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Un film di Franka Potente.
Con Jake McLaughlin, Kathy Bates, Aisling Franciosi, Derek Richardson, James Jordan.
continua»
Drammatico,
durata 100 min.
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GUADAGNINO ANCORA CHALLENGERdi Fabiola CannizzaroFeedback: 3 |
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lunedì 29 aprile 2024 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Dopo il successo - pur non unanime - di Call me by your name, con il quale si accredita come regista di respiro internazionale, ci riprova a salire nell'Olimpo. Ma lo fa con la (non) storia sbagliata: uno sport movie che non parla di tennis, un dramma che non ha nulla di intimamente tragico, una commedia (brillante?) che non arriva a suscitare nemmeno un vago senso di ilarità. Un film senza tema e senza argomenti, se non quello - forse un po’ troppo banale per valere un upgrade? - dell’irriducibile forza dell’amicizia, in grado di resistere alla vacuità del desiderio. Non ci sono sfidanti in amicizia, sembra dirci Guadagnino alla fine del film, tradendo le aspettative indirizzate dal titolo. Una “scopiazzatura” del De Amicitia, in cui Cicerone ben più poeticamente si imprimeva nella memoria: “perciò, come chi è superiore deve, nell'amicizia, abbassarsi, cosi in un certo modo gli inferiori devono elevarsi”. Di quell’alto monito ciceroniano, in Challengers neanche un lontano ricordo. Tanto più se si pensa che l’oggetto del contendere è un personaggio opaco, interpretato - senza infamia e senza lode - da Zendaya: una stronzetta della Stanford, ricca e viziata, senza doti umane, empatia né passione, se non per l’ambizione tennistica, svanita troppo presto per via di un infortunio sul campo. La miseria dei personaggi e dei dialoghi ricorda un teen movie uscito male. Adulti, o presunti tali, che parlano e si rapportano come fossero quindicenni in piena pubertà, incapaci di gestire una tempesta ormonale. Impossibile non accorgersi dell’astuzia con cui Guadagnino saccheggia elementi pop, che poi dissemina abilmente qua e là: la musica tecno, le ambientazioni chic, l’arbitro delle partite con sembianze di deejay di reggaeton. Tutti elementi che più che incuriosire, smarriscono. E certamente convincono della “disonestà” del regista, ancora persuaso che per fare un bel film basta aggiungere frammenti random di cose belle o interessanti o affascinanti. Nella memoria alla fine non rimane nulla, se non il tentativo, disperato e furbesco al tempo stesso, di cavalcare il timido successo riscosso negli anni passati. E all’esito del match - estenuante più per lo spettatore che per gli sfidanti - ci si alza dalla platea delusi e imbarazzati. Il film conferma i dubbi che “Bones and all” aveva lasciato irrisolti: che Guadagnino non abbia cosa dire? Il disagio dello spettatore è allora giustificato da una rovinosa caduta del regista, che si consacra più che come narratore attento della contemporaneità, come eterno challenger.
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