Se la strada potesse parlare

Love story senza timori

Bisognerà abituarsi. Per decenni abbiamo associato ai film afroamericani parole come rabbia, ingiustizia, violenza. E non c'era musica, danza o bellezza che tenesse: dalla blaxploitation a Spike Lee, il negativo impregnava l'estetica, almeno quanto il jazz, il rap o l'hip hop. La musica è cambiata. I nuovi registi afroamericani vogliono speranza e armonia. E se i più disponibili, vedi "Black Panther", scelgono la strada più facile sposando i codici del cinema dominante, altri resistono. Non abbassano le armi ma cambiano tavolozza, magari guardando a Oriente. Come Barry Jenkins, tre Oscar per "Moonlight", in questo film che racconta la storia della sua gente con i languori e i colori di Wong Kar-wai e Hou Hsiao-hsien. Anche se siamo nella Harlem anni '70, il protagonista sta quasi sempre in galera perché accusato ingiustamente di stupro e la sua giovanissima fidanzata incinta sopravvive come può mentre il film va avanti e indietro nel tempo mostrandoci tutte le durezze della loro vita, ma senza mai perdere di vista l'amore, il desiderio, il piacere. Che è anche piacere dell'occhio, come ci ricorda ogni inquadratura in un tripudio di mezze tinte e preziosismi che a tratti rischia di far scivolare i sentimenti così perfetti di Alonzo e Tisch nel sentimentalismo. Tra digressioni affascinanti (vedi il capitolo sul lavoro di commessa in profumeria), spiace un po' perdere di vista i genitori di lui, specie quella mamma bigotta che scatena una tremenda lite in famiglia chiusa da un cazzotto politicamente scorrettissimo. Ma poco importano i piccoli squilibri. Adattando un romanzo di James Baldwin, Jenkins ha aperto la strada, indietro non si torna.
Da L'Espresso, 27 gennaio 2019


di Fabio Ferzetti, 27 gennaio 2019