Joker

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Put on a happy face Valutazione 4 stelle su cinque

di Steven!


Feedback: 106 | altri commenti e recensioni di Steven!
venerdì 18 ottobre 2019

Stupisce vedere che Bradley Cooper abbia voluto co-produrre questo film. Lascia stupefatti invece il risultato di Todd Philips. Ci aveva divertiti con "School for scoundrels" e con la trilogia di "Una notte da leoni", ma con Joker, Philips ha dato prova di capacità veramente magistrali. 

Il film si apre presentando Arthur di fronte allo specchio. In questa scena il conflitto interiore del personaggio viene descritto attraverso lo sguardo della sua personalità sdoppiata: le due personalità di Arthur si osservano attraverso uno specchio mentre una delle due cerca di prendere il sopravvento, ed egli piange mentre cerca di indossare un sorriso come scopriremo che gli ha detto sempre sua madre, nello stesso identico modo in cui viene indicato al Conrad Veidt di "L'uomo che ride", del 1928, in una delle famose scene del film. Aldilà dell'eccezionale utilizzo del subtesto in questa scena, il regista ci pone di fronte ad un film che vuole essere una celebrazione di alcune pietre miliari del cinema, che vengono citate e persino messe in scena nel corso della pellicola. Il Joker di Todd Philips è il Gwynplaine di Conrad Veidt, sorride come lui, soffre come lui perché non riesce ad essere sé stesso, e come lui ride e sorride perché è stato sfregiato da piccolo, solo che in questo caso la cicatrice è incisa nel subconscio del personaggio piuttosto che sul suo volto. I parallelismi con l'opera di Paul Leni sono evidenti: Arthur si porta dentro un mondo interiore nero come quello di Gwynplaine, e come quest'ultimo anche Arthur ad un certo punto legge su carta di essere figlio dell'uomo più potente di Gotham e decide di andare a parlarci. La sorte di Arthur però è differente. Lo storytelling ci fornisce presto altre informazioni sulla sua vita. Scopriamo presto che fa uso di psicofarmaci e che pare sia stato internato ad Arkham (non capiamo però se egli sia attualmente ricoverato ad Arkham e se tutto il film avvenga nella folle immaginazione del personaggio), che è povero, che vive con la madre di cui si prende cura e che subisce ogni tipo di angheria nella vita, senza fare nulla per meritarle. Non ha alcuna colpa quando una gang di ragazzini lo deruba del cartello di un negozio per il quale sta facendo advertising, e non sta facendo altro che la cosa più giusta quando li insegue per recuperarlo, ma per tutto ciò riceve in cambio solo un pestaggio ed una brutta strigliata dal suo capo. Tra l'altro, la naturalezza con cui il regista ci presenta la scena ci fa intendere che probabilmente questa è routine per Arthur. Arthur ha una natura buona, ma non lo ascolta nessuno quando viene chiamato in causa per dimostrare la bontà dei suoi intenti: cerca l’umanità di cui ha bisogno ma riceve in cambio solo ludibrio e discredito. È più lucido di chiunque altro quando comprende che il lato peggiore di avere una malattia mentale, come dice egli stesso, è che tutti si aspettano che ti comporti come se non l’avessi. Mentre egli torna a casa scopriamo che vive nei bassifondi di Gotham City, che Thomas Wayne ha deciso di candidarsi come sindaco  e che Arthur sembra essere l'unico a non rendersi conto dell'instabilità mentale della madre. Difatti entrambi sembrano non osservarsi al punto che nessuno dei due sembra comprendere che l'altro ha una malattia mentale. Nel frattempo Arthur sogna di diventare un comico famoso, e l'oggetto dei suoi sogni trova corpo nella persona di  Murray Franklin, il suo idolo. Qui abbiamo un altro parallelismo con il film "Re per una notte" di Martin Scorsese, in cui il protagonista, proprio come Arthur, sogna di diventare un comico famoso e di sfondare con il programma "The King of Comedy". È ironico che sia proprio De Niro a condurre il programma televisivo, dato che nel film del 1983 egli interpretava l'aspirante comico poi divenuto omicida del conduttore, come accade anche in Joker. Ed è interessante anche come Todd Philips si rifaccia a Martin Scorsese per fare della sua pellicola lo studio di un personaggio che vive la sua vita camminando sul filo del rasoio che separa i suoi tentativi di condurre una vita considerata "normale", secondo i canoni convenzionali della società, e la sua caduta libera nel baratro della sua pazzia. Osservare Arthur è come osservare il disorientato, isolato ed alienato Travis Bickle di "Taxi Driver" mentre scivola nella sua turbinosa caduta verso la sua inarrestabile instabilità. Ogni nuova scena abbiamo un nuovo riferimento a come Arthur sia una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e di come così come guidare il taxi trattiene Travis dallo scoppiare, così gli psicofarmaci sono l'unica cosa che tiene buono Arthur, tanto che non si rende neppure conto di impiastricciare il suo quaderno delle barzellette di frasi deliranti e di disegni iracondi e macabri.  