Una giusta causa

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Emancipazione femminile Valutazione 3 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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lunedì 15 aprile 2019

In linea come molti film americani degli ultimi anni, prodotti principalmente da Partecipant Media, “On the Basis of Sex”, titolo originale, è tratto da una storia vera e come gli altri è predatato. I film cui mi riferisco sono quelli che hanno il compito di evidenziare le battaglie per i diritti civili, che siano donne, o neri oppure ebrei. Il recente “Green Book” che ha vinto l’Oscar 2019 per il miglior film, è ambientato nel 1962, tre anni prima dell'abrogazione delle leggi segregazioniste in vigore negli Stati ex-Confederati, “Diritto di contare” di Theodore Melfi racconta una vicenda del 1961, “I Lovings” di Jeff Nichols, invece del 1963, solo per citarne alcuni recenti. Molti cineasti probabilmente si concentrano sui problemi di razzismo e discriminazione all’epoca della fine degli anni ’50 o dell’inizio dei ’60, per non affrontare quelli di oggi che presentano un’incredibile involuzione.
Una giusta causa” è un film biografico che narra la storia degli esordi di Ruth Bader Ginsburg, poi diventata la seconda donna a essere nominata Giudice della Corte Costituzionale, dopo Sandra Day O’Connor, da Bill Clinton nel 1993. Nel 2009 Bader Ginsburg stata inserita tra le 100 donne più potenti dalla prestigiosa rivista di economia e finanza Forbes. La sceneggiatura del film era già stata scritta da Daniel Stiepleman, nipote di Ruth, e inserita nella Blacklist, cioè nella lista delle migliori sceneggiature non ancora realizzate. Aveva l’intento di presentare un tributo a una figura femminile che ha contribuito alle battaglie di parità di genere, e ha costituito un invito a non farsi sopraffare.
Ruth Bader (una bravissima Felicity Jones) sposata con Martin Ginsburg (un espressivo Armie Hammer), è stata una delle nove donne ammesse nel 1956 agli studi di giurisprudenza presso l’Università di Harvard. Sarà la prima della classe sia lì, sia all’Università alla Columbia, dove nel 1959 si laurea con merito. Ruth è riuscita a sostenere gli studi universitari nonostante avesse già una bambina piccola Jane (Cailee Spaeny), e più tardi anche un secondo figlio James, in quanto coadiuvata dal marito con cui divideva la cura dei bambini e della casa.
Trasferitasi a New York negli anni ’70, nonostante il suo talento, non riuscì a trovare lavoro negli studi legali come avvocato, in quanto donna. Si dedicò pertanto all’insegnamento della legge alla Rutgers University, dove si concentrò sull’approfondimento dei casi di discriminazione. Un giorno le capitò sotto mano (grazie al marito) una causa di discriminazione al contrario: Charles Moritz, sessantenne, aveva accudito la mamma malata e pagato una badante per farsi aiutare. Aveva quindi detratto le spese dalle tasse, ma nella giurisprudenza statunitense non era previsto che fosse un uomo, e per di più single, a doversi occupare della madre, quindi era stata bocciata dalla Commissione Tributaria. Ne avrebbe avuto diritto solo se fosse stato donna, perché si presumeva che il ruolo di caregiver fosse adatto solo al genere femminile.
A questo punto Ruth capì che questa occasione sarebbe stata la “giusta causa” per rilevare la discrepanza tra Costituzione che afferma la parità dei diritti, al di là del genere, e la giurisprudenza che invece li nega. Sostenuta, oltre che dal marito, dagli avvocati Mel Wulff (Justin Theroux), e Dorothy Kanyon (Kathy Bates) e dall’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili), nel 1972 Ruth vincerà, incredibilmente la causa, creando in tal modo, un precedente nella storia legale statunitense.
Peccato che il film invece di mettere in evidenza la straordinarietà della donna, risulti essere una classica confezione americana di processo giudiziario a fin di bene, come ad esempio, tanto per citarne un paio, “Erin Brockovich” di Steven Sodenbergh del 2000 interpretato da una battagliera Julia Roberts, e “L’uomo della pioggia” di Francis Coppola del 1998, dove con Matt Demon si rappresenta l'eterno scontro tra Davide e Golia.
Il film, inoltre, è girato in maggioranza in interni – ricostruiti peraltro a Montreal - e la ricostruzione dell’epoca è affidata prevalentemente ai vestiti e soprattutto alla pettinatura della protagonista, mentre è quasi del tutto evitata l’ambientazione urbana. La Boston degli anni ’50, anche se nella parte universitaria di Cambridge, e la Manhattan degli anni ’70, avrebbero costituito di per sé una contraddizione interessante. La regista ci fa intravedere Manhattan attraverso la ripresa delle macchine in fila, schiacciate dal teleobiettivo. In quegli anni New York è stata piuttosto vitale e teatro di variopinte manifestazioni di ogni tipo: dalla pace nel Vietnam ai cortei antirazzisti. Pensiamo anche a come sia rappresentata nel recente film “La stanza delle meraviglie” di Todd Haynes, dove la New York in bianco e nero è una città in fieri, quasi in costruzione, mentre negli anni ’70 è al massimo del suo splendore, la più grande città che si possa ancora considerare “europea”, ed è lì che si può trovare il massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village Vangard), i migliori architetti al M.O.M.A. (i Five Architects) e così via.
Nel finale “Una giusta causa” da dramma giudiziario diventa un feel-good-movie: ciò non toglie che il film sia godibile e rassicurante. La regista Mimi Leder racconta in un’intervista che ha scelto questa storia perché ha sentito molte affinità con le esperienze della Bader, entrambe madri, entrambe di origini ebraiche e con alle spalle una lunga storia d’amore, di cui si parla nel film. La figura di Martin Ginsburg infatti è ben descritta nel suo essere collaborativo in casa e nel lavoro: un attento padre e marito, un intelligente avvocato, che fa di tutto per incoraggiare la moglie. Addirittura potremmo affermare, per assurdo, che “dietro una grande donna c’è un grande uomo”.

 


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