astromelia
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venerdì 11 settembre 2020
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da festival del cinema
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scrivere una recensione di questo film è compito degli addetti ai lavori,la sola visione destabilizza lo spettatore,opera immensa o confusione totale? quando s'incappa in questo prodotto tratto da un romanzo (e me lo immagino il libro!!!!) si rimane sbalorditi,le sole citazioni dei dialoghi inducono ad una riflessione profonda sul senso della vita e affini,capire appieno il senso della pellicola è compito assai arduo lo fu per synecdoche new york e qui ritorna(mitico il richiamo a seymour hoffman),comunque è pur sempre cinema ma raffinato e mai banale...
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(di marcos)
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alice
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lunedì 14 marzo 2022
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tra passato, presente e futuro
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Sto pensando di finirla qui, l'ultimo film scritto e diretto da Charlie Kaufmann, riesce a coinvolgere gli spettatori grazie a immagini ed emozioni, in cui ogni cosa diventa ambigua e dove il muro che separa la finzione – ciò che crediamo di vedere – dalla realtà – ciò a cui in verità stiamo assistendo – si sgretola sempre di più. Infatti, questa dicotomia, più volte esplorata da Kaufmann, diviene il filo conduttore per l’intera storia, portandoci verso la sincera elaborazione di un presente costellato di rimpianti.
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Sto pensando di finirla qui, l'ultimo film scritto e diretto da Charlie Kaufmann, riesce a coinvolgere gli spettatori grazie a immagini ed emozioni, in cui ogni cosa diventa ambigua e dove il muro che separa la finzione – ciò che crediamo di vedere – dalla realtà – ciò a cui in verità stiamo assistendo – si sgretola sempre di più. Infatti, questa dicotomia, più volte esplorata da Kaufmann, diviene il filo conduttore per l’intera storia, portandoci verso la sincera elaborazione di un presente costellato di rimpianti. Finiamo così per interrogarci su che cosa ci definisca come esseri umani, su come descriveremmo noi stessi e, alla fine, se tutte queste domande siano davvero necessarie.
Cominciamo il nostro viaggio accompagnati dai pensieri di una ragazza - Lucy o Lucia o Luisa o Amy - che sta per conoscere i genitori del suo fidanzato, Jake, che abitano fuori città. Diveniamo, così, spettatori dei suoi dubbi e timori, che donano immediatamente al film un'aura di incertezza e caducità. Proseguendo lungo il tragitto, il suo sentimento di insofferenza, all'inizio nascosto agli altri personaggi, comincia a palesarsi sempre di più fino al momento in cui avviene l'incontro con i genitori del fidanzato, arrivando ad apparirci come una completa estraneazione.
Seguendo i pensieri della ragazza dai mille nomi, il film con coraggio e grande consapevolezza riesce a trasportarci alla scoperta della mente umana, ricercando quel poco di speranza che fa riacquistare all'uomo la dignità, almeno nella morte. Il viaggio in macchina dei due fidanzati e le sue tappe diventano, quindi, una metafora della vita stessa, sia attraverso i differenti generi cinematografici che arricchiscono il film di richiami al cinema horror, al musical e alla commedia romantica, sia attraverso gli argomenti affrontati dai due giovani, che variano dalla poesia alla fisica.
Come anche nei precedenti film in cui aveva curato la regia, Charlie Kaufmann ci mostra il mondo distorto dalle nostre paure attraverso cui però possiamo perderci o ritrovarci, comprendendo che c'è molto di più al di fuori della nostra mente. È peculiare, inoltre, come spesso decida di affrontare il tema della vecchiaia, un periodo della vita, spesso ignorato dalla maggior parte delle rappresentazioni cinematografiche, che, invece, si ritrova a essere perfettamente congeniale alla narrazione di ciò che è stato e ciò che poteva essere.
Non è semplice, dunque, disegnare la trama del film, ma probabilmente l’unica risposta giusta è quella di accettare di farsi prendere per mano e lasciarsi guidare in questo racconto. Quello che troveremo alla fine del viaggio potrebbe sembrarci ancora confuso, come se ci trovassimo immersi in una tormenta, ma, per uscirne e vedere alla fine il sole che si riflette sulla neve, il segreto è porsi le domande giuste.
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tunaboy
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martedì 29 giugno 2021
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recensione i’m thinking of ending things
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"You can say anything, you can do anything, but you can't fake a thought."
Con il suo film più recente, “I’m Thinking of Ending Things”, Charlie Kaufman ci porta in un allucinante e metaforico viaggio all’interno di una mente sola ed alienata, tingendo il tutto di un angosciante esistenzialismo già presente nelle sue opere precedenti.
