Ma quanto è bravo Ken Loach? Quanto è capace questo regista di intercettare il sentir comune di famiglie umili che cercano di elevarsi con onestà e mille difficoltà nel complicato e torbido mondo odierno fatto di compromessi in una lotta spietata per un lavoro sottopagato spesso caratterizzato da pesanti privazioni?
L’ultimo film del cineasta anglosassone, da sempre interprete di questo diffuso malumore, è un grand’affresco familiare che impiega la tematica della semplice istanza quotidiana per delineare con dovizia di particolari e tanta attenzione alle psicologie, i problemi di tutti i giorni. Questa famiglia, I Turner, sono quanto di più normale possa esistere: lui è un padre, Ricky, che nella Newcastle dove tutto viaggia sempre in fretta, decide di mettersi in proprio (per così dire) in una società di corrieri, vendendo pure l’auto della moglie, per riuscire a garantirsi l’affitto di un furgone a prezzo di una vita sociale praticamente inesistente nel rispetto di orari e consegne a ritmo disumano (sappiamo qualcosa da Amazon a Foodora…); lei, Abby è un’assistente domiciliare per anziani soli e infermi, costretta a muoversi tra doppi turni stancanti e massacranti ma sempre con grandissima umanità. Ed, infine, ci sono i due figli, entrambi in cammino lungo la complicata strada dell’adolescenza: il maschio assai poco giudizioso amante dei graffiti che svicola tra piccoli furti e ruberie e la piccola, forse la più giudiziosa che ha dovuto imparare a cavarsela da sola, in una famiglia che via via, da unita si troverà sempre più frastagliata negli affetti e nei sentimenti. A causa sempre di quei maledetti soldi.
Già con il recente Io Daniel Blake epopea di un sessantenne alla ricerca dell’assistenzialismo di uno Stato assente, si leggeva il dramma delle diseguaglianza di un mondo che ha posto la dignità del lavoro sotto i tacchi per chi il lavoro lo ha già. In Sorry We Missed You (dal nome degli avvisi di consegna dei pacchi, quando il destinatario non è in casa), questo leitmotiv, dei soldi che mancano, del profitto imperante a scapito di un’umanità umiliata e prostrata da collaborazioni spesso aulicamente definite “professionali” che nascondono il recondito malaffare dello sfruttamento, continua.
Il regista mette in scena l’azzimata crudeltà lavorativa odierna, capace di esaurire le nostre energie per salvaguardare quel benessere fisico e mentale che è la vita familiare. Gli sforzi ci dice Loach, sembrano quasi inutili. I Turner vengono tiranneggiati proprio da quest’ansia di ambizione (volta principalmente ad un’elevazione sociale che si vorrebbe concretizzare con l’acquisto di una prima casa), alla fiera sussistenza di un lavoro onesto, divisi proprio da quest’aberrante ritmo che rende l’attività che dovrebbe nobilitare l’uomo quasi una sopravvivenza più che una sussistenza.
Ken il rosso, guidato dalla sapiente mano di Paul Laverty (suo storico sceneggiatore) ben spiega le dinamiche familiari alle prese con stress lavorativi e privati nella figura dell’adolescente ribelle, azzeccando toni e misure, senza eccedere. Non possiamo che provare empatia per i protagonisti della pellicola, indignandoci dinanzi alle umiliazioni di Ricky, commuovendoci dell’assistenza di Abby e scuotendo passivamente la testa per evitare di vedere il peggio. Peggio che, secondo quell’inesorabile programmaticità inglese si avvera, esasperando il tutto e rendendo quasi il protagonista il Giobbe che si fa carico di tutte le sventure, che le accetta per il solo bene familiare.
Un eroe da tragedia greca, forse troppo, in un film bellissimo che non nasconde le ipocrisie gettando uno squarcio sulla realtà odierna di cui poco si parla, di quel velo oltre le tenebre dell’abbondanza entro cui vive “il solito film di Loach”, solito sì forse, diverso eppure uguale in fondo a se stesso.
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