“Millenium. Quello che non uccide” (The Girl in the Spider’s Web, 2918) è il terzo lungometraggio del regista uruguaiano Fede Álvarez.
Serie non serie, seria, titolo e marchio. Stoccolma e fatti oscuri, cieli plumbei e notti triviali.
Dal Nobel all’Oscar....parafrasando dal vivo studio ( anche lì non se la passano bene con giochi e scandali) alla vita finta, che spettacolo allegro arrivando in uno studios americano.
Fede Alvarez, regista bravo nella ripresa e nell’ansia narrativa spegne gli entusiasmi della sceneggiatura ordinaria per calcare la mano con accompagnamento musiche roboanti (e ad hoc –un merito non da poco per il compositore spagnolo Roque Baños L.- ) per manifestare la degna pellicola di genere (vario).
La produzione è statunitense (come gli altri due film girato dall’uruguaiano), l’esecuzione ha l’imprimatur di David Fincher (qui produttore esecutivo) e lo zampino della serie fanno il resto. Si dovrebbe dire niente di nuovo e ordinariamente l’ansia ci appartiene nel visto (già).
Dopo la serie eccone un’altra con seguiti di romanzi da Stieg Larsson a David Lagercrantz (il passaggio del testimone pare): e il marchio di fabbrica si depone e si avvinghia sui personaggi che in ridondanza non sono necessariamente poveri di nulla. E vedi quello che ti aspetti di vedere.
Anche chi ha perso qualche pezzo (di origine e di descrizione) arriva bene a capire la fisicità morbosa dei personaggi e l’eccessiva teatralità di ciò che l’esasperazione tende a (no) vanificare.
Si parla di informatica, di hacker, di connubio giornalismo-indagine, di trappole, di sorelle, di vuoti d’affetto, di violenze, di separazioni, di spie, di spider e tele, di piccoli animali in contro-buio, di criminali, di denaro, di ovvia corruzione e di polizia che arriva non al dunque. E di battute leggibili in (contro)labiale.
Quasi un sogno vedere un film di genere di tensione vera, di storia interessante senza i rimarchevoli e stucchevoli cliché. Il regista aveva fatto vedere qualcosa di cupo e interessante nel precedente ‘Man in the Dark’ (Don’t Breathe, 2016).
Introduzione, pericolo, fuga, scontro, gioco del doppio, amici lontani, ri-fuga, lavoro centellinato, sangue dove serve e soprattutto scontro frontale senza sentimento fino all’ultimo. Ovvio che il finale diventa più troppa spiegazione e si ha la sensazione che in certe tipologie di film, dentro o fuori, a caldo a freddo, gelati e senza un vero luogo, tutto sembra funzionare al momento giusto. Come un pc che si apre in mezzo al sotto zero (di Stoccolma) e ha il giusto tempo per avere il campo in ogni momento… la ricerca file è subito servita. Va bene succede in molte storie forti di scontro e di potere dal denaro alla politica, dal marketing alla telematica, ma per farsi riconoscere e ricordarsi un film dovrebbe avere il suo connato rispetto ad altri per lasciare un vero segno e un ricordo. Non solo presunte scene madri. Che alla fine sembrano davvero troppe. In realtà finzioni delle finzioni.
La produzione (David Fincher insieme ad altri) si sente ma non disdegna un allentamento e una deviazione. Il muscolo al femminile, la riuscita impresa, il doppio e mai e poi mai un finale unico. Si ha il
Dark e darkismo, nuvole grigie e soprattutto nere. Il rosso è solo respiro del doppio e del sangue prossimo. Tutto pare leggibile, palpabile è più di una battuta è sulle labbra prima che arrivi la voce dallo schermo.
La degenerazione del ‘millenium’, titolo che oramai pare invischiato in deviazioni generalizzate. Aspettarsi da piccoli film o fiction televisive (che si appropriano del titolo) (non)ragguardevoli è tutto dire.
Vampirismo fumettistico di eroine meta(bond)lliche. ‘E…mi gioco la bambina” (che brutto nominare un film di grandezza e di tutt’altra storia) senza sconti muscolari e con ritrovamenti familiari.
Doppio: violenza è attesa, sedici anni sono troppi e di colpo sembrano tutti vivi (o morti viventi) per un ultimo colpo e anche un tuffo...verso il basso…
Rosso-bianco e rosso di sfida. Non più rosso e nero ma rosso e bianco-neve.
Claire Foy(Lisbeth Salander): annerita in tutto, sorriso zero e lavoro (come di lei) tanto, asettica e eroina bondiana come una moto da ‘impossibile’ vendetta (cruise.girl efferata è molto diretta...); anche la morte deve aspettare per una tuta plasticata assolutamente scurissima. La corsa di fuga sulla lastra di giaccio ha le forme (cartoon-virtuali) simili-movenze di un ‘R.player.O’ qualsiasi.
Sylvia Hoeks(Camilla Salander): l’attesa è spasmodica ma dopo sedici anni rivive nella sorella e in un abbandono vendicativo, glamour e fumetto imperante, barbie vitrea (ottimo la silhouette in controluce…una bambola) e rosso smagliante, in fuga tra boschi ricorda già altro. La ‘luccicanza’ vive poco.
Regia costruttiva e poco istruttiva, grande e rituale, sorniona e mentore.
Voto: 5,5/10 (**½).
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