vanessa zarastro
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venerdì 1 giugno 2018
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ideologia antiurbana
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Nei suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di anni fa la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù. Lontani dal mondo e dai media, senza alcuna istruzione, ai sequestrati sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi (interpretato da Luca Chikovani da giovane), allampanato e stravagante, vorrebbe ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino Lazzaro.
Questi ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico aiuta tutti coloro che glielo chiedono e, per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte degli altri lavoratori.
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Nei suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di anni fa la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù. Lontani dal mondo e dai media, senza alcuna istruzione, ai sequestrati sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi (interpretato da Luca Chikovani da giovane), allampanato e stravagante, vorrebbe ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino Lazzaro.
Questi ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico aiuta tutti coloro che glielo chiedono e, per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte degli altri lavoratori. Non ha genitori, non sa di chi sia figlio, ma ha una nonna e vive nella comunità dei contadini, stipati uno sull’altro in due camere. Il ragioniere contabile (interpretato da Natalino Balasso) che riscuote i prodotti agricoli (tabacco, capponi, uova ecc.) per conto della Marchesa, ha una figlia che vorrebbe si fidanzasse con il marchesino.
Una serie di vicende legherà Tancredi e Lazzaro in una strana, ma leale, amicizia. Lazzaro, febbricitante per aver preso troppa pioggia, per andare ad occuparsi di Tancredi, avrà un incidente e cadrà da un dirupo. Si risveglierà parecchio tempo dopo (vent’anni?) e non troverà più nessuno. Infatti durante la sua caduta, erano arrivati i carabinieri per cercare il Tancredi supposto rapito, così avevano scoperto in quale situazione indegna vivevano tutte queste persone, le avevano salvate, portate via. la Marchesa era stata incriminatoa per tutta una serie di reati che l’avevano portata sulle prime pagine dei giornali per un “grande inganno”.
Così Lazzaro, salvatosi miracolosamente (da cui si capisce il nome), comincerà a vagare in cerca di Tancredi e per raggiungere la città. Incontrerà, guarda caso, Antonia (Alba Rohrwacher) e alcuni altri membri della sua famiglia tutti homeless – ecco così conquistata la libertà! - che bivaccano in una periferia vicino allo scalo merci e vivono di espedienti rubacchiando qua e là.
Antonia lo riconosce subito mentre gli altri lo scansano pensando sia un fantasma - «I fantasmi non hanno fame» dice la vecchia nonna – o convinti che porti sfortuna. Lazzaro riconoscerà alcune erbe commestibili nate spontaneamente nel degrado urbano e si metteranno tutti insieme a raccoglierle iniziando un nuovo business.
Un giorno in città rincontrerà Tancredi (interpretato da adulto da Tommaso Ragno) cresciuto e invecchiato, lo porterà nel loro tugurio e in cambio lui inviterà tutti per un pranzo. Ma quando tutti i senzatetto e gli ex contadini arriveranno a casa sua scopriranno che anche lui moriva di fame perché le banche gli hanno portato via ogni bene. Vorrei evitare di narrare il finale che è comunque prevedibile e costituisce un di più sulla vicenda umana e sociale dei suoi protagonisti.
Una metafora del lupo buono, solo e anziano, allontanato dal gruppo, e di cui l’uomo nonostante tutto ha paura, si intreccia con la storia dei cinquantaquattro contadini.
Le storie narrate da Alice Rohrwacher sono sempre un po’ bucoliche, in questo caso si è ispirata a un libro per bambini di Chiara Frugoni. I suoi film mostrano un sociale sommerso, persone spesso sotto la soglia di povertà che fanno mestieri improbabili, spesso arrangiandosi. Spesso si difendono da un mondo “altro” come il padre delle quattro sorelline in Le meraviglie. Da un lato la regista demitizza l’arcadia perduta, dall’altro presenta un’alternativa disperante che forse è anche peggiore. La sua sembra essere un’ideologia anti-urbana, se solo il bene vincesse sul male, almeno una volta!
Il linguaggio che la regista usa, qui molto più maturo de Le meraviglie del 2014, è tra il verismo e il simbolico. Le vedute del paesaggio agreste sembrano uscite dai quadri dei macchiaioli toscani mentre la città, nonostante sia Milano o altra città del nord, sembra uscita da un quadro di Vespignani. Il simbolico surreale è da riscontrarsi più nella storia che nel linguaggio figurativo. La regista intervistata ha dichiarato di ispirarsi a Ermanno Olmi e ai fratelli Taviani, probabilmente per l’avvicendarsi delle stagioni sul paesaggio naturale e sulla presenza materica della roccia.
