Unorthodox

   
   
   

Se non io, chi? Se non ora, quando?

di Martina Leprotti


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domenica 18 aprile 2021

Ci sono storie che entrano nella tua vita in sordina, quando meno te lo aspetti. Sono storie lontane, quasi sussurri, alle quali spesso non avresti prestato orecchio, che non avresti mai pensato potessero stravolgere il tuo punto di vista o, almeno, fornirti validi spunti di riflessione. Ecco, questo è quello che più o meno mi è successo con Unorthodox una sera di zapping compulsivo come tante altre, in cui non avevo la minima idea di cosa guardare e scorrevo tra i nomi delle varie serie proposte più per inerzia che per altro, la noia alle stelle e la necessità di farmi una flebo di caffeina in vena pur di restare sveglia. A colpirmi è stata la locandina, quindi attenzione al luogo comune del “mai giudicare un libro dalla copertina”: spesso un fotogramma ben fatto è un ottimo biglietto da visita per un prodotto ben confezionato.
“Beh, perché no?”, mi sono detta mentre premevo il tasto play e, credetemi, è stata una buona scelta.
Non mi aspettavo che una miniserie d’impatto come questa fosse conosciuta da così poche persone: Netflix offre una piccola gemma, facile da seguire e ancor più breve da guardare. Unorthodox dura solo quattro puntate da un’ora circa ciascuna, favorendo la visione anche a persone che non hanno il tempo necessario per cimentarsi in imprese da decine e decine di ore come le stagioni di Dark (che adoro, per carità) o la Casa di Carta. Certo, nomi ben più conosciuti e diametralmente opposti da un titolo come Unorthodox e la drammatica avventura che vuole raccontare, una storia vera dal libro autobiografico di Deborah Felman, ragazza cresciuta a New York in una comunità ultra-ortodossa: quella chassidica Satmar, che vede come regole imprescindibili un rifiuto radicale della vita moderna e tra le altre cose una segregazione medievale della donna, vista come la classica “sforna-bambini” incapace di avere altre ambizioni nella vita che non riguardino la sfera della maternità.
Non si tratta di una storia di riscatto: Esty Shapiro, di Brooklyn, vive in una realtà che le va stretta, costretta a giocare il ruolo della brava moglie all’interno di un matrimonio combinato, circondata da una società che la rifiuta per la sua diversità ma non può rinnegarla per non far torto alle tradizioni su cui fonda, quelle stesse tradizioni che immergono Esty in un’atmosfera di falsa sicurezza, asfissiante e corrotta da un fanatismo che non fa altro che proibire: non può leggere la Torah, cantare o suonare il pianoforte, le sue grandi passioni, ma soprattutto comincia a essere vista come un nemico quando a un anno dall’inizio del matrimonio non è ancora riuscita a portare a termine l’unico compito che lei e le altre donne della comunità sono costrette a compiere: avere un figlio. Quando un evento improvviso cambia le cose e la dimensione distorta in cui vive comincia a incrinarsi Esty compie l’unico, disperato gesto che può liberarla dalla sua gabbia dorata: scappa lontano, a Berlino, dove dovrà affrontare la realtà di tutti i giorni e liberarsi prima che della sua comunità, delle paure che ancora la intrappolano.
Come ho detto questa non è una storia di riscatto o di rinascita. Se ci pensiamo bene Esty non ha mai veramente vissuto. La sua famiglia non ha mai davvero compreso le sue necessità. Sua madre è scappata, suo padre un alcolizzato. Suo marito, che ha sposato dopo averci parlato solo due volte, è sotto il controllo del rabbino e della madre che si prendono l’onere di pensare al posto suo. Esty compie un gesto così radicale perché capisce di non poter dare alla comunità quello che la comunità vuole: ogni pezzo del suo essere, a costo di annullare sé stessa come ha fatto dal momento in cui è nata. Le dinamiche sociali della comunità vedono la donna come un oggetto, da mostrare come un pezzo di carne pregiato sul banco macelleria. Quando si sposa Esty è costretta a radersi i capelli e a indossare una parrucca per dimostrare di appartenere finalmente a qualcuno. Ciò che la serie vuole mostrare è proprio questo, che nella comunità nessuno può appartenere a sé stesso, nessuno è veramente libero. Esty se ne rende conto in tempo, ma molte degli uomini e donne con cui si rapporta si trovano nella stessa situazione, semplicemente non sono pronte a rendersene conto. Si tratta di costrizioni, deformazioni mentali provocate da pregiudizi e strade precostituite da altri che finiscono con il tramortirti e impedirti di pensare.
