Un film con afflato documentaristico o viceversa? O più semplicemente un esempio di “realismo” cinematografico? La tentazione di definirlo “Documentario” è basta, è forte a patto, però, di fuggire l’equivoco di ritenere il “documentario”, una riproduzione fedele della realtà. Così come cerchiamo di fuggire l’idea del cinema come “riproduzione pedissequa del reale”: il cinema che pretende di intuire la realtà nella sua essenza e senza mediazioni. Soprattutto se consideriamo che “osservare è sempre manipolare” cioè non è possibile eliminare completamente il punto di vista dell’osservatore. Allora, questo ibrido “film-documentario” si innesta in quella forma “ambigua” di "cinema" che si potrebbe definire, con una formula piuttosto grezza e persino cacofonica
"studio filmico" quello che non si limita a “raccontare” una storia (come se si trattasse di fantasie soltanto), ma “descrive”, “riporta” con una qualche pretesa insieme di “documentare-dimostrare”.
Io questo "film" lo vedo più come una forma di «documentarismo didattico» ma molto personale, persino confidenziale: quello in cui si vorrebbero fondere l’urgenza dell’informazione (l’impellenza di “avvisare” il pubblico del preoccupante dilagare del fenomeno del bullismo), e l’obbligo morale dell’impegno sociale e politico
Di sicuro, la “proiezione” non invoglia a “guardare soltanto” (come se assistessimo ad un documentario scientifico sulle falene) Qui lo spettatore partecipa emotivamente dinnanzi all’insulsaggine della classe docente, o al cospetto della “inspiegabile” crudeltà fisica e psicologica esercitata da alcuni bambini o di fronte al “coraggio” o “ingenuità” commovente (dipende dai punti di vista) di Nora. La regista è vero che non si limita a vedere. Tende a intervenire, a partecipare a ciò che fa vedere, senza dubbio. Le immagini hanno un senso e la regista intende imporre alle immagini il proprio senso drammatizzandole.
È anche vero che analizzare in profondità il fenomeno del bullismo è impossibile nello spazio ridotto di un “film -documentario” (di 72 minuti ,oltretutto) e forse la disamina non compete neanche ai cineasti, né al linguaggio “cinematografico”. Dunque, la regista non può che limitarsi alla dissezione/scansione della superficie. Semplificare quel tanto che basta a rappresentarci le cose. Qui il “fuori campo” predomina sul “campo in”. Perché quella cui assistiamo non è soltanto la violenza che i bambini esercitano su altri bambini. Il legame profondo che unisce Abel e NORA è destinato a mutare fatalmente o comunque non sarà più lo stesso nello spazio sociale della scuola. Il loro rapporto compreso il rapporto con il padre che si rivelerà comunque inadeguato a comprendere i bisogni reali dei figli, dovrà essere costantemente mediato dalla dialettica perversa del gruppo. Il mondo dell’infanzia e il mondo degli adulti, il mondo familiare e il mondo-di-fuori sono destinati a scontrarsi o comunque a non comunicare in modo efficiente e quando comunicano succedono soltanto sfracelli. Quindi ciò che succede nello spazio sociale dell'istituzione scolastica è mediato inevitabilmente da ciò che succede ad un livello sociale superiore di cui non possiamo non tenere conto anche se non è direttamente rappresentato nelle immagini che si susseguono sullo schermo (il fuori campo famoso, tanto citato dalla regista)
In questo “Film-Documentario” assistiamo all’analisi “offline” del fenomeno del bullismo: ”Offline” perché partecipiamo all’analisi minuziosa, dal punto di vista emotivo dei protagonisti, se non altro,della forma finale di una “reazione” (individuale, ma comunque parziale perché riferita al contesto più ristretto di un'istituzione scolastica) che testimonia, spero non tardivamente, i tempi e i modi di sviluppo e i costi morali di uno stile di vita collettivo e di una visione del mondo nel suo complesso esiziali.
Quella sorta di Weltanschauung dove si vede che il mondo è in balìa sempre dei più forti che abusano del loro potere puntualmente.
