Filmato in digitale, Mank è un film prodotto da una piattaforma ma che tende a ricostruire con fedeltà ossessiva l’esperienza cinematografica della golden age del cinema hollywoodiano grazie all’effetto fotografico della pellicola, alle inquadrature, al sonoro di Ren Klyce e alla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross che omaggia il genio di Bernard Herrmann e il jazz.
Un film nostalgico di un’era eppure profondamente moderno nelle tematiche affrontate.
Perché a David Fincher non interessa poi molto sancire in via definitiva chi tra Mankiewicz e Welles sia l’autore di Quarto Potere quanto raccontare una storia di lotta per i (propri) diritti.
Mank è un film sul potere e su come possa essere esercitato a favore o a discapito di una parte. Alcuni flashback del film si concentrano sulle elezioni, nel 1934, per la corsa al Governatorato della California. Nel bel mezzo della Grande Depressione da un lato il candidato repubblicano Frank Merriam e dall’altro il democratico – etichettato in modo dispregiativo come socialista – Upton Sinclair. In mezzo a loro lo zampino di William Randolph Hearst che spinse i capi degli Studios a sabotare “il comunista” Sinclair creando filmanti di falsa propaganda nei loro teatri di posa.
E non è affatto difficile scorgere un parallelismo tra il 1934 e il 2020. Se ieri i filmati di attori che si fingevano comuni cittadini dichiaravano di votare il democratico Merriam per non dare l’America in pasto ai comunisti, oggi quella propaganda passa attraverso altri media sotto forma di fake news create per pilotare l’opinione pubblica. Se The Social Network raccontava la nascita di Facebook, potremmo azzardare che Mank ne racconta l’evoluzione in un film che racchiude tanti strati di lettura.
Il biopic dedicato ad un uomo che ha deciso di non restare nell’ombra, un omaggio al cinema e alle sue tante anime – magica, cinica, illusoria – il dietro le quinte del più grande film mai realizzato, una lettera d’amore ad un padre che non c’è più, un film politico. Mank è una Xanadu colma di storie e la sua Rosebud è il cinema con cui David Fincher gioca creando un cortocircuito tra passato e futuro di un’invenzione in continua evoluzione. Un film che rimarca la potenza delle storie. Come quella rimasta per trent’anni in un cassetto che oggi risuona potente come solo un classico riesce ad essere.
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