Pellicola che segue la tendenza hollywoodiana del ventunesimo secolo di celebrare e rivalutare le battaglie per i diritti civili delle minoranze etniche negli Stati Uniti, in particolare degli afro-americani: sono operazioni sicuramente lodevoli negli intenti, ma che talvolta portano a risultati ben poco condivisibili, in primo luogo sul piano della ricostruzione storica.
In questo caso il regista Shaka King sceglie una narrazione davvero troppo schierata e partigiana, tanto da ridimensionare inaccettabilmente la matrice sovversiva dell’azione delle “Pantere nere”, che non viene fatta oggetto della benché minima nota di biasimo. Viceversa è criminalizzato l’uso della violenza da parte della polizia, nonostante che nella stessa pellicola si mostri come fosse in atto una lotta armata, con scontri a fuoco in cui a rimetterci la vita erano anche i tutori dell’ordine (ma sembra quasi che quando a morire è un poliziotto, non conti … alla faccia del “black lives matter” dei nostri giorni).
In questa ricostruzione faziosa della storia americana della seconda metà del secolo scorso, si innestano le vicende dei due protagonisti: da una parte il capo delle “Pantere nere”, dipinto come un’eroico condottiero del suo popolo ed un martire senza macchia e senza colpa; dall’altra il traditore, che seppur combattuto e ferito dai sensi di colpa, resta un infame e pertanto merita solo disprezzo.
Fa riflettere la condanna spietata del traditore, che nella narrazione fortemente ideologizzata della pellicola ha la colpa inemendabile di avere tradito un leader fortemente idealizzato, come si evince dal bel titolo dell’opera.
Ben diverso come altre pellicole avevano descritto le dinamiche del tradimento seguendo narrazioni molto più leggere, poetiche ed al contempo profonde, ritraenti tratti umani emozionanti, come nell’impareggiabile capolavoro di John Ford “Il traditore”.
Troppi i tempi morti, soprattutto dovuti ad uno sforzo palese di voler rendere il lato umano degli appartenenti all’organizzazione rivoluzionaria.
Buona la prova dei due protagonisti Lakeith Stanfield e Daniel Kaluuya, che inspiegabilmente alla notte degli Oscar vennero entrambi inseriti nella categoria “attore non protagonista”, tanto che viene da chiedersi chi fosse allora il personaggio principale del film. Per la cronaca Kaluuya riuscì almeno ad aggiudicarsi la statuetta.
Tra gli altri interpreti si ricordano Dominique Fishback, nel ruolo femminile di maggiore rilievo, Martin Sheen nella parte dell’ormai sempre vituperatissimo J. Edgar Hoover, e Jesse Plemons che anch’egli, essendo un bianco, deve ricoprire un ruolo alquanto negativo.
Risucita la ricostruzione dell’America del tempo, dall’abbigliamento agli ambienti.
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