eugenio
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venerdì 29 ottobre 2021
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il quaderno del padre
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Esasperazione, scarnificazione, riduzione, ermetismo. Una fantascienza distopica, post-apocalittica in un mondo crudele, terribile, dove la parola amore e fratellanza pare lontana chimera.
La base de La terra dei figli è l’omonima graphic novel di Gipi (Gianni Pacinotti) che esautorata dalla sua veste autoriale, biografica, priva di una seconda parte che nel fumetto è preponderante e qui assente, vive in maniera grandiosa grazie all’aiuto e alla scenografia del regista Claudio Cupellini.
Spingendo il piede sull’acceleratore di inquadrature “classiche” di umanità allo sbando, il cineasta indugia sullo sguardo smarrito del giovane protagonista senza nome (interpretato da un bravo Leon Faun) e dell’iniziale, prima della prematura scomparsa, difficile rapporto col padre (un incattivito Paolo Pierobon.
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Esasperazione, scarnificazione, riduzione, ermetismo. Una fantascienza distopica, post-apocalittica in un mondo crudele, terribile, dove la parola amore e fratellanza pare lontana chimera.
La base de La terra dei figli è l’omonima graphic novel di Gipi (Gianni Pacinotti) che esautorata dalla sua veste autoriale, biografica, priva di una seconda parte che nel fumetto è preponderante e qui assente, vive in maniera grandiosa grazie all’aiuto e alla scenografia del regista Claudio Cupellini.
Spingendo il piede sull’acceleratore di inquadrature “classiche” di umanità allo sbando, il cineasta indugia sullo sguardo smarrito del giovane protagonista senza nome (interpretato da un bravo Leon Faun) e dell’iniziale, prima della prematura scomparsa, difficile rapporto col padre (un incattivito Paolo Pierobon. Presto il registro cambia però e l’intento diviene quello di un’amara comprensione, di un genitore forse troppo silente che ha narrato qualcosa al figlio, non insegnandogli mai a leggere, su di un taccuino. Un taccuino che lo stessa bestia ferita cerca di tradurre, per capire forse, un sottile contatto con un passato irrimediabilmente perduto ma cristallizzato, ci dice Cupellini, in parole da proteggere per poter essere tramandate.
Non c’è molto altro da aggiungere. Il resto appartiene ai canoni usuali di una distopia narrata in molte pellicole trascorse (da The road, a Light of my life per citare i più recenti) ma in La terra dei figli, la catastrofe, la fine diviene pretesto per comprendere ancora una volta, il rapporto padre-figlio: protezione e affetto contro autorialità e crudeltà.
Su ossimori è giocata tutta la pellicola: il viaggio in un mondo che oramai ci sembra così drammaticamente familiare, tante volte ce lo siamo visti raccontare, o ce le siamo raccontati, con virus e rivolte quasi da 1984 contrastato alla dolcezza di un territorio, il Polesine, di paludi e fiumi, di campagne e cascine, di case perdute in un cielo azzurrissimo terso e quasi immaginifico entro cui il ragazzo senza nome si muove. Un ragazzo cresciuto troppo in fretta, un uomo che incontrerà il suo complementary opposite, relegata e schiavizzata in un desolato cascinale con cui cercherà di aprirsi a un sofferto futuro, ad una paternità in un mondo in cui non esistono più bambini.
Un film personale, visualizzato in maniera accurata, e naturalmente violento che si interroga, pur battendo vie segnate, sul mondo che stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni, all’insegnamento stiamo dando loro, e come glielo stiamo trasmettendo. Con un intreccio lineare senza alcun barocchismo ma commovente come nel climax finale con il Boia (Valerio Mastrandrea), La terra dei figli è un buon esempio di cinema italiano, asciutto ed essenziale nella sua precisa bellezza.
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angelo umana
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lunedì 14 febbraio 2022
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destini umani da evitare
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La terra dei figli del regista Claudio Cupellini è un ottimo film per la sua stessa fattura e per i sentimenti che evoca, lascia ben sperare sul destino dell'umanità. Siamo in territori lagunari o lacustri dell'Alto Adriatico (di quelle parti sono diversi attori qui recitanti, ma tutto il cast è di interpreti reduci da opere di valore), uomini senza nome e identità vi vivono in condizioni primordiali, uno nemico dell'altro a difesa del proprio territorio in una società post-industriale.