Ma Arthur Feckle non è stato nei Marines. Non diventa neppure un eroe. Arthur potrebbe essere chiunque di noi. È un fallito, un uomo intelligente ma frustrato, insoddisfatto della sua vita, soggetto a soprusi, povero, delirante, bisognoso di aiuti dalle istituzioni che però non arrivano. Come gli dice la sua terapista quando gli comunica che i fondi sono stati tagliati, "A nessuno importa di uno come te", e come egli stesso dopo aver ben compreso queste parole afferma in diretta TV: "se avessero ucciso me mi avreste camminato sopra". Ed è proprio a Scorsese che il regista si ispira per descrivere l’esistenza morbosa di Arthur. Così come Scorsese utilizza ingegnosamente inquadrature e colori per descrivere una New York stretta nella morsa della perversione e del degrado, così anche Philips riesce nell’intento di disegnare con la sua composizione visiva una Gotham City divisa in due, tra ricchi e poveri, Lords e plebei, in un clima talmente teso che l’attrito si può quasi palpare con mano. Siamo nel 1981, e anche a Gotham come a New York City ,il 1981 è foriero di una crisi d’infestazione di ratti per tutta la città, di spazzatura che si accumula agli angoli della strada, di un’impennaggio nella criminalità urbana e di vigilantes mascherati che decidono di farsi giustizia da soli. Sono tempi moderni in cui il regista vuole descrivere il viaggio di una persona verso il più totale delirio, perché per il regista sono i tempi moderni a creare macchine psicotiche come Joker. D’altronde egli non è che un ingranaggio in un sistema molto vasto. Come il Charlot di “Tempi moderni”, anche Arthur lotta per sopravvivere, ma le violenze psicologiche a cui è continuamente sottoposto lo rendono ossessionato al punto di non vedere più altro che buio, così come Charlot non distingue più i bulloni dai bottoni di una gonna. È enigmatica la scena in cui Arthur irrompe nel cinema in cui viene proiettato “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, ed entra in sala quando sullo schermo si vede Charlot che pattina bendato a ridosso di uno strapiombo, a simbolizzare Fleck che vaga disperatamente e senza soluzione di continuità verso il baratro di pazzia che farà di lui il Joker. Simbolico è anche lo sguardo che egli ha quando si sente in imbarazzo quando tutti intorno a lui ridono, e sembrano ridere di lui. Ma i suoi occhi dicono tutto: la trasformazione ormai è completa, il viaggio di Fleck è terminato. Le due personalità che nella prima scena erano sdoppiate e si guardavano negli occhi hanno risolto i loro dilemmi: Fleck non si guarda più allo specchio, non ha più un doppelgänger; Arthur Fleck non esiste più, da adesso c’è solo quello che Murray definirà come il Joker. E non è un caso che il nome di questo nuovo individuo gli venga dato esattamente da un uomo dello spettacolo. Questo mostro è stato prodotto dalla società stessa, da illusioni e delusioni, da soprusi e violenze e dalla mescola nei media di spettacolo pubblico e di degrado morale. Todd Philips usa come palco una società che non ascolta le persone, che intrappola miliardi di individui in carceri emotive e psicologiche dalle quali non hanno il coraggio di fuggire. Ed è la stessa società in cui viviamo anche oggi, ed Arthur incarna lo scettro divino che catalizza le frustrazioni di ogni operaio, di ogni insegnante, di ogni lavoratore e di ogni debole,  e che verrà usato da una mano celeste come il bastone di Mosé per dividere le acque tra potenti e sfruttati. Una volta sorto dalle ceneri della distruzione del vecchio Arthur, il Joker finalmente sta bene, si sente libero: non ha più bisogno né della madre, né delle medicine, né della sua fidanzata immaginaria.  L’uomo che ride dei tempi moderni è maturo per guidare un tumulto nella città di Gotham e per dare con la massima violenza una voce ai malumori che vivono sul volto di tutto il dolore e di tutto lo sfruttamento che i meno abbienti hanno sofferto per secoli. Quello di Todd Philips è quindi un antieroe, un altro ingranaggio del sistema, incarnato in quel male necessario che deve esistere per livellarlo. L’interpretazione di Joaquin Phoenix è fenomenale, riesce a sembrare completamente pazzo persino quando cammina e quando respira. I suoi passi di danza sono perfettamente sincronizzati alla melodia della follia del personaggio. Ma la magistrale prestazione dell’attore protagonista non possederebbe la verve incredibile che riesce ad esprimere sullo schermo senza l’accompagnamento di una colonna sonora che sembra scritta nella mente di Arthur Fleck. Le musiche sono egregiamente studiate per massimizzare l’impatto delle immagini, così come l’ottima sceneggiatura nelle mani di Philips fanno di questo film probabilmente la pellicola dell’anno del 2019, e i pregi di Joker superano di gran lunga le mancanze del regista di farci comprendere la linea temporale degli eventi, e di risolvere i dilemmi matematici che sorgono nella mente quando ci si chiede come faccia Arthur a permettersi tutte le sue azioni a fronte di quelle che sembrano essere presentate come ristrettezze economiche più che critiche. Ma probabilmente è tutto nella mente di Arthur. 

Consigliatissimo. Andate a vederlo, ma prima mi raccomando, indossate una faccia felice.

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