Un film dell’orrore così sui generis capace di contaminare l’analisi sociologica, al tema dell’invasione dallo spazio siderale, permeato da un’aura che fa del silenzio il suo leit-motiv, ecco io non l’avevo mai visto.
Il riferimento evidente dell’ultimo horror di John Krasinski, attore e regista di A quiet place, è il Signs di Mel Gibson, ma c’è molto di più, a cominciare dal messaggio di fondo- il delicato ruolo della famiglia oggi- dagli interpreti e soprattutto dalla scelta voluta di girare tre quarti del film totalmente in silenzio.
Veniamo ai fatti: in una realtà non molto distante dai giorni odierni, la nostra Terra è stata invasa dagli alieni, non i candidi esseri venuti in pace con tanto buonismo spielberghiano o i necessari antesignani di un messaggio di rinnovamento alla popolazione come in Arrival, ma esseri amorfi, dalle sembianze mostruose, decisamente cattivi che hanno sterminato gran parte della popolazione (almeno degli Stati Uniti) grazie a un udito super-sviluppato.
Questi “alieni” sono infatti ciechi ma dotati di chele affilatissime e di un nucleo caratterizzato da molteplici cavità uditive, sfruttato per individuare quelle che considerano niente più che prede: gli esseri umani. L’unico modo che ha la popolazione, fallito ogni tentativo dell’esercito, è la resa a un necessario silenzio.
Giorno 89.
Vediamo i nostri protagonisti: una tipica famiglia media americana, gli Abbott muoversi in una città deserta, già infestata e ridotta a scheletro senz’anima. Camminano scalzi, spogliati e privati della loro essenza comunicativa, con tanto di figlia maggiore adolescente, sordomuta (caratteristica che ha permesso loro di rimaner ancora in vita, grazie alla conoscenza del linguaggio dei segni), al seguito. Il loro figlio più piccolo, azionando le pile dell’aeroplanino giocattolo, nonostante la raccomandazione dei genitori a non accenderlo, lo aziona. Si crea un innocente rumore: quello delle luci dei giochi a batteria che utilizzavamo da piccoli prima dell’avvento dei cellulari.
Dal nulla una figura si muove veloce.
Il padre si muove celermente per salvarlo ma è troppo tardi. Il bambino è subito ghermito e sparisce nell’oscurità.
Stacco.
Giorno 472.
Ce lo aspettavamo, gli Abbott sono ancora vivi. Con una novità: i genitori (anche nella vita reale) hanno avuto la bella pensata di fare un altro figlio con tutto quello che sta succedendo attorno a loro. Lei è incinta del nono mese. E lui se da un lato è ebbro di felicità, dall’altro sa benissimo che lasciar partorire la moglie e nascondere i vagiti del neonato, sarà impresa impossibile.
Nonostante questo non si rassegna ma cerca ogni sera di comunicare un vano SOS a onde corte dal “piccolo laboratorio” allestito in cantina, e consolare la moglie e i figli spronandoli a non rassegnarsi a un nero futuro….
Parla alla famiglia questo thriller-horror di Krasinski capace di mantenere alta la tensione in momenti in cui non c’è nemmeno un dialogo, grazie all’eccellente prova attoriale di Emily Blunt e Millicent Simmonds (la figlia maggiore, realmente audiolesa), ne descrive gli screzi, i momenti conviviali, le commoventi note di una amore sotto una minaccia incombente.
A quiet place, ci invita a riflettere sul significato del silenzio, in tempi in cui la parola è abusata e violentata, spesso “urlata” con arroganza in diatribe di inusitata ferocia. Col pretesto, come da buon horror che si rispetti, della minaccia da cui occorre nascondersi per aver salva la vita, Krasinski intelligentemente struttura più livelli di silenzio, differenziando quello mantenuto con fatica dalla famiglia Abbott da quello assoluto che circonda la figlia maggiore, avvolta in un ovattato “pozzo nero” da cui non riesce a “emergere” nonostante i disperati tentativi del padre di aggiustare l’apparecchio acustico (che senza spoilerare avrà un ruolo decisivo nel film).
Il risultato è un prodotto che convince, grazie a una sceneggiatura solida, in cui gli screzi tra fratelli, la difficoltà di esser genitori, la convivenza di una donna col mistero della creazione e, all’esterno con quello della morte (una delle migliori scene del film), convivono sapientemente sulle note di una ballata di struggente armonia di Neil Young e una speranza, oltre il muro dell’oblio, oltre le aberrazioni di massa, di poter nuovamente riuscire a comunicare con il fantasma di noi stessi, senza parole, ma solo con il silenzio di uno sguardo.
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