Un’apoteosi di zuccherosa falsità: nei dialoghi, nelle situazioni, nelle dinamiche narrative, persino nella personalità dei protagonisti. Tutto è artificioso, dai dialoghi manierati alle espressioni artefatte e stereotipate (viene battuto il record mondiale di sopraccigli alzati), dagli sviluppi illogici della storia allo spessore dei personaggi. Nell’accavallarsi caotico di assurdità spiccano la trasformazione in tempo reale di una nobile nullafacente in esperta doppiatrice cinematografica, la metamorfosi improvvisa di una sguaiata attrice del cinema muto in raffinata star, l’ostentata certezza di un rapporto di parentela fraterna puerilmente basata su mere congetture prive di qualsivoglia riscontro e verifica, il tutto accompagnato da battute che vogliono essere sofisticate, ma si rivelano vacue perché hanno la funzione di dare consistenza ad un corpo privo di scheletro. Giovani cameriere si trasformano improvvisamente in esperte psicologhe capaci di cambiare con un solo dialogo la vita di chi le ascolta, alteri maggiordomi preferiscono sudare copiosamente in riva al mare francese pur di non rinunciare per attaccamento alle tradizioni all’abbigliamento della fredda e piovosa Inghilterra, coppie di sposi si sorridono sempre, sia dopo trent’anni di matrimonio, che dopo trenta giorni. Non si litiga mai a Downtown Abbey, tutt’al più si alza un sopracciglio, con l'effetto che tutto diventa insopportabilmente stereotipato. Ben altra solidità avevano i personaggi di Darlington Hall, in “Quel che resta del giorno”: l’affettazione della governante Sally Kenton (la strepitosa Emma Thompson) lì era una maschera che celava profondi desideri interiori e l’impassibilità del maggiordomo James Stevens (l'immenso Anthony Hopkins) nascondeva una serrata lotta tra senso supremo del dovere e voglia di lasciarsi andare facendo scorrere le emozioni. A Downtown Abbey tutto è invece felicemente monodimensionale, ognuno è quello che sembra, il che rivela una desolante povertà di approfondimento psicologico dei personaggi reso ancora più insopportabile dall’ossessivo ricorso a sdolcinate musiche di sottofondo volte ad accompagnare sviluppi narrativi tutti invariabilmente destinati all’immancabile lietissimo fine, tra volti sorridenti e felici. È raro imbattersi in una pellicola scritta peggio di questa, che trasuda fastidiosa falsità fin dal primo fotogramma e risulta più che altro un tentativo di descrivere una società che non può esistere in nessun luogo se non nei film malriusciti
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