Le livre d'image

Un film di Jean-Luc Godard. Con Jean-Luc Godard, Dimitri Basil, Jean-Pierre Gos, Anne-Marie Mieville.
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Drammatico, durata 90 min. - Francia 2018.
   
   
   

Un'emozionante utopia firmata Godard

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Un film-labirinto, stratificato come un antico palinsesto, in cui perdersi per ritrovarsi. Un monologo in cinque capitoli, «come le dita della mano», trapunto da infinite citazioni, cinematografiche e non. Una giungla di immagini e parole, a volte scagliate le une contro le altre, in cui ogni manipolazione è permessa e ogni arbitrio genera nuove suggestioni. Come un minerale prezioso estratto da una roccia. Perché il senso sta anche nel montaggio, nell' urto, nello spiazzamento. Ed ecco intrecciarsi vertiginosamente due piste. L' occhio riconosce "Vertigo" o "Paisà", "Freaks" o "Johnny Guitar", il "Salò" di Pasolini o "Lo squalo" di Spielberg, e mille altri film. Ma la mente vede altro. Vede formarsi un pensiero nuovo, un pensiero che procede a strappi mentre la voce dell'autore suggerisce, sussurra, inciampa, si strozza. Perché «la condizione dell'uomo è pensare con le mani». O almeno questo fa un artista. Fino a illuminare di colpo ciò che un attimo prima sembrava oscuro. O magari a commuoverci - pensiamo al sublime finale - quando meno ce lo aspettiamo. Palma "d' onore" a Cannes 2018, l'ultimo lavoro di Godard sfida ogni descrizione per proporre qualcosa di raro oggi al cinema: un'esperienza. Ostica, certo. Ma anche ricchissima. Soprattutto ora che grazie a Fuori orario possiamo vederlo e rivederlo su Raiplay, "sfogliandolo" come fosse un libro, scavando dentro ogni scena come faremmo con "Finnegans Wake". Zigzagando tra le ossessioni di Godard, la guerra, la violenza, l'oppressione, per scoprire che anche quando esplora la nostra incapacità di capire il mondo arabo, da Dumas fino all' Isis, o cita a piene mani un romanzo dell' egiziano Albert Cossery ("Ambizione nel deserto"), Godard, 90 anni a dicembre, parla di sé. Del cinema che ha amato, interrogato, rivoluzionato. Del culto per le immagini che ha modellato, nel bene e nel male, il Novecento. E della necessità di continuare a osare e sognare. Comunque. Perché «anche se niente dovesse mai essere come avevamo sperato, ciò non cambierà in niente le nostre speranze. Esse resteranno un'utopia necessaria, e il dominio dell'utopia è più vasto del nostro tempo». Detto così può sembrare astratto. Ma unite queste parole a quella danza sfrenata estratta da "Le plaisir" di Max Ophüls, e tutta questa astrazione vi esploderà nel petto come un'incontenibile emozione.
Da L'Espresso, 17 maggio 2020


di Fabio Ferzetti, 17 maggio 2020

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