Un bianco e nero perfetto e funesto asseconda la regia - lenta, implacabile, quasi persecutoria - attorno ad uno squarcio di Iran, mentre nel deserto si aggira la Storia. Che, come il Tempo, è inesorabile. Il regista Ahmad Bahrami in Dashte Khamoush (The Wasteland, Sezione Orizzonti- Venezia 77) testimonia, con una cifra espressiva volutamente scarna, la realtà tra possesso e profitto. Si cambia: è la Storia. E lo dice con la piccola storia di una fabbrica di manufatti in mattoni, non più competitiva rispetto al cemento e al blocco. Ce lo dice compulsivamente - Bahrami - a ribadire, a consegnare, a trascinare lo spettatore in tutte le prospettive possibili di questo scarto.
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Un bianco e nero perfetto e funesto asseconda la regia - lenta, implacabile, quasi persecutoria - attorno ad uno squarcio di Iran, mentre nel deserto si aggira la Storia. Che, come il Tempo, è inesorabile. Il regista Ahmad Bahrami in Dashte Khamoush (The Wasteland, Sezione Orizzonti- Venezia 77) testimonia, con una cifra espressiva volutamente scarna, la realtà tra possesso e profitto. Si cambia: è la Storia. E lo dice con la piccola storia di una fabbrica di manufatti in mattoni, non più competitiva rispetto al cemento e al blocco. Ce lo dice compulsivamente - Bahrami - a ribadire, a consegnare, a trascinare lo spettatore in tutte le prospettive possibili di questo scarto. Oppressione e Potere. Una enorme storia che si risolve nello sparuto gruppo di personaggi che popolano la fornace ai confini diradati del nulla, dove invece dirompe - per contrasto - la saturazione del dramma.
Che, come contraltare al realismo più acuto, ribolle un microcosmo di pulsioni da sempre abitate nell’uomo, pur nella latitudine ultima, pur in uno scorcio di mondo quasi perduto, pur nello scollo di etnie, pur nella infinitesimale rete di legami. Lì - tra una carezza al bestiame, la muta schiera di gesti senza destino e un pezzo di ghiaccio che pesa la solitudine - Baharami coglie la tragica essenza dell’Amore.
[a tradursi in Orrore]
Imperdibile.
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