Il film segue quella che dovrebbe essere una normale visita della nostra protagonista, Lucy, dai genitori del suo nuovo fidanzato, Jake; fin dai primi fotogrammi possiamo, però, intuire che non assisteremo ad un normale viaggio: l’incombente frase “sto pensando di finirla qui” rimbomba nella testa di Lucy, accompagnato da altri pensieri altrettanto inquietanti. L’atmosfera diverrà più e più strana quando arriveremo nella fattoria dove vivono i genitori di Jake: ricorrenti immagini distorte si presenteranno sullo schermo, che renderanno estremamente confusa la narrazione della cena, trasformatasi ormai in un oppressivo incubo. Quando finalmente i nostri protagonisti riusciranno ad allontanarsi dalla fattoria, comincerà un’altra sequenza altrettanto grottesca: quelle che prima erano delle allucinazioni visive, si trasformeranno in un dialogo confusionario e apparentemente privo di senso. Questo dialogo si concluderà solo quando i protagonisti arriveranno alla ex scuola superiore di Jake: qui la narrazione lascerà spazio ad uno spettacolare ed enigmatico finale.
A prima vista questo film potrebbe sembrare solo una allucinante descrizione di un incubo, rimanendo però fine a sé stessa. Però, anche con l’aiuto dell’autore stesso, possiamo provare ad interpretare quest’opera, rendendoci conto di quanto sia, invece, sensata e geniale. L’intero film è, infatti, intervallato da brevi spezzoni tratti dalla deprimente vita di un bidello scolastico: ad una più profonda analisi ci rendiamo conto questo bidello sarà proprio Jake invecchiato, e che lo spettacolo a cui abbiamo assistito non è altro che una enorme fantasia che quest’ultimo ha creato per sostituire la sua alienante realtà.
Jake avrebbe, infatti, provato ad immaginare l’incontro tra i suoi genitori ed una sua ipotetica ragazza. Creare una fantasia precisa sarebbe, però, un compito impossibile: così riusciamo a spiegare l’inconsistenza temporale e tematica della narrazione, che non riuscirà a collocare in un luogo né in un tempo preciso della sua vita.
A mio parere, il vero genio dell’autore si manifesta nel punto di vista scelto per narrare questa fantasia: lo spettatore assiste ai fatti narrati attraverso gli occhi del soggetto, o della vittima, di questa fantasia, ovvero questa fantomatica fidanzata. Proprio come lei, ci sentiremo spaesati e confusi dagli stranissimi eventi che si dispiegheranno sullo schermo.
Il film, come la fantasia, sarà obbligato ad un certo punto a cessare, e Jake dovrà tornare alla realtà: con queste premesse arriviamo al finale, che, come ormai siamo stati abituati, non è semplice da interpretare, ma possiamo intuire che, finalmente, Jake riuscirà ad abbandonare il suo mondo e a tornare alla realtà. Perché, come ci ricorda il film, “It's good to remind yourself the world is larger than the inside of your own head.”
Voto: 4.5/5
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felicity
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lunedì 29 novembre 2021
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un road movie nell’abisso della coscienza
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I’m Thinking of Ending Things è l’adattamento cinematografico di un romanzo e vede protagonisti Lucy e Jake impegnati a raggiungere una fattoria isolata, dove vivono i vecchi genitori di lui, durante una forte nevicata. Si conoscono da poco, qualche settimana, quanto basta per far nascere in Lucy il bisogno di troncare. L’occasione del viaggio assume le sembianze di un road movie, il panorama imbiancato appiattisce le difese e prepara il terreno ad uno scambio di battute di aspetto teatrale. Nella parte centrale la visita prende dei connotati quasi horror, nell’imbarazzo dei ricordi e l’inopportuna malattia senile, capace di trasfigurare qualunque bellezza in una copia beffarda.
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I’m Thinking of Ending Things è l’adattamento cinematografico di un romanzo e vede protagonisti Lucy e Jake impegnati a raggiungere una fattoria isolata, dove vivono i vecchi genitori di lui, durante una forte nevicata. Si conoscono da poco, qualche settimana, quanto basta per far nascere in Lucy il bisogno di troncare. L’occasione del viaggio assume le sembianze di un road movie, il panorama imbiancato appiattisce le difese e prepara il terreno ad uno scambio di battute di aspetto teatrale. Nella parte centrale la visita prende dei connotati quasi horror, nell’imbarazzo dei ricordi e l’inopportuna malattia senile, capace di trasfigurare qualunque bellezza in una copia beffarda. La piega degli eventi smembra l’impianto della realtà e l’immaginazione comincia a prendere il sopravvento. Gli interni claustrofobici, l’abitacolo dell’autovettura e la casa, vengono completati dalle riprese effettuate in esterno, in pessime condizioni climatiche.
