francescoizzo
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domenica 7 ottobre 2018
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quasi un capolavoro (con pochi difetti)
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Il film è bello, ben strutturato, e la storia è coinvolgente emotivamente e razionalmente. Ambientato dagli anni 30 ai 60 del secolo scorso,propone una storia personale appassionante e molto interessante, che si intreccia con eventi, misfatti, tragedie e dittature incontrandone un'altra e concludendosi con la procreazione a lungo desiderata di un bimbo, simbolo di vita e speranza che continuano.Sono poche le banalità - a mio avviso- che quindi non riescono a rovinare il complesso dell'opera, che rimane ben fatta (una per tutte, la frase ripetuta:"la realtà è sempre bella", che a me non piace - anche se capisco che abbia un valore prettamente artistico).
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Il film è bello, ben strutturato, e la storia è coinvolgente emotivamente e razionalmente. Ambientato dagli anni 30 ai 60 del secolo scorso,propone una storia personale appassionante e molto interessante, che si intreccia con eventi, misfatti, tragedie e dittature incontrandone un'altra e concludendosi con la procreazione a lungo desiderata di un bimbo, simbolo di vita e speranza che continuano.Sono poche le banalità - a mio avviso- che quindi non riescono a rovinare il complesso dell'opera, che rimane ben fatta (una per tutte, la frase ripetuta:"la realtà è sempre bella", che a me non piace - anche se capisco che abbia un valore prettamente artistico).
Il bimbo- dicevo- è preso più volte come simbolo di vita e di speranza (opp. c'è il suo contrario) : nella sterilizzazione forzata della bellissima zia, nella nascita riuscita del figlio del gen. russo, nell'aborto (forzato) del primo figlio della coppia, nella nascita felice finale del loro bimbo.In mezzo, c'è tutta l'odissea del giovane artista dresdano, innamoratosi per caso proprio della figlia dell'aguzzino della zia, che cerca la sua strada e la troverà solo quando- messi a fuoco bene o male i fantasmi della sua infanzia - li "sfuocherà" in dipinti-riproduzione di foto che serbava nel cuore. Quadri che saranno di successo perché avranno in sé tutta la dirompente forza comunicativa della verità e della sofferenza personale, del dolore e dell'amore di una vita.
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[+] dentro il cuore ferito di una nazione
(di antoniomontefalcone)
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sergio dal maso
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venerdì 8 febbraio 2019
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opera senza autore
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“L'arte è la forma più alta della speranza” Gerhard Richter
Dodici anni dopo l’indimenticabile Le vite degli altri, splendido esordio che impose Florian Henckel von Donnersmarck nell’olimpo dei cineasti contemporanei, il regista tedesco torna a confrontarsi con la travagliata storia del suo popolo e con i traumi collettivi rimossi senza alcuna espiazione.
Anche questa volta la grande Storia è raccontata attraverso la vita del protagonista, allora era l’agente della Stasi Gerd Wiesler, questa volta il giovane pittore Kurt Barnert. E anche in questo caso si tratta di una storia vera, seppur romanzata.
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“L'arte è la forma più alta della speranza” Gerhard Richter
Dodici anni dopo l’indimenticabile Le vite degli altri, splendido esordio che impose Florian Henckel von Donnersmarck nell’olimpo dei cineasti contemporanei, il regista tedesco torna a confrontarsi con la travagliata storia del suo popolo e con i traumi collettivi rimossi senza alcuna espiazione.
Anche questa volta la grande Storia è raccontata attraverso la vita del protagonista, allora era l’agente della Stasi Gerd Wiesler, questa volta il giovane pittore Kurt Barnert. E anche in questo caso si tratta di una storia vera, seppur romanzata. Il personaggio principale è infatti ispirato alla vita di Gerhard Richter, forse il maggiore artista contemporaneo tedesco.
La storia di Kurt Barnert ha sullo sfondo le vicende cruciali del “secolo breve” europeo, quel trentennio che va dalla fine degli anni trenta alla fine dei sessanta, passando dalla Germania nazista a quella comunista post-bellica, per finire nella Repubblica Federale Tedesca negli anni della guerra fredda.
L’infanzia del piccolo Kurt è segnata dall’internamento dell’amata zia Elizabeth in un ospedale psichiatrico, trauma che lo accompagnerà per tutta la vita, come del resto il legame con il dottor Seeband, zelante esecutore delle follie eugenetiche naziste, responsabile del ricovero coatto della sorella e suo futuro suocero.
