Il processo ai Chicago 7 parla delle tensioni negli USA di oggi, tra presidenti guerrafondai, guardie che nascondono distintivo e targhetta identificativa prima di picchiare senza pietà, eserciti per le strade, sbirri infiltrati tra le fila dei movimenti, e pugni chiusi di protesta librati in aria.
La confezione hollywoodiana garantita dalla co-produzione Dreamworks mantiene il Sorkin regista su binari decisamente più saldi del suo problematico esordio e chiaramente ancora una volta la differenza la fanno gli interpreti, con il fenomenale duo Baron Cohen/Jeremy Strong che spande la maggiore carica intergenerazionale.
Il processo ai Chicago 7 è uno di quei film che più lo guardi e più senti crescere dentro una tale rabbia, ma anche disprezzo, per quello che è stato, e quello che sfortunatamente ancora è.
Si, perché nonostante il film di Aaron Sorkin tratti di eventi avvenuti nel “lontano” 1969, risuonano attualissimi e forti ancora oggi, e sono un’eredità di cui è difficile liberarsi. E proprio per questo che questo film si aggiunge ad una lunga lista di film necessari, necessariamente arrabbiati, che giocano l’importantissimo ruolo di ricordare quello che non deve essere più.
Il racconto, il cuore pulsante del film, taglia nelle sue due ore e poco più un processo, o meglio farsa, che ha estenuato per le sue 180 sedute gli imputati colpevoli solo di professare una diversa fede politica.
Il susseguirsi dei momenti centrali della storia finiscono con lo stremare anche lo spettatore, inorridito dalla legalità delle barbarie promosse dalla “giustizia” americana. Ma Sorkin non si lascia mai sopraffare dall’emotività, eludendo lo scontro ideologico e muovendosi al di sopra, con la semplice intenzione di mettere in scena uno spregevole capitolo dei bellicosi anni ’60.
Il processo ai Chicago 7 viene gestito con capacità ed eleganza che tutto, ogni scena e ogni personaggio, si trova perfettamente al suo posto all’interno di una struttura filmica serratissima.
Attorno alle singole figure, che solo raramente agiscono individualmente e che si muovono come una macchina corale, si costruisce il dramma legale che smaschera il circo mediatico del processo. Su tutto troneggia il gigante Frank Langella nei panni dello spregevole giudice Hoffman, conduttore e pagliaccio di questo circo.
Di fronte, sul tavolo degli imputati i 7 costituiscono, compatti, l’ossatura del film. Ma proprio quei personaggi, seppur interpretati magistralmente da ognuno degli attori chiamati a recitare la parte, sono investiti, come il film stesso, di una patina che sembra purtroppo l’unica pecca di un film altrimenti perfetto.
Ne scaturisce un’atmosfera stantia, che si percepisce con forza nel personaggio dell’avvocato dell’accusa Richard Shultz, che sembra ricucito addosso a personaggi proveniente da un altro mondo, tra Gary Cooper e James Stewart.
Nelle grida di denuncia del film di Sorkin riecheggiano le voci di un’Hollywood d’oro che si confronta, e si scontra, con le necessità di un cinema crudo e di spessore sociale.
Il film metabolizza l’indignazione nei confronti di un governo che abusa del proprio potere, ieri come oggi.
Da Il processo ai Chicago 7 emerge uno spirito popolare che avverte ed incita, necessariamente, alla memoria delle vittime e dei martiri delle lotte passate, e di quelle presenti. Risulta impossibile non unirsi al grido, o meglio, allo sfogo, di protesta che echeggia in quell’aula di tribunale, segno della grande componente emozionale ed emotiva del film di Sorkin.
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