Qui siamo dalle parti delle barriere pregiudiziali, gli avvenimenti sono soltanto la conferma di un avvertimento ed anche la conseguenza di un approccio scettico. L’ottimo inizio, costruito innanzitutto sulle performance attoriali, ed un buon secondo atto, preparano ad un finale dal carattere trascendentale quando l’odissea del ritorno in città subisce una deviazione, fino al vecchio liceo frequentato da Jake.
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pietro passaro
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domenica 15 maggio 2022
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viscere palustri della mente
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Tra onirico e memoria, un Kaufman ormai completamente maturo abbraccia totalmente il surrealismo introspettivo, guidandoci, o meglio, facendoci perdere, nei meandri della psiche sua (?) di un inserviente, che vive costantemente nel limbo di ricordi e riflessioni. Un limbo che nello scorrere dei minuti dopo la visione della pellicola, diverrà il nostro, cercando di comprenderne il senso e l’intrinseco significato. Come già fatto da altri autori, forse più brillantemente, Kaufman, sia per forma che per contenuto, ci porta all’interno della mente di quello che è, a mio parere, l’unico protagonista della vicenda. Sono chiari gli indizi a riguardo, in quanto, nonostante possiamo ascoltare i pensieri della ragazza e quindi inconsciamente identificarci in lei, è la psiche di lui a venire pian piano scoperchiata, ed è effettivamente lui il centro focale d’indagine del film, o meglio entrambi.
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Tra onirico e memoria, un Kaufman ormai completamente maturo abbraccia totalmente il surrealismo introspettivo, guidandoci, o meglio, facendoci perdere, nei meandri della psiche sua (?) di un inserviente, che vive costantemente nel limbo di ricordi e riflessioni. Un limbo che nello scorrere dei minuti dopo la visione della pellicola, diverrà il nostro, cercando di comprenderne il senso e l’intrinseco significato. Come già fatto da altri autori, forse più brillantemente, Kaufman, sia per forma che per contenuto, ci porta all’interno della mente di quello che è, a mio parere, l’unico protagonista della vicenda. Sono chiari gli indizi a riguardo, in quanto, nonostante possiamo ascoltare i pensieri della ragazza e quindi inconsciamente identificarci in lei, è la psiche di lui a venire pian piano scoperchiata, ed è effettivamente lui il centro focale d’indagine del film, o meglio entrambi. Perché, ricollegandoci a prima, se guardiamo il film nell’ottica un po’ alla Fight Club per cui entrambi i protagonisti siano due diverse personalità di quell’unico individuo (l’anziano inserviente), che interagiscono tra loro, scontrandosi, ci accorgiamo e diveniamo più consapevoli degli avvenimenti e della loro successione altrimenti dedalica. E quella che quindi poteva effettivamente essere la ragazza del giovanile bidello, nella confusione di un viaggio introspettivo, diviene quindi rappresentante del suo lato più sensibile, verso il quale lo spettatore, in quanto osservatore di un’opera d’arte, ha più affinità e che conosce con più facilità, dato che ne possiamo condividere i fugaci pensieri, sempre però interrotti dal lato più duro, grezzo ed emergente nella sua personalità, un po’ come fossero due novelli, ma ideali, Zampanò e Gelsomina; tutto questo non per sessismo e ghettizzazione del genere (la donna sensibile e il maschio rude), ma semplicemente in rispetto di simboli impressi nella memoria storica delle persone, quindi immediatamente riconoscibili da queste. Un utilizzo dunque dell’iconografia intelligente e moderno di cui tanto peccava il recente Siberia di Ferrara, avente lo stesso e identico umore, ma la forma di un altro, e più brutto, colore. Ecco quindi come la ritrosia del Tempo acquista maggior valore e più di una giustificazione, fino ad una totale e disarmante apertura sulla parte finale, dove si trascende il genere cinematografico, per raggiungere emblematicamente l’artificiosità e il costrutto fantastico, facendo uso del genere del musical, del live-action e di una scenografia e un trucco espressionista, più vicino all’idea che alla sua realistica rappresentazione. E il tutto, oltre che da una perfetta sceneggiatura (ma questo era ovvio), viene sorretto da un montaggio calibrato, che insieme alla regia, per una volta non protagonista ma coadiuvante del messaggio filmico, dilata e restringe (anche nella messa in scena) i tempi e il Tempo, costruendo tensione, rompendola e soprattutto fungendo da perfetto sottotesto a quello che vuol essere il significante dell’opera.
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