Finita la guerra Kurt crescerà a Dresda, nel blocco filo-sovietico, studiando arte all’accademia, dove conoscerà Ellie, la ragazza che, tra molti ostacoli, diventerà sua moglie. L’impossibilità di realizzarsi come artista nella Germania comunista, che osteggiava la creatività individuale in nome del realismo dell’arte tanto quanto il nazismo, porterà il protagonista a fuggire a Dusseldorf, nella Germania Ovest, dove finalmente troverà nella creazione artistica quella verità da sempre cercata. Sfumando le immagini del suo passato potrà ritrovarne il senso autentico, riuscendo in questo modo a focalizzarle dentro di sè.
L’epopea a tratti melodrammatica e il forte coinvolgimento emotivo che cattura lo spettatore dall’inizio alla fine possono non far cogliere la profondità e i diversi livelli narrativi di Opera senza nome, la cui apparente linearità nasconde una costruzione su più livelli, ricca di spunti.
Sullo sfondo, si diceva, c’è la tragedia della seconda guerra mondiale, delle ferite mai rimarginate del nazismo e della guerra fredda. C’è la rimozione collettiva dell’orrore dell’olocausto, attuato non solo nei confronti degli ebrei ma anche delle minoranze etniche e delle persone ritenute “socialmente inutili”.
La rimozione delle responsabilità e delle colpe della barbarie nazista è ben simbolizzata dalla malvagità del dottor Seband, cinico e spregiudicato quanto abile nel riciclarsi, prima nel regime comunista, in seguito nella Germania occidentale. Contrapposta all’“angelo del male” c’è l’innocenza della storia d’amore tra Kurt e Ellie. Il loro sentimento, assoluto e puro, accompagnerà Kurt per tutta la vita nella tormentata ricerca di una identità artistica. L’atto di creazione delle sue opere gli consentirà di cogliere la verità nascosta nelle ferite del passato e trasformare in bellezza il dolore rimosso.
Per Florian Henckel von Donnersmarck la potenza dell’arte è proprio questa: la possibilità di trovare la bellezza anche se nascosta e offuscata dal male subito. Perché la creatività degli artisti è inseparabile dal loro vissuto. “Il talento dei geni è la crosta sulle ferite ricevute nella loro infanzia. Ciò significa che gli esseri umani hanno una capacità quasi alchemica di trasformare un trauma in qualcosa di positivo, il mio film è il tentativo di osservare questa alchimia, attraverso il prisma dei traumi storici del mio paese.”
Nonostante la durata inconsueta il film di von Donnersmarck coinvolge ed emoziona. Le diverse epoche storiche sono amalgamate in modo armonico, senza cali di tensione. La sceneggiatura è lineare ma efficace, con i personaggi principali ben caratterizzati dal punto di vista psicologico, anche grazie alle ottime interpretazioni degli attori. Su tutti Sebastian Koch, magistralmente algido e anaffettivo, oramai l’archetipo perfetto del nazista.
Opera senza nome è un film che ti resta dentro, molte scene hanno un impatto emotivo e visivo molto forte. La storia di Kurt insegna che tutti i traumi si possono superare, l’importante, come gli diceva la zia, è “non distogliere mai lo sguardo, tutto quello che è vero, alla fine è bello.”
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michelecamero
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giovedì 11 ottobre 2018
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bello e potente: correte a vederlo.
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Auguro a questo bel film lo stesso destino de “Le Vite degli Altri” opera non a caso del medesimo regista, il cui successo, almeno da noi, venne decretato dal passa parola degli spettatori che ne imposero in pratica il ritorno nelle sale proprio quando la distribuzione ne aveva decretato il fine corsa. Faccio appello ai cinefili perché lo vedano e soprattutto ne facciano promozione sottolineando con calore di non farsi spaventare dalla durata di tre ore perché queste trascorrono senza che lo spettatore quasi se ne renda conto. E’ un merito certamente della storia, ma anche di come questo OLIMPICO pool di cineasti (regista tra i migliori nell’attuale panorama europeo, attori magnifici e giganteschi per la loro bravura, sceneggiatore alla cui scuola iscrivere un po’ dei nostri così a corto di argomenti e di forme dialettiche) ha reso sullo schermo un’altra feroce prova di autoanalisi cui è stato capace di sottoporsi il popolo tedesco.
