Assandira è un film molto importante, e a s’andira è una modalità del canto a tenore sardo.
Nella fusione di questa modalità in un’unica parola potrebbe esserci già il senso di tutto il film di Salvatore Mereu -e del romanzo omonimo (2004) di Giulio Angioni che a questo film ha dato forma.
Non è facile parlare di quest’opera senza svelarlo inevitabilmente.
Tuttavia voglio provare a riproporre alcuni problemi che il film solleva, magari in ordine sparso, lasciando allo spettatore la possibilità di ricostruirlo a suo piacimento, per temi, domande, questioni rimaste senza risposta da decenni, ormai.
L’olivastro e l’innesto: così intitolava Joyce Lussu uno dei suoi primi libri sulla Sardegna: esistono le piante con le loro radici, ma esistono anche gli innesti, che possono cambiare la natura stessa delle piante, o clonarne la sostanza esistenziale, riproducendo questa o quella pianta all’infinito. Sono importanti le radici, e sono importanti gli innesti.
Il problema è quello delle marze. Che cosa si va ad innestare? su quale pianta madre? e con quale nuova sostanza?
“Se è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli, sarà anche vero che quelle dei nonni ricadono sui nipoti?”, si chiede Costantino Saru (un intensissimo Gavino Ledda, sì, proprio quello di Padre padrone, rinato per questa occasione che sembra anche quella di fare i conti con i problemi della propria esistenza di pastore e di studioso, di letterato e regista e di vecchio uomo); e se lo chiede con una malcelata ironia, con una sostanziale disillusione. Dove ricadranno, e su chi tutte queste colpe?
Ma quali sono le colpe? Forse quelle d’aver tradito un mestiere, un lavoro? o quella d’aver creduto che quella condizione quella del pastore poi e del servo pastore poi, coincidessero con la forma di un mondo?
Ed ecco l’inganno. Se questo è il racconto di una terra, è inevitabile che chi viene da fuori debba credere senza possibilità d’errore, che la forma dell’homo sardus debba per forza coincidere con il pastore, sos gambales (i gambali), su belludu (il velluto), la transumanza e insomma il bandito. Niente di più fuorviante. Niente di più folclorico, cartolinesco: la Sardegna è, ed è stata anche terra di artisti di grande levatura: quello di Grazia Deledda è l’unico Nobel per la letteratura assegnato ad una donna italiana, nella storia del Premio, ma pensiamo anche a Maria Lai, Pinuccio Sciola, Francesco Ciusa Giuseppe Biasi, Costantino Nivola, e al grande ceramista Salvatore Fancello, compaesano di Salvatore Mereu); pensiamo a Sergio Atzeni, a Peppino Fiori (altri due autori cardine nella filmografia di Mereu); pensiamo a Giuseppe Dessì, Salvatore Satta, e ancora a Benvenuto Lobina; la Sardegna è anche la regione mediterranea con la maggior varietà di pani -non limitati alla sola carta musica, come da fuori viene chiamato su pane carasau; e per questo era una terra popolata di contadini -prima che il petrolchimico degli anni ‘70 potesse distruggere tutto.
A partire da questo malinteso, anzi da questa totale non conoscenza, può nascere dunque la tentazione di creare una struttura ricettiva e turistica (infinite strutture ricettive e turistiche) per raccontare la cartolina di una terra che non c’è.
Il film comincia con un incendio che porta via tutto questo. Un figlio non più in grado di procreare. Una vittima e tanti animali morti -compresi due struzzi: ma come sono morti gli struzzi, e soprattutto, perché erano lì in quel presepe folk, per raccontare quale novità?
Un incendio e tanta pioggia. Arrivata in ritardo. E anche l’incendio avrebbe dovuto scoppiare un po’ più tardi. Non ci sarebbero state vittime umane.
Un cast all’altezza della situazione, la lingua sarda fatta salva. Bellissimi piani sequenza, tutti giocati sui primi e primissimi piani; la ripresa del suono fortissima e pervasiva all’inizio, e poi sempre più chiara man mano che si dipana la trama, come una lysis, uno scioglimento tragico verso il finale, che fa di questo film apparentemente noir, un grande atto di denuncia sociale.
Grande prova registica di Salvatore Mereu.
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