C’è una sequenza in particolare in cui la regista sfacciatamente sembra fallire nel suo proposito di “descrizione oggettiva” del fenomeno “bullismo”: quando finisce per puntare l'attenzione su un aspetto del bullismo o su una sua conseguenza che sembra dare per scontata e la fa balzare in primo piano a invadere il “campo in”. Anche Abel diventa un bullo ad un certo punto, un persecutore (“Chi è ferito finisce per ferire”come recita Florence (Greta Gerwig) ne “Lo stravagante mondo di Greenberg” di Noah Baumbach,2010,) perché Abel ha maturato la convinzione che in questo mondo puoi essere riconosciuto soltanto o come vittima o come aguzzino. E allora tanto vale salire sul carro del vincitore sembra volersi dire,forse. Il sopruso subìto, in realtà, può produrre anche atti di autolesionismo, abbandono oppure deterioramento sul piano cognitivo e affettivo, un’inclinazione al vittimismo, una personalità passivo-aggressiva.
Invece Nora pare voler ribadire al fratello e a tutti noi spettatori, forse, che è possibile una terza via. Quella della “pietà” e dell’intima rinuncia ad ogni forma di gratuita brutalità. Nora Adotta la soluzione “complessa” senza dubbio della “comprensione” come unico modo efficace per difendere se stessa e quelli che le stanno più a cuore.
Poco importa sapere o capire perché Abel si rassegni ad essere vittima di questa logica del branco (per personalità, per temperamento, per esperienza) O perché invece Nora alla fine si ribelli alla stessa perversa logica ma non prima però di attraversare anche lei lo stadio in cui, nel tentativo di sfuggire al ruolo di vittima, si scaglia contro il fratello reo con la sua fragilità e la sua impotenza di renderla oggetto della feroce esclusione perpetrata ai suoi danni dal gruppo femminile o meglio da alcune femmine di questo gruppo
Quello che sappiamo con discreta certezza è che Abel e Nora partecipano ad un mondo comune sono parti a pieno titolo di una cultura. E tuttavia partecipano a questo mondo in modi diversi proprio come in modo diverso i musicisti partecipano ad un'orchestra con i propri strumenti. Il problema è che in questa cultura o “sistema-orchestra” non c'è necessariamente una partitura né un direttore che guidi i membri di questa orchestra sociale, parafrasando Winkin Y. (gli adulti sono assenti o comunque inadeguati, incapaci, indifferenti)
Ciascuno nel disperato tentativo tante volte frustrato di integrazione, in questo bisogno spasmodico di riconoscimento, in questo affannoso sforzo di adattamento, “suona” agisce accordandosi (intonandosi) con l'altro, (gli altri sono il nostro diapason) convergendo e in taluni casi appiattendosi sull'altro e appellandosi agli strumenti personali, alle le risorse interiori di cui dispone; quindi, con le proprie fragilità e le proprie forze.
Nel pieno di questa circolarità tra il sistema e i suoi singoli appartenenti tra il gruppo nella sua totalità e i singoli membri considerati nella propria individualità qualcosa delle parti va irrimediabilmente perduto. È un po' come se nel momento in cui comunichiamo con gli altri e quindi partecipiamo alla vita sociale dovessimo rinunciare ad alcune delle nostre potenzialità, o ad una parte della nostra identità più profonda.Cioè non possiamo adottare tutti gli stati per noi possibili.
In tal senso, Abel nel corso della sua partecipazione alla vita sociale finisce per attualizzare solo una piccola parte di sé (Gli auguriamo di trovare le forze e le modalità necessarie per potersi riscattare nel corso della sua vita) quella inerente a ricoprire la specifica funzione di vittima. Mentre Nora partecipa al sistema, ma ribellandosi ad esso, attualizzando un suo stato possibile quello di chi ha deciso di andare controcorrente, quello di chi si oppone alla violenza sul più debole come principio organizzatore ineluttabile delle relazioni sociali in generale e tra pari nello specifico.
Quello di chi insorge contro il “destino”, se volete, dellaprepotenza, dell’abuso di potere e della mafiosità a tutti i livelli e a tutti gli stadi della vita anche di quelli più infantili dello sviluppo individuale. È rivoluzionario il gesto dell’abbraccio di Nora.
Tutto questo non poteva entrare nel breve spazio di un film forse. O forse, la regista voleva semplicemente scongiurare il rischio che il racconto del bullismo si trasformasse in una di quelle solite partite che si consumano tra le speculazioni statistiche del sociologo, quelle più tortuose dello psicologo/psichiatra e quelle incupite e un po’ apatiche dell’insegnante?
