Le Invisibili

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Donne naufraghe che non perdono mai il sorriso

di Natalia Aspesi La Repubblica

Chantal ripara tutto, dalla lavatrice allo scooter agli apparecchi elettronici: ai colloqui di lavoro però non resiste e lo dice con una certa fierezza: "Ho imparato in prigione, ho ucciso mio marito che mi picchiava". Ha 70 anni, prima di perdersi si chiamava Adolpha van Meerhaeghe: dopo il carcere ha vissuto alla giornata, dormiva in una tendopoli illegale di homeless, ha girato la città portando con sé tutto ciò che possedeva in tre grossi sacchi: si è salvata perché ha scritto la storia della sua vita e ha avuto un suo piccolo successo. È forte, ironica, serena, vera, e reinterpreta il suo passato in Le invisibili, il film campione di incassi in Francia. Lo ha diretto Louis-Julien Petit, ispirandosi a un documentario di Claire Lajeunie diventato poi un libro. Il regista francese ha 36 anni, un'età oggi di rabbia e di paura, più o meno quella di chi ha calpestato a Torre Maura il pane destinato ai Rom. Lui invece sta dall'altra parte, come la maggioranza delle persone, pure loro diventate invisibili rispetto alle minoranze urlanti e vaneggianti: non teme e non disprezza i diseredati, li vede con gli occhi giovani della persona che vuole sapere e del regista che vuole far sapere. Dopo un anno di ricerche nel nord della Francia ecco le storie delle donne che non ce l'hanno fatta eppure non hanno perso il sogno, le perdute, le abbandonate, le escluse, che cancelliamo con lo stigma di barbone, di homeless, appunto di rifiuti. Quelle che ogni tanto muoiono di freddo su una panchina, cui talvolta gruppi di ragazzi danno fuoco per gioco. Ma non ci sono lacrime in Le invisibili, né accuse per la nostra indifferenza o addirittura violenza, né il film ci ferisce con i sensi di colpa: come Ken Loach che è riuscito a divertire con certi suoi film comunistissimi sulle classi sfruttate e mai rassegnate, Petit gira una commedia avvicinandosi alla verità sconosciuta di queste naufraghe, sconosciute tra loro e che si fanno chiamare Beyoncé, Lady D, Brigitte Macron. L'Envol, il Volo, è un disadorno Centro diurno di accoglienza dalle parti di Grenoble per donne senza dimora. Ancora prima delle 8 le homeless premono ai cancelli chiusi, vecchie, giovani, francesi, musulmane, nere, agitando i loro tagliandi ritirati in Comune, con cui avranno diritto ad una doccia di 15 minuti, all'uso della lavatrice, a riscaldarsi, a un panino, ad addormentarsi su una sedia, a chiacchierare, litigare. Ma alle 18, direbbe Salvini, la pacchia è finita: bisogna andarsene, la notte in un dormitorio per loro sempre troppo affollato, in una tendopoli che poi le ruspe abbatteranno o in strada, sotto un portico, ovunque si spera di non essere aggrediti. Ad occuparsi di loro ci sono altre invisibili, le assistenti sociali, le volontarie, di cui non conosciamo la fatica, l'abnegazione, il senso di inutilità, la lotta con il buonismo rigido delle istituzioni. Bravissime nel loro sperdimento, geniali nelle loro iniziative, spettinate, stanche, con vite private difficili, vinte pure loro, sono interpretate da vere attrici, Audrey Lamy, Corinne Masiero, Noémie Lvovsky e Deborah Lukumuena, robusta congolese che ha appena vinto un Cesar per il film Divines. Il centro verrà chiuso perché non ha raggiunto gli standard burocratici previsti per il reinserimento, ottenuto solo per il 4% delle ospiti erranti. Inoltre chi se ne occupa non è all'altezza, dicono i burocrati, perché con la loro protezione e partecipazione, e addirittura affetto, rendono quegli scarti della contemporaneità dipendenti, senza iniziativa, irricuperabili. Il film usa le interviste fatte dal regista per trovare le "sue" barbone, che raccontano del "prima" e cosa le ha gettate nella solitudine assoluta della strada: infermiera, guardia giurata, psicanalista, organizzatrice di eventi, agente immobiliare, moglie: poi la droga, la depressione, le difficoltà fisiche e pschiche, il marito che è scappato con la cognata, il licenziamento, il carcere. Potrebbe non essere corretto sorridere per queste sventure sconosciute, e invece ha ragione il giovane Petit, un grande pubblico ha pagato per scoprire le invisibili, si è commosso, forse si è vergognato del suo disagio, dl quello che magari pensa e dice, io non sono razzista però....Visione obbligatoria peri neonazisti che non ci avevano mai pensato: anch'io peri casi sconosciuti della vita, potrei diventare un barbone, un senza dimora, nessuno.
Da La Repubblica, 8 aprile 2019


di Natalia Aspesi, 8 aprile 2019

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