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Auguro a questo bel film lo stesso destino de “Le Vite degli Altri” opera non a caso del medesimo regista, il cui successo, almeno da noi, venne decretato dal passa parola degli spettatori che ne imposero in pratica il ritorno nelle sale proprio quando la distribuzione ne aveva decretato il fine corsa. Faccio appello ai cinefili perché lo vedano e soprattutto ne facciano promozione sottolineando con calore di non farsi spaventare dalla durata di tre ore perché queste trascorrono senza che lo spettatore quasi se ne renda conto. E’ un merito certamente della storia, ma anche di come questo OLIMPICO pool di cineasti (regista tra i migliori nell’attuale panorama europeo, attori magnifici e giganteschi per la loro bravura, sceneggiatore alla cui scuola iscrivere un po’ dei nostri così a corto di argomenti e di forme dialettiche) ha reso sullo schermo un’altra feroce prova di autoanalisi cui è stato capace di sottoporsi il popolo tedesco. Protagonista è il Paese uscito dal nazismo del Fuhrer e dal comunismo della DDR per abbandonarsi forse nelle braccia della dittatura del capitalismo, meno visibile ed in apparenza meno condizionante come forse in questi nostri tempi odierni ci insegnano le cronache finanziarie e di una politica probabilmente schiava dell'economia. Il film abbraccia un tempo che va dalla fine degli anni ’30 alla metà degli anni ’60, mescolando la vita di una famiglia a quella di una Nazione. La famiglia è quella di un bambino educato all’arte da una zia bella, sensibile e delicata che conoscerà gli orrori della ideologia nazista (si salvino solo i sani perché sulla terra non c’è spazio a sufficienza per tutti), transiterà dall’ideologia non meno opprimente del comunismo che non saprà o non vorrà distinguere tra i nazisti autentici e quelli costretti ma che inquinerà se stesso per l’interesse del singolo (il bisogno di far nascere il proprio figlio) ed approderà all’Occidente ipocrita ed ambiguo, ma anche col suo respiro di libertà. Proprio questa parola, libertà, è il senso più marcato del racconto cinematografico. La libertà degli uomini e delle donne, la libertà dell’amore che salta le differenze di classe, la libertà delle nuove vite. La libertà del protagonista trasformatosi da talentuoso bambino a bravo pittore insoddisfatto però della manifestazione della propria arte impostagli dal regime al punto da barattare una vita comoda con la necessità di cercare altrove la propria libertà artistica. La libertà dell’arte in generale che alla fine di ogni vicenda storica è sempre emersa perché nessuna ideologia e nessun Mecenate è riuscita mai ad imbrigliarla. Per questo abbiamo avuto Michelangelo, Raffaello, Caravaggio, Picasso, Kandinskij, Van Gogh e tanti altri. Tutto il resto lo scopra ogni singolo spettatore guardando il film.
michelecamero
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flyanto
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mercoledì 10 ottobre 2018
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la nascita e lo sviluppo di un artista
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Del regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck esce in questi giorni nelle sale cinematografiche la sua ultima pellicola intitolata “Opera senza Autore”, una lunga rappresentazione sulla nascita e lo sviluppo di un artista nella Germania immediatamente precedente al 1945 sino agli anni ’60.
La storia riguarda, appunto, il protagonista che viene presentato sin da quando è un bambino e trascorre gran parte del proprio tempo con la giovane zia, appassionata di arte, ma instabile psicologicamente. Già precoce e talentuoso nel disegno, il piccolo negli anni sviluppa sempre di più la propria passione per questa forma artistica, nonché per la pittura, e a questo proposito, una volta cresciuto e terminata la guerra, incomincia a frequentare l’Accademia delle Belle Arti nella città di Dresda.
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Del regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck esce in questi giorni nelle sale cinematografiche la sua ultima pellicola intitolata “Opera senza Autore”, una lunga rappresentazione sulla nascita e lo sviluppo di un artista nella Germania immediatamente precedente al 1945 sino agli anni ’60.