Testo
Qualcosa dev'essere accaduto, come un'involuzione, una regressione a condizioni di lotta per la sopravvivenza in quell'ambiente.
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La terra dei figli del regista Claudio Cupellini è un ottimo film per la sua stessa fattura e per i sentimenti che evoca, lascia ben sperare sul destino dell'umanità. Siamo in territori lagunari o lacustri dell'Alto Adriatico (di quelle parti sono diversi attori qui recitanti, ma tutto il cast è di interpreti reduci da opere di valore), uomini senza nome e identità vi vivono in condizioni primordiali, uno nemico dell'altro a difesa del proprio territorio in una società post-industriale.
Testo
Qualcosa dev'essere accaduto, come un'involuzione, una regressione a condizioni di lotta per la sopravvivenza in quell'ambiente. Qui la post-apocalisse è detta derivare dai “veleni” di cui il territorio è stato disseminato, evento non solo immaginario ma vicino alla nostra realtà attuale. Non si può non pensare a condizioni simili, post-apocalittiche, rappresentate ad esempio in The Road di John Hillcoat: ambedue i film sono tratti da libri, The Road dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy e La terra dei figli dalla graphic novel di Gipi.
“Padre” (Paolo Pierobon) giura di non aver rubato qualcosa al terribile Aringo, uomo truce, sguardo torvo e sempre armato a difendere il suo territorio (ma si tratta di Fabrizio Ferracane, indimenticabile e pacifico Luciano, “fratello maggiore” in Anime Nere), lo giura su tutto quello che non c'è più, e sembrano uomini che han perduto tutto, anche un po' di umanità verso l'altro. Da quanto tempo non ti fidi di qualcuno? è detto nel film, e sembra una dimensione di cui l'umanità corrente è affetta. “Figlio” è quattordicenne (l'attore è il ventenne Leon de la Vallée, interpretazione superba), non sa nulla del mondo o almeno di cosa c'è oltre la chiusa, dedito anch'egli alla soddisfazione di bisogni immediati, non ha una madre e pertanto non educato ad alcuna affettività. Sembra non conoscere nulla dell'essere al mondo, vorrebbe sapere dal padre che cosa egli scrive su un quaderno segreto quando è sera, ma è respinto rudemente.
La morte del padre è qualcosa a cui non è preparato, è dispiaciuto ma non sa ancora cos'è il pianto. I cancelli della chiusa gli verranno aperti dalla “strega” (Valeria Golino), vuole vedere cosa c'è aldilà di essa ma soprattutto cercare qualcuno che gli sappia leggere cosa “Padre” aveva scritto nel quaderno, invoca chi incontra nella sua fuga di leggergli i ricordi del padre. Piace pensare che il quaderno sia simbolo di cultura e trasmissione di memoria, qualcosa che salvi l'essere umano da atteggiamenti bestiali. Esso è però l'unica eredità che del genitore resta a Figlio.
Quei luoghi paiono essere diventati terreno di conquista per nuovi despoti, che si avvalgono di uomini asserviti e senza ricordi, i quali del resto portano paura e dolore. Despoti e loro “bravi” (in senso manzoniano) che si sono autoperdonati, senza alcuna civiltà né rimorso. Eppure i “giusti” ci sono, oltre a Figlio che cerca un po' di umanità, resta Maria (Roveran, impossibile non citarla per il ruolo in Piccola Patria) e finalmente “il Boia” (Valerio Mastandrea), uno che si ravvede e non si perdona più, l'unico che saprà leggere a Figlio i ricordi del padre. Un finale che stimola un poco le ghiandole lacrimali, ma ci sta.
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felicity
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lunedì 29 novembre 2021
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la possibilità di riscrivere il passato
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Non esiste futuro possibile nella terra dei figli, e questo è innanzitutto perché non esiste più il passato, se non nelle parole annotate sul diario da un padre, che però nessuno sa più leggere, o si rifiuta di farlo senza nulla in cambio.