Il film a mio avviso va visto perché fa riflettere sulle condizioni degli emarginati, che oggi sembrerebbe essere una prerogativa degli immigrati o dei rom (vedi ad esempio il recente “A Ciambra” di Jonas Carpignano).
Le musiche sono scelte con cura: ad esempio la contrapposizione tra l’elegante Preludio di Bach n. VIII per clavicembalo, stride volutamente con le immagini di povertà dei senza tetto. Bravi gli attori, specialmente l’attonito Adriano Tardiolo e la truffaldina Alba Rohrwacher.
Presentato al Festival di Cannes di quest’anno, il film ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura.
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sergiodalmaso
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domenica 14 ottobre 2018
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lazzaro felice
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“… voglio vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare,
voglio vivere come i gigli dei campi, e sopra i gigli dei campi volare.”
A Pà - Francesco De Gregori (dedicata a Pier Paolo Pasolini)
C’era una volta l’Inviolata, una remota tenuta coltivata a tabacco.
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“… voglio vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare,
voglio vivere come i gigli dei campi, e sopra i gigli dei campi volare.”
A Pà - Francesco De Gregori (dedicata a Pier Paolo Pasolini)
C’era una volta l’Inviolata, una remota tenuta coltivata a tabacco. La piccola comunità di contadini che la lavorava era da tempo isolata dal resto del mondo per il crollo del ponte lungo la strada che portava in città. Mezzadri, o meglio, servi della dispotica marchesa Alfosina De Luna, coltivavano faticosamente i suoi campi e vivevano con la frugalità dei loro avi, quasi in indigenza, ignorando il grande inganno che la perfida marchesa aveva escogitato.
Lazzaro felice potrebbe iniziare anche così, come una fiaba, perché - per quanto bislacca e libera - la linea narrativa della storia è quella di una fiaba neorealista.
Come in una fiaba ci sono i cattivi, nettamente distinti dalle vittime, sfruttate e truffate senza possibilità di riscatto. Come nelle fiabe ci sono elementi magici e spirituali, simbologie ataviche come il lupo ammansito dal bene, di francescana memoria, e salti spazio-temporali tra la campagna e la grande città.
Soprattutto c’è Lazzaro, un ragazzo orfano, ingenuo e candido al limite della santità. Lazzaro è sempre felice, servizievole con tutti anche se tutti abusano della sua bontà, “semplicemente, crede negli altri esseri umani”. Anche l’amicizia nei confronti del bizzoso marchesino Tancredi è pura, senza altri fini.
Risvegliatosi nel mondo odierno dopo la caduta nella rupeandrà in città alla ricerca dell’amico e dei vecchi compagni dell’Inviolata, scoprendo che sono tutti invecchiati e abbruttiti mentre lui è rimasto lo stesso, giovane e buono.
Nella fredda e caotica società metropolitana non c’è posto per i poveri contadini liberati dall’inganno della marchesa, come sono fuoritempo lo sguardo sereno e la bontà disinteressata di Lazzaro. La “follia” della felicità pura e del credere incondizionatamente nel prossimo, al giorno d’oggi può essere molto pericolosa.
E Lazzaro dovrà amaramente farne i conti.
Circoscrivere lo splendido film di Alice Rohrwacher nel perimetro di una parabola fiabesca, tuttavia, è senz’altro riduttivo. La poetica della regista fiorentina ha solide radici sociali e politiche, capaci di interpretare il passato e di leggere l’attualità di una società che,pur cambiando rapidamente,per gli esclusi resta sempre uguale a se stessa. Si possono cogliere vari richiami al cinema di Ermanno Olmi nella parte agreste e alle tematiche di Pier Paolo Pasolini in quella ambientata in città.
Se la prima parte di Lazzaro felice racconta, senza nostalgia, un mondo contadino demitizzato, in cui i braccianti sono sfruttati ma conservano le loro tradizioni, con la seconda e con la fine della mezzadria – abolita in Italia nel 1982 – vengono sradicati dalla loro cultura e privati anche del rapporto con la terra, in nome di uno sviluppo economico privo di progresso sociale. Con le parole della regista,“la fine della civiltà contadina e la migrazione ai bordi della città ha portato quei contadini da un medioevo sociale a un medioevo umano”. Ai margini della metropoli i contadini diventano dei reietti, degli emarginati senza poter essere nemmeno sottoproletariato. Senza la loro cultura perdono anche l’innocenza. Solo Lazzaro saprà ancora riconoscere e raccogliere la cicoria che cresce lungo la ferrovia, i vecchi compagni sono invece assuefatti a rubare cibo scadente confezionato.