La storia riguarda, appunto, il protagonista che viene presentato sin da quando è un bambino e trascorre gran parte del proprio tempo con la giovane zia, appassionata di arte, ma instabile psicologicamente. Già precoce e talentuoso nel disegno, il piccolo negli anni sviluppa sempre di più la propria passione per questa forma artistica, nonché per la pittura, e a questo proposito, una volta cresciuto e terminata la guerra, incomincia a frequentare l’Accademia delle Belle Arti nella città di Dresda. Nel contempo la propria esistenza è segnata da due importanti lutti: quello della giovane zia che, rinchiusa in una clinica psichiatrica, verrà soppressa seguendo il programma stabilito da Hitler di eliminare le persone ritenute non avere i requisiti di salute conformi al fine di appartenere alla pura razza ariana, e quello del padre, morto suicida. Nel corso delle giornate di studio il ragazzo conosce e si innamora perdutamente, ricambiato, di una giovane e bella ragazza che studia come stilista di abiti. Quando la coppia aspetta un bambino la famiglia di lei non approva affatto questa futura nascita in quanto non ritenuta dal padre, un noto medico a favore del programma di eugenetica hitleriano, rispondente ai requisiti necessari ai fini di una razza pura cosicchè con uno stratagemma viene fatta interrompere la gravidanza. Ma l’amore tra i due giovani è così forte che, malgrado l’accaduto e l’ostilità manifesta dei genitori di lei, essi giungono a contrarre il proprio matrimonio ed a fuggire in seguito clandestinamente dalla Germania dell’Est a quella divisa dell’Ovest dove il protagonista frequenterà l’Accademia artistica di Dusseldorf e dove, nel corso dei faticosi anni di studio e di risorse economiche precarie, riuscirà finalmente ad affermarsi come artista.
Una storia, come si può evincere, molto lunga (forse il film avrebbe potuto essere accorciato, tempisticamente parlando, di circa di 15/20 minuti) e complessa ma molto interessante da seguire che si ispira alla lontana alla biografia dell’artista tedesco Gerhard Richter. Essa è un affresco preciso testimoniante la condizione della Germania in un lungo periodo di tempo che si estende, ripeto, dagli anni iimediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale, sino ai primi anni’60 dopo la divisione del Paese in due con l’innalzamento del muro a Berlino. Già con il suo precedente e pluri-premiato “Le Vite degli Altri” Florian Henckel von Donnersmarck si era dimostrato un ottimo ed attento regista, anche in questa sua ultima opera cinematografica egli si riconferma un grande autore che ben conosce la situazione del proprio Paese ai tempi del conflitto bellico e, soprattutto, degli anni a venire quando per gli artisti era difficile esporsi e conseguentemente affermarsi, se residenti nella parte est della Germania. In entrambe le sue pellicole von Donnersmarck condanna la divisione del paese in due parti distinte e le conseguenti differenti condizioni di esistenza presenti in esse: attraverso le storie narrate egli ne deplora l’assurdità perchè, per ciò che concerne il mondo dell’arte nella parte est del Paese, ma il discorso è estendibile a tutti i campi, vi è la difficoltà, quando non addirittura l’impossibilità, di esprimersi e di affermarsi a causa della censura e dei severi controlli. Un artista, come viene ben evidenziato in questa pellicola, è colui che per creare, oltre ovviamente al talento naturale e allo studio appreso, necessita soprattutto di un vissuto, preferibilmente drammatico, che lo formi e lo porti a guardare la realtà in maniera più profonda ed originale, inducendolo a rappresentare la propria visione ed interpretazione del mondo nella sua produzione artistica, ovviamente liberamente espressa. Il protagonista di “Opera senza Autore” riuscirà, infatti, finalmente ad affermarsi dopo parecchio tempo e solo quando egli verrà a contatto, trasferendovisi, con l’ambiente più libero ed aperto della Germania dell’Ovest. Le opere senza autore a cui si riferisce il titolo del film sono infatti delle comuni ed anonime fotografie riportate come dipinti sulla tela dove esse acquistano un’anima del tutto particolare e suggestiva, fungendo da testimonianza di determinate epoche e momenti.
La regia di von Donnersmarck è, come sempre, impeccabile, precisa, lineare e complessivamente equilibrata nel presentare, attraverso una vicenda realistica ed avvincente, un contenuto profondo e di denuncia ed il film si configura come un vero e proprio gioiello.