Ecco la questione fondamentale dei nostri tempi, la possibilità di cancellare e riscrivere il passato per una generazione costretta a viverne esclusivamente le conseguenze, che hanno assunto la forma di un presente immobile.
L’incipit esplicita da subito che il regista immerge le immagini del film nella stessa dissoluzione capitata ai linguaggi di questa epoca post-(apocalittica?), in cui le idee e le loro rappresentazioni materiali non hanno più alcuna storia a cui appoggiarsi: e così la controllatissima compostezza formale tiene insieme le linee di un fumetto, le traiettorie di uno young adult essiccato, e l’eco di una certa serialità avventurosa survival, senza mai cedere alla tentazione dell’ammiccamento pop, o di genere (per quanto lo spettatore cinefilo non possa rinunciare a riconoscere i numerosi riferimenti ai classici distopici disseminati lungo la visione).
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Non esiste futuro possibile nella terra dei figli, e questo è innanzitutto perché non esiste più il passato, se non nelle parole annotate sul diario da un padre, che però nessuno sa più leggere, o si rifiuta di farlo senza nulla in cambio.
Ecco la questione fondamentale dei nostri tempi, la possibilità di cancellare e riscrivere il passato per una generazione costretta a viverne esclusivamente le conseguenze, che hanno assunto la forma di un presente immobile.
L’incipit esplicita da subito che il regista immerge le immagini del film nella stessa dissoluzione capitata ai linguaggi di questa epoca post-(apocalittica?), in cui le idee e le loro rappresentazioni materiali non hanno più alcuna storia a cui appoggiarsi: e così la controllatissima compostezza formale tiene insieme le linee di un fumetto, le traiettorie di uno young adult essiccato, e l’eco di una certa serialità avventurosa survival, senza mai cedere alla tentazione dell’ammiccamento pop, o di genere (per quanto lo spettatore cinefilo non possa rinunciare a riconoscere i numerosi riferimenti ai classici distopici disseminati lungo la visione).
E’ un’impresa ambiziosa, quella di La terra dei figli, lo rivela il tempo che Cupellini si prende per darci queste coordinate sospese, nebbiose, da cui vengono alla luce questi personaggi ancestrali, che i segni di quanto è successo a questa laguna avvelenata li portano addosso, sui volti consumati e sui corpi malconci.
Come in ogni fiaba di fantascienza filosofica che si rispetti, la metafora principale passa per il senso della vista, tra personaggi non vedenti o pesantemente mascherati sugli occhi, e il nostro giovane protagonista che non vede intorno a sé alcuna manifestazione della Fine, essendoci nato dentro.
Gli si apriranno appunto gli occhi nel corso della sua piccola odissea alla ricerca di qualcuno che possa fargli riascoltare la voce del padre. Una serie di incontri ai confini della disumanità, tappe di un viaggio che dalle secche del lago finisce nei silos arrugginiti di una fabbrica, allegoria dai toni che quasi fanno pensare a Matteo Garrone, forse il vero punto di riferimento “alto” inevitabile del cinema fantastico italiano contemporaneo.
Il rischio, come sempre nelle opere di Cupellini, è quello di una esagerata razionalizzazione della materia, che finisce così per essere eccessivamente decompressa: ma in questo caso l’afflato si traduce in un azzardo dal respiro ampio, per quanto non sempre bilanciatissimo.
Come appunto nel cinema di Garrone, la scintilla vitale la fanno scoccare gli interpreti nascosti/esposti sotto le maschere (i protagonisti Leon de la Vallée e Maria Roveran sono gli unici “senza maschera”, che vanno conquistandosi le proprie divise lungo il corso della vicenda, ed è letteralmente “smascherandosi” che il personaggio di Valerio Mastandrea farà la differenza): a Valeria Golino, Fabrizio Ferracane e Paolo Pierobon è lasciato il compito di rendere credibile sin da subito l’universo in cui lo spettatore viene catapultato, e la maniera, ora fragile ora feroce, ora dolce ora disperata, con cui si fanno incarnazione di creature dalla statura mitologica, setta il livello della vibrazione sul pelo dell’acqua su cui si agita tutta l’inquieta parabola del film.
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