La mia vita con John F. Donovan

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Mamma e le altre donne forti di Dolan

di Emiliano Morreale La Repubblica

Assente a Cannes e male accolto, mesi dopo, al festival di Toronto, il nuovo film di Xavier Dolan si presenta con tutte le caratteristiche del passo falso. Eppure, per chi non ama particolarmente il mondo del giovane regista quebecoise, La mia vita con John F. Donovan è più interessante e simpatico di altri suoi lavori. Dolan è infatti, dopo il trionfo di Mommy , uno degli idoli della cinefilia francofona e non solo, coccolato dai festival. I due aspetti del suo cinema sono sconcertanti e in certo modo gemelli: da un lato, la precocità e prolificità (a 30 anni ha già girato 8 lungometraggi), dall'altro il fatto che, forse inevitabilmente, abbia cominciato a ripetersi già a 25. Eravamo rimasti folgorati dal suo esordio nemmeno ventenne, J'ai tué ma mèere , film di ribellione pieno di impeto da nouvelle vague: il film di un giovane degli anni 60, lo si sarebbe detto. Ma nei film successivi Dolan ha continuato a uccidere e far rinascere e riuccidere la mamma e soprattutto a piangersi addosso un po' querulo, in storie di giovani in cerca d'amore con un'estetica che dalla nouvelle vague incrociava sempre più il videoclip. Anche in questo film tornano fantasmi e proiezioni autobiografiche, e mamme. Rupert è un bambino che ha il mito di un attore televisivo, John Donovan (Jacob Tremblay), col quale intrattiene una corrispondenza segreta. È un rapporto sottile, ambiguo e casto, di rispecchiamento reciproco. John è un attore tormentato del quale sappiamo subito che a un certo punto si suiciderà. A ripercorrere la storia è infatti lo stesso Rupert ormai cresciuto (Ben Schetzer), in un'intervista a una scettica giornalista (Thandie Newton). Dal presente si va avanti e indietro al passato seguendo le vite parallele di due individui diversamente tormentati: e scatta la lagna dolaniana, che il regista stesso sembra avvertire, viste le parole acide con cui fa commentare il tutto dalla giornalista. Ma è proprio qui che questo film sincero e scombinato trova una sua chiave e si fa apprezzare: nel fatto che per la prima volta emergono, a monito e commento dei rovelli maschili e più o meno omosessuali, figure femminili forti. Non tanto la mamma del ragazzino (Natalie Portman), che è la meno interessante, ma la citata giornalista Newton, la madre dell'attore (Susan Sarandon), la sua agente (Kathy Bates). Figure minori ma che, grazie anche alle interpreti, rischiano di impossessarsi del film. Se ci fossero riuscite, sarebbe stato bello.
Da La Repubblica, 27 giugno 2019


di Emiliano Morreale, 27 giugno 2019

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