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goldy
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giovedì 11 ottobre 2018
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le stranezze del cinema
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Incredibile i percorsi del gusto creati dal cinema. Film superpremiati e osannati dalla critica lasciano il tempo che trovano quando scendono nell'arena delle sale mentre altri che indignano palati più raffinati sono capaci di lasciare poi dietro di sè spunti di interesse e motivi di riflessione. Il regista è più idoneo per film politici. Qui rappresenta eventi storici realmente accaduti che fanno da sfondo al privato di due giovani con le stesse modalità di una soap opera; una colonna sonora ridondante e mai adeguata, un montaggio che andrebbe asciugato e ridotto di una buona mezz'ora, uno schematismo elementare dei personaggi sia buoni che cattivi.
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Incredibile i percorsi del gusto creati dal cinema. Film superpremiati e osannati dalla critica lasciano il tempo che trovano quando scendono nell'arena delle sale mentre altri che indignano palati più raffinati sono capaci di lasciare poi dietro di sè spunti di interesse e motivi di riflessione. Il regista è più idoneo per film politici. Qui rappresenta eventi storici realmente accaduti che fanno da sfondo al privato di due giovani con le stesse modalità di una soap opera; una colonna sonora ridondante e mai adeguata, un montaggio che andrebbe asciugato e ridotto di una buona mezz'ora, uno schematismo elementare dei personaggi sia buoni che cattivi. ma... non annoia e tiene desto l'intetresse nello spettatore. I discorsi sull'arte contemporanea lasciano il segno e forniscono spunti degni di essere approfonditi.
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roberteroica
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martedì 4 settembre 2018
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never look away
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#Venezia75 - WERK OHNE AUTOR - Concorso - Il regista del pluripremiato e bellissimo "Le vite degli altri" torna con un melodrammone di oltre tre ore che mescola orrori nazisti, aspirazione artistica, madeleine individuali, comunismo e Rdt. Un po' troppa carne al fuoco e un'ambizione che meriterebbe maggior profondita' e una sintassi meno televisiva. Alla fine i conti tornano, pero'. E la critica, di ogni tipo e grado, non ci fa una gran figura...Voto: 6
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frenky 90
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mercoledì 26 agosto 2020
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opera d''autore
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Kurt non parla quasi mai. E’ l’esemplificazione più pura del concetto che è la sua arte a parlare per sé. E’ sempre la sua arte la sua migliore arma contro i suoi nemici, la migliore cura per le sue ferite e quella che alla fine lo porterà alla vittoria. Per Henckel von Donnersmarck il “secondo album” è stato quello più difficile. Dopo l’esordio con botto e con Oscar de Le vite degli altri era arrivato il flop hollywoodiano di The Tourist che, come disse Ricky Gervais in uno dei suoi primi famosi “roast” ai Golden Globe, tutti, me compreso, prendono in giro senza averlo visto.
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Kurt non parla quasi mai. E’ l’esemplificazione più pura del concetto che è la sua arte a parlare per sé. E’ sempre la sua arte la sua migliore arma contro i suoi nemici, la migliore cura per le sue ferite e quella che alla fine lo porterà alla vittoria. Per Henckel von Donnersmarck il “secondo album” è stato quello più difficile. Dopo l’esordio con botto e con Oscar de Le vite degli altri era arrivato il flop hollywoodiano di The Tourist che, come disse Ricky Gervais in uno dei suoi primi famosi “roast” ai Golden Globe, tutti, me compreso, prendono in giro senza averlo visto. Alla terza fatica arriva, però, un centro al bersaglio clamoroso. Il ritorno alle origini della madrepatria con temi mai banali cui fa sfondo la storia contemporanea della sua Germania ispira una vera opera d’autore. Pur ispirandosi a eventi reali la sceneggiatura del cineasta tedesco resta inattaccabile, scevra da sentimentalismi e auto-compiacimento, arricchita altresì di un mix sapientemente dosato di tutti i generi, dallo storico al drammatico, dal thriller al romantico, financo alla commedia in un batter d’occhio, all’interno di 188 minuti in cui non ve n’è uno di troppo. Se la storia cattura fin dalla scena uno, non minor merito va dato alla perfezione estetica e mai manieristica di regia e fotografia, che onorano al meglio un’epopea che ha per protagonista un grande artista. Splendide infatti le scelte di Donnersmarck che in combutta con l’esperto Caleb Deschanel “dipingono” davanti ai nostri occhi inquadrature da manuale che ci lasciano senza fiato. Provando ad andare in ordine ma a memoria: il bambino Kurt che guarda dritto negli occhi della statua dell’”arte degenerata”, il carrello sul tavolo che ci introduce il gran consiglio dei medici “assassini di malati” del Reich, i corpi nudi di Kurt ed Ellie posizionati come l’Uomo Vitruviano ma perfettamente sovrapposti in un abbraccio che ne fa un corpo solo e li unisce all’infinito, fino ad arrivare alla palla di cannone che colpisce e affonda Herr Professor Carl del quadro capolavoro dell’artista che assomma i suoi ricordi in una sola immagine su tela, in bianco e nero come la sua anima, finalmente libera dal mero uno o altro colore. Usando la sola parola necessaria da usare per completare il discorso generale su ad esempio cast e colonna sonora (perfetti) non rimane altro da dire se non che l’Opera ci lascia come insegnamento che il talento e la preparazione vera non li dimentichi, come andare in bici senza rotelle. Puoi perdere la rotta per qualche miglio per le più svariate contingenze ma un bravo comandante riporta sempre la nave in porto, o muore con essa. Siamo contenti che Florian Henckel von Donnersmarck abbia riattraccato sano e salvo.
