Rifkin's Festival

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Woody nel labirinto dei sogni

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Come ogni autore prolifico, Woody Allen non si pone nemmeno il problema della ripetizione. Quasi tutti i suoi film sono variazioni più o meno riuscite, complesse o sorprendenti su temi e figure che definiscono il suo mondo da quando scriveva racconti e pastiche, ancor prima di fare cinema. A cambiare, nel tempo, è il punto di vista del narratore, fattosi via via sempre più distaccato e disilluso. Quando poi non c' è lui sullo schermo, cioè quasi sempre ormai, il gioco si fa perfino sfacciato. Con qualche danno per le ambizioni ma non certo per il divertimento. L' intellettuale di mezz' età in crisi creativa e coniugale (Wallace Shawn) che accompagna la moglie, procace ufficio stampa (Gina Gershon), al Festival di San Sebastian, è in questo senso un equivalente così smaccato di tanti eroi alleniani che può giocare a carte scoperte. La seduta psicanalitica che incornicia il film detta le regole di un gioco che conosciamo a memoria. Ma sa stupirci fin quasi alla fine per poi evaporare in un sorriso sfumato di amarezza. Un' amarezza che stinge dal personaggio sul suo creatore. È vero, «i festival non sono più quelli di una volta» e se è per questo neanche il cinema. Anzi niente è più ciò che era o speravamo che fosse. Così al povero Rifkin, che ci mette poco a capire come l' interesse di sua moglie per quel giovane regista francese alla moda (Louis Garrel) non sia solo professionale, resta una sola alternativa. Rifugiarsi, da ex-docente di Storia del cinema, in un universo onirico fatto di rivisitazioni dei classici di una volta, Bergman, Buñuel, Fellini, Godard, Truffaut, Lelouch (più Orson Welles, che ispira forse il sogno più divertente e alleniano di tutti), in un labirinto esilarante e insieme vagamente angoscioso proprio perché chiuso, datato, circoscritto. Il punto debole, semmai, è quella bella dottoressa spagnola vagheggiata e irraggiungibile (Elena Anaya), intrappolata a sua volta in un matrimonio infelice ma un po' troppo esile per reggere il gioco. Che su un piccolo film fragile ma godibile molta critica Usa si sia scagliata con foga degna di miglior causa, fa invece riflettere. Nel 2022 ricorrono i 70 anni dall' esilio di Chaplin, bandito dall' America maccartista. Certo, ogni paragone è azzardato. Ma l' esilio politico e l' ostracismo economico e morale non sono mai sembrati così vicini.
da L'Espresso, 9 maggio 2021


di Fabio Ferzetti, 9 maggio 2021

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