Nella scuola dei due piccoli protagonisti si aggirano genitori distratti o assenti che fanno fatica ad appropriarsi di un ruolo significativo anche nell'ambito scolastico e insegnanti delusi che stanno forse celebrando da un pezzo il loro fallimento? “Perché non intervenite?”, chiede Nora alla maestra. “Perché non sappiamo cosa fare”, confessa la donna. Di fronte a questioni complesse come la realtà del bullismo ci prende lo sgomento come in tutte quelle circostanze in cui assistiamo ad una violenza che non ha giustificazione alcuna e ci invade l'orrenda sensazione di non poter apportare un qualche rimedio. Rimane soltanto l'indignazione per l'insulsa violenza dei persecutori e la compassione per i volti affranti delle vittime
In questo mondo di adulti incapaci, indifferenti, impotenti e perversi i bambini dovranno cavarsela da soli tra piccole e grandi meschinità perché “quando aiuti gli altri le cose peggiorano”, per te stesso è per quelli che vorresti aiutare. Lo stesso Abel rifiuta all'inizio l'aiuto della sorella ma anche del padre perché teme umiliazioni ben peggiori. Non sa ancora Abel che verosimilmente quell’ aiuto così contrastato potrebbe rivelarsi per lui salvifico nel suo prossimo futuro ma anche in quello a lungo termine.
Wandel molto pessimista riprende i protagonisti soprattutto mentre si cimentano nelle prove in cui i corpi dei bambini si esercitano nelle prove di “forza muscolare”: durante le sessioni di ginnastica o nel corso degli esercizi di nuoto in piscina o nelle prove di abilità durante il gioco in cortile. Poche e brevi le scene che ritraggono gli alunni in aula. Come a dire che per sopravvivere in questo mondo è meglio averci un fisico bestiale piuttosto che una mente ben funzionante?
Personalmente avrei speso qualche sequenza in più sulle attività intellettive perorando l’idea in particolare che forse è proprio dal linguaggio che dovremmo partire e fin da piccoli se vogliamo condividere con gli altri un mondo nuovo, concreto e non solo la sua idea astratta. È un cambiamento nell’uso del linguaggio comune, quotidiano che può indurre una modificazione anche nella rappresentazione simbolica stessa di oggetti, fenomeni, relazioni. Un linguaggio a sostegno di schemi mentali nuovi, perché quelli vecchi si rivelano ogni giorno sempre più falsi e inutili per affrontare le sfide del futuro.
È poi l'assenza della madre mai citata quasi che la sua mancanza fosse scontata. In questa sua foga di fare a pezzi letteralmente gli adulti, non solo nelle inquadrature, la regista finisce per uccidere simbolicamente pure la madre dei protagonisti?
I figli non la citano per niente: la sua figura sembra letteralmente amputata nella loro psicologia oltre che nel loro linguaggio. Possiamo pensare che una madre non ci sia proprio, che sia morta, che i genitori siano separati o divorziati, che l’uomo sia un "giovane" celibe con figli a carico. Oppure che la madre alla stregua di una moderna Medea abbia scaricato i figli, uccidendoli così psicologicamente, come atto di vendetta nei confronti di un marito ritenuto non all'altezza del ruolo di coniuge?
O che la regista abbia avuto con la propria madre un rapporto piuttosto conflittuale tanto che con l’amputazione della figura materna dei due piccoli protagonisti, nel film stia celebrando l’uccisione simbolica della propria madre.Possiamo farci tutti i film che ci pare, in effetti. D’altra parte, fantasticare è lecito in questo caso ancora di più perché è la stessa regista ad affermare che "l'assenza della madre significa lasciare libero lo spettatore di fare il suo film... il fuori scena è molto importante". Ma l’appello alle mirabilie del “fuori campo” non giustifica secondo me la scelta della regista di mutilare la figura materna. Voglio dire che non si giustifica tale scelta né sul piano stilistico, né sul piano della narrazione della psicologia dei personaggi, secondo me,nè sul piano dell'analisi del bullismo. Detto ciò, il “film” va visto assolutamente se non altro per le riflessioni che stimola e non solo sul bullismo.
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