto grazie ai figli, non già amati per ciò che sono, ma utilizzati come strumento di rivalsa nei confronti del mondo. E ci racconta anche del senso di oppressione e inadeguatezza che distrugge l’autostima dei figli quando l’occhio critico di un genitore frustrato li rimprovera per non riuscire ad essere all’altezza dell’assurdo compito di riscatto loro affidato. “Felicità” è capace anche di dimostrare con sana franchezza quanta tossicità si diffonde nella famiglia tutte quelle volte in cui un genitore non è capace di chiedere scusa ai figli per gli errori commessi, giungendo a volte persino a costruirsi una verità virtuale che giustifichi il proprio operato, colpevolizzando comunque i figli e, quindi, continuando imperterrito a fare ancora più danni. E infine la Ramazzotti ci racconta che a volte, più o meno consapevolmente, in famiglia si inizia a pensare all’altro come ad un bancomat, dando valore alla persona non già per ciò che è, ma dando valore alla persona per ciò che dà. La famiglia, allora, come “male supremo”, come anticamera tossica della tossicità della vita? Ma quando mai. “Felicità” ci dice che mettere in comune le proprie debolezze in famiglia rende per paradosso ognuno più forte e che l’affetto in famiglia si alimenta con una dinamica dal nome semplice e dalla forza immensa: la generosità. E la generosità è nel tempo dedicato, nella capacità di perdonare, nel gusto di dare per trasmettere serenità. Micaela Ramazzotti ci dice che quanto più la generosità circola in famiglia, come acqua nei vasi comunicanti, tanto più quella “cellula fondamentale della società” è in grado di svilupparsi positivamente, dando forza ad ogni componente e rendendolo capace di resistere alle difficoltà della vita. E conclude sostenendo che, quando la generosità non circola in famiglia, quest’ultima si salva solo se vi è un “eroe nascosto” che continua per affetto a dispensarla comunque. Il film non è perfetto e il personaggio del padre, interpretato da un comunque ottimo Max Tortora, è troppo marcato nella sua vuota stupidità, ma un’opera prima così vera e profonda merita il plauso. Al diavolo gli stupidi supereroi fantascientifici che salvano il mondo, vuote e pallide figure che non cambiano nulla della realtà; evviva le tante parrucchiere Desirè Mazzoni che esistono nella realtà e che rendono il mondo infinitesimamente migliore perchè sanno continuare a voler bene generosamente ai famigliari, nonostante le plurime delusioni che ricevono. Il loro eroismo è nel saper pagare il prezzo della loro capacità di perdonare.
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