Lo sguardo cinematografico di Alice Rohrwacher è delicato e poetico, mai sopra le righe, sincero e generoso come quello di Lazzaro. Con questo terzo lungometraggio, anche questa volta osannato e premiato al Festival di Cannes, la giovane registaprosegue il suo percorso autoriale mantenendo quella personalissima cifra stilistica che l’ha imposta tra i migliori cineasti dell’ultima generazione. Ed è coraggiosa anche nelle scelte stilistiche come, per esempio, girare in super 16mm e non in digitale o nel selezionare per il cast dell’Inviolata veri contadini del posto. Eccellenti anche le interpretazioni dei protagonisti, su tutti il sorprendente esordiente Adriano Tardiolo che magnifica Lazzaro con l’innocenza stralunata del suo sguardo.
Proprio quel suo sorriso serafico e quella gentilezza talmente anacronistica da diventare un gesto rivoluzionario sono il regalo più grande che Lazzaro potesse farci.
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caregnato sergio
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lunedì 4 febbraio 2019
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lazzaro e il lupo
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Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
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Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
Nelle loro dimore un centinaio di mezzadri e le loro famiglie vivono 'ammucchiati', regolati da ruoli di inclusione ed esclusione tipici del branco: “bestie” li definisce infatti la 'marchesa', padrona delle loro vite e non solo della terra che coltivano. E tuttavia, nonostante essi presentino ora tratti deformi ora impulsi sadici, il gruppo resta una comunità coesa coinvolta com'è nei riti tradizionali del mondo contadino.
Lazzaro è l'unico membro della comunità le cui origini rimangono incerte. Per la sua condizione di orfano egli è costretto a subire, senza ribellarsi, una doppia discriminazione – da un lato la discriminazione esercitata sui mezzadri dall'aristocratica famiglia che possiede le terre, dall'altro anche quella dei mezzadri. Significativa, a questo proposito, è la conversazione tra la Marchesa e il figlio, Tancredi. Qando il giovane obietta alla madre che la relazione della famiglia con in contadini è 'tutto un inganno', la marchesa respinge l'accusa: secondo lei, tutta la vita sarebbe regolata da un rapporto di sopraffazione tra forte e debole. Allora, ribadisce Tancredi, quale sarebbe lo statuto di chi nella vita, come Lazzaro, si trova nello scalino più basso e non ha nessuno su cui esercitare una qualche 'forza'?
Sfruttato da sfruttatori e da sfruttati, Lazzaro è degradato allo statuto di 'sub-schiavo'. Una delle scene iniziali in cui gli viene riservato il ruolo di 'cane da guardia' contro i possibili attacchi dei lupi, testimonia di una condizione di inferiorità che egli accetta come 'naturale'. La scena è la prima di una serie che infittisce le allusioni ad una relazione con gli uomini mediata da un rapporto privilegiato con il mondo dei cani e dei lupi. I riferimenti al mondo dei lupi consente a Lazzaro di articolare due opposti livelli simbolici – quello 'basso' (o quasi-umano) e, d' altro canto, quello di una spiritualità 'alta' attraverso l'allusione alla riconciliazione tra lupo e uomo associata all'agiografia francescana. Il cane da salotto di Tancredi, vero e proprio 'lap-dog', costituisce un filo che consentirà il finale ritrovamento dei due. Lazzaro, cane egli stesso e in simbiotica relazione coi lupi, reincontra Tancredi grazie al 'lap-dog', simbolo innocente di una diminuzione urbana e borghese del cane/lupo.
La sua seconda vita , a partire dalla morte e resurrezione, è sotto la tutela dello spirito della selva e del selvatico, delle piante, delle erbe, delle cose e della parola degli uomini, entità mescolate ma sempre, per Lazzaro, portatrici di un segno unico di verità. Le cose, coinvolte tra loro, non hanno mai l'aspetto 'altro': sono come appaiono o come sono dette – questo è l'aspetto sacrale di Lazzaro. Nessuna duplicità o molteciplità semantica è ammessa – l'assenza di sotterfugio, di qualsiasi lasco tra parola e cosa, indicano lo spazio di una sacralità primitiva. Essa è intangibile e incomprensibile al mondo dei 'normali', siano essi dandy urbani (Tancredi), oppure appartenenti al micro cosmo della società rurale.
Quando il gruppo viene integrato nella società moderna, si sperde in mille rivoli. Ognuno si potrà difendere, forse, individualmente, o per piccole bande, disperse, che vivono di espedienti. Il degrado e l'emarginazione sono il 'campo' degli ex-lavoratori schiavi, persino peggiore di quel recinto concluso organizzato dalla signora marchesa. In quel mondo nuovo, luogo di salvazione secondo l'ipocrisia mediatica, gli emarginati si degradano ulteriormente, e il sub-umano Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, scende l'ultimo gradino e affronta, inconsapevole, la condanna e la morte.
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maumauroma
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sabato 9 giugno 2018
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lazzaro felice
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Ma e' proprio sicuro