Mi sono recato in sala incautamente impreparato, da assiduo ma frettoloso cinefilo spesso mi capita. La potenza di questa tragicommedia si è palesata lentamente portandomi a riflessioni tardive e spero profonde.
Mi trovo in disaccordo con le recensioni che vedono nel rapporto burrascoso tra i due amici la metafora della guerra civile irlandese. Le situazioni insensate, la trama sterile, un messaggio di difficile ricezione, elementi tipici del teatro di Becket aprono al tentativo, estetico, di tratteggiare le esistenze di una comunità “chiusa” contrapposta a paesaggi mozzafiato, costellati di croci, madonne, cippi votivi e una natura indolente. Il noto conflitto è lontano, sullo sfondo di un’amicizia malata, quella tra Pedraic (Colin Farrel) e Colm (Brendan Gleesom), molto simile a quella tra Vladimiro ed Estragone di Becket, apparentemente amici di lunga data, ma in realtà non legati dall’affetto quanto dalla reciproca "necessità”.
Un conflitto di cui nessuno pare capire nulla, i giornali ci sono ma sono appoggiati sul tavolo della cucina, nessuno li legge. La frase più politica di tutto il film la pronuncia il personaggio più negativo, il laido poliziotto Kearney (Lydon): “Era meglio quando gli irlandesi erano coalizzati contro gli inglesi”.
Il Colm che vuole essere ricordato attraverso le composizioni musicali si scopre essere più “disperato” del noioso e ingenuo Pedraic (morbosamente legato alla sua asina). L’unico personaggio tratteggiato come equilibrato è rappresentato dalla sorella del protagonista, la mordace Siobha. Forse anche grazie alla lettura, cui si dedica strenuamente, essa capisce che quella prigionia isolana finirà per inghiottire anche lei e trova il coraggio di raggiungere la terra ferma, seppure infliggendo un’ulteriore perdita al già afflitto Pedraic.
Isolani presi nella morsa invisibile e mortifera di una ciclica e insalubre routine (le presunte ed occhiute amicizie del pub e l’alcool a fiumi). Amicizie monogame che portano con sé il peggio dei rapporti eterosessuali, la superstizione (impersonata dall’inquietante bashee interpretata da Sheila Flitton), improbabili quanto morbose fantasie sessuali che sfociano negli abusi verso i figli. In una deriva inarrestabile anche la riconoscibile ed autocelebrata gentilezza di Pedraic si perde nel peggiore abbruttimento omicida. Oltre ogni modo commovente il giovane Keoghan nei panni dello “scemo del villaggio” Dominic, capace di dare voce ai sentimenti più puri e naturali (la ricerca dell’amore) con poche e magistrali battute.
A lasciare interdetto lo spettatore è, su tutto, il crudo ed impietoso vortice autolesionistico di Colm. Difficile interpretarlo ma azzardando direi che dove non c’è vera apertura mentale (non è casuale la scena in cui la presunta “intellettualità” di Colm è smontata in una sola battuta da Siobah che puntualizza come Mozart fosse vissuto nel XVIII secolo e non nel XVII) non può esserci amore per se stessi (di qui l’autolesionismo) e anche la gentilezza può trasformarsi nella più lucida violenza (le azioni di Pedraic nei confronti di Colm).
Come nell’opera teatrale “Waiting for Godot”, i due ex amici aspettano per tutta la vita qualcosa che possa dargli senso (il pub alle 14 piuttosto che un’ispirazione musicale), qualcosa che possa salvarli dalla disperazione, termine più volte utilizzato per identificare lo stato d’animo di Colm (evidentemente nell’Irlanda degli anni 20 non era nota la depressione).
Insomma, una visione analitica e pessimistica della vitacalata in un film dall’altissimo valore estetico attraverso la grandiosa la performance di tutti gli attori.
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