Esty, da questo punto di vista, è una Elena moderna: viene rapita non da Paride ma dalle speranze di una vita nuova, fresca in una Berlino colorata e cosmopolita che nella serie affascina per la fotografia e i meravigliosi scorci segreti che permette di assaporare. Menelao è la parte interpretata dalla sua comunità, pronta a tutto pur di riportare l’odiata pecora all’ovile.
Non voglio dire altro, perché rischierei di svelare parti che è meglio scoprire di persona.
Da un punto di vista interpretativo i personaggi sono azzeccati: Shira Haas è l’attrice che interpreta Esty con una delicatezza e un’intensità sconvolgenti, donandole l’espressività e la profondità necessaria a rappresentare col giusto rispetto il travaglio di una giovane donna alla ricerca di sé. Gli attori sono decisamente poco noti ma in grado di trasportare lo spettatore all’interno della dimensione narrata, facendoci sentire quella sensazione “di essere sbagliati” e di inadeguatezza che Esty prova in prima persona nei numerosi flashback che narrano le parti salienti della sua vita. Il connubio tra Esty e Yanky, suo marito, è particolarmente riuscito. La tensione e l’affetto che i due provano nei confronti dell’altro evidenzia perfettamente il loro rapporto drammatico. Le mie uniche perplessità vanno a Moishe, cugino del marito di Esty che viene mandato a Berlino per farla tornare alle origini: appare così sgradevole e odioso da risultare quasi parodico. Esty ci viene proposta come un’amica, una ragazza confezionata come il prodotto del suo ambiente, che tuttavia sboccia col progredire della storia in modo potente e inaspettato. Le regole, le feste e le varie tradizioni appartenenti alla comunità sono rappresentate in maniera realistica, anche se in alcuni casi tendono a dilatare i tempi tanto da far apparire la scena come un documentario a chi non conosce abbastanza l’ambiente. In ogni caso la musica, che non è proibita agli uomini ed è una protagonista importante quasi quanto Esty, non abbandona mai la scena e ci fa comprendere come non tutto ciò che appartiene alle nostre origini vada per forza abbandonato o visto come un nemico. Musica classica, musica ebraica, musica tecno… i brani sono vari e slegati tra loro, forniscono un metodo di analisi valido per studiare gli ambienti luminosi di Berlino, quelli grigi della comunità e quelli propri delle strade di New York. Nella serie si alternano Yddish, tedesco e americano a evidenziare i contrasti tra i tre mondi che entrano a contatto e come questi finiscano inevitabilmente per intrecciarsi a rappresentazione di un’umanità che, bene o male, finisce con lo sfondare i confini che gli uomini hanno eretto gli uni contro gli altri.
In altre parole Unorthodox ti colpisce allo stomaco proprio grazie alla sensibilità e all’innocenza della protagonista, che tutto deve scoprire del mondo esterno ma che affronta le difficoltà come tutti coloro che assaporano per la prima volta la libertà fanno: terrorizzati, ma risvegliati da quella boccata di aria fresca che hanno la possibilità di respirare. È un invito ad agire, in un mondo in cui le uniche cose da perdere sono le catene, per rispetto di sé e per il desiderio di vivere davvero. Esty recita, a un certo punto della terza puntata, un verso del Talmud: “se non io, chi? Se non ora, quando?”, e credo proprio che sia una frase fondamentale per ognuno di noi. Lo vede Esty, lo vediamo noi rimanendo incollati allo schermo per la meravigliosa semplicità di questa serie. Il messaggio è chiaro: vivere ogni momento, lontano da chi ci vuole incastrare in un ruolo che non è il nostro. Tutti noi possiamo essere eroi per noi stessi, a patto di rischiare.
Sì, ne sono convinta: alcune storie ci trovano e ci cambiano quando meno ce lo aspettiamo.

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