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cardclau
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domenica 7 ottobre 2018
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l'elaborazione non è semplice
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Il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck nel suo film Opera senza autore cerca giustamente di elaborare una atrocità perpetrata dalla Germania nazista, l’eliminazione dei diversi. Ma non è francese, e si vede perché, è fondamentalmente cupo. Come ricorda lo storico Martin Gilbert sulla sua storia della seconda guerra mondiale [traduco dall’inglese] “ … questa “inutile protesta” fu in grado immediatamente di forzare Hitler nell’abbandonare il suo programma di eutanasia, sebbene non prima di aver mandato a morte 50000 soggetti “difettosi”, anche diverse migliaia di bambini. Ma Himmler e i suoi uomini delle SS avrebbero ricevuto un altro “lavoro” da compiere prima che fossero passati altri 6 mesi ,,,”.
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Il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck nel suo film Opera senza autore cerca giustamente di elaborare una atrocità perpetrata dalla Germania nazista, l’eliminazione dei diversi. Ma non è francese, e si vede perché, è fondamentalmente cupo. Come ricorda lo storico Martin Gilbert sulla sua storia della seconda guerra mondiale [traduco dall’inglese] “ … questa “inutile protesta” fu in grado immediatamente di forzare Hitler nell’abbandonare il suo programma di eutanasia, sebbene non prima di aver mandato a morte 50000 soggetti “difettosi”, anche diverse migliaia di bambini. Ma Himmler e i suoi uomini delle SS avrebbero ricevuto un altro “lavoro” da compiere prima che fossero passati altri 6 mesi ,,,”. Siamo alla fine dell’anno 1940. Quindi è verissimo che i tedeschi non sono i nazisti e che la protesta in Germania fu in grado di calmierare certi eccessi della Germania nazista. Ma resta da spiegare, con coraggio e a voce alta, e il regista non ci prova nemmeno, come e perché Hitler avesse un così largo seguito e chi avesse attivamente cooperato a questa infamante impresa. Ci troviamo come nel libro di Helga Schneider, Lasciami andare madre, dove Helga ha l’ingrato compito di "separarsi" da una madre che viveva solo per il partito nazista, anch’essa criminale. Scuso Sebastian Koch di cui ho visto Le vite degli altri (2007). Riesce a farci vivere l’astio siderale per il professor Carl Seeband. Un criminale completamente anaffettivo, pur medico, e ginecologo, che seguace delle SS, antepone la morte alla vita, per la sua ambizione. Manda a morte, imperturbabile, la prima Elisabeth, deliziosa nel suo comportamento anacronistico. Cerca per sempre di danneggiare la figlia Elli. Deve essere stato un paranoico. Ma non basta. Chi sono quelli che cooperano alle nefandezze, e attivamente vi contribuiscono? Chi sono i fiancheggiatori? Sua moglie nel film è incommensurabilmente peggio di una prostituta, perché per i suoi effimeri vantaggi terreni sacrifica tutto e tutti. Non vede, non sente, non parla, mai. Carl Seeband è inarrestabile (anche dal punto di vista del significato etimologico). La lunghissima sequela sull’arte contemporanea, e la storia veramente sconclusionata di Kurt Barnert, non fa che annacquare un film che era partito coraggiosamente. Forse il regista doveva rilleggersi Archipelago Gulag, di Aleksandr Solženicyn.
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