Il tempo passa per tutti senza scampo, spada di Damocle, micidiale e inesorabile. Nulla pare intaccare il suo corso, a niente valgono i rimedi casalinghi per ingannar il sacro portatore della clessidra, responsabile, talune volte, di un decadimento delle nostre facoltà mentali e cognitive.
Invecchiando si perdono le forze, il fisico si rilassa e in taluni casi, oltre al decadimento del corpo, si assiste alla perdita di memoria della mente sino all’irreparabile. Sembrano saperlo bene molti cineasti, come Michael Haneke, vincitore qualche anno fa della Palma d’Oro a Cannes con Amour, un dramma da camera dalla reminiscenze bergmaniane, dedicato all’esistenza ordinaria di una coppia di ottuagenari, Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (J.L. Trintignant), esponenti di un universo che ha fatto della cultura il baricentro geostazionario, il pilastro della propria identificazione sociale e sconvolti dalla malattia di Anne che per un ictus rimane inabile di qualsivoglia azione e costretta ad una sedia a rotelle presto inibita dall’uso della parola.
Se possiamo dire, ad Anthony, il protagonista della pellicola d’esordio alla regia per il regista Florian Zeller, tratta dal suo stesso scritto teatrale, The father, va decisamente meglio. Anthony, infatti, nome omen per quello che fu il terribile e sadico Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti, Anthony Hopkins, si muove, ma purtroppo per lui, pian piano qualcosa nella sua mente sembra non funzionare più. Alcuni accadimenti gli appaiono “stonati”, come fosse vittima di un complotto familiare, di una figlia Anne (Olivia Colman) che pare nascondergli qualcosa, di una vita che si tramuta sempre più in una claustrofobica iterazione di eventi giorno dopo giorno.
Eppure, siamo lontani dalla matrice di un thriller psicologico perché Zeller, abilmente e con una steady-cam che pare seguire pedissequamente non tanto i movimenti quanto soprattutto i pensieri dell’uomo, mette in scena dentro quattro mura domestiche il dramma di un disfacimento mentale. La ripetitività degli accadimenti, la perdita del tempo, lo spaesamento, la memoria che piano piano se ne va, scorrono con leggerezza come fossero sintomi di un grido muto e inarticolato che non riesce a esprimersi con facilità.
Anthony vacilla, il mondo pare complottare contro di lui e noi spettatori, in un primo momento, senza nulla conoscere di quest’uomo, senza nulla sapere di demenza senile, pensiamo che sia tutta un’abile montatura come se fossimo parte di un teatrino in cui ciascun personaggio recita un ruolo differente a seconda del soggetto che interpreta. Pirandello e il suo relativismo gnoseologico perde ogni significato entro un mondo che lentamente e amaramente per Anthony muta piano piano sino a divenire irriconoscibile, come la casa, il luogo familiare per eccellenza, gli oggetti d’uso quotidiano che misteriosamente non trova più, le iterazioni volute in fase di sceneggiatura fatte di dialoghi e inquadrature rivolte al primo piano di un uomo giorno dopo giorno, sempre più irriconoscibile.
Film raro dotato di una leggerezza ossessiva, mortifera, emozionante, capace di entrare nei prodromi di una malattia, The father, il padre in senso lato, è uno spaccato di una esistenza malinconica che lentamente si affievolisce nei ricordi, drammaticamente avvinto a una malattia incurabile e capace di avvinghiare corpo e anima.
Il tutto senza retorica o melò di fondo, con la sola forza di un grande attore come Anthony Hopkins, ritratto, come in una commedia di Bennet, “nudo e crudo”, là nella sua caratterizzazione patologica come fu quella di Emmanuelle Riva in Amour. Due film diversi, là la ferocia della malattia vissuta in solitudine e nel dolore, qui in un soffocato tentativo di irreversibile recupero, due temi differenti accumunati entrambi dall’inferno a porte chiuse sartriano e dall’infinito amore di chi resta. Candidato agli Oscar 2021 ma già vincitore morale di chi questo dramma lo vive ogni giorno sulla pelle o lo condivide, il vero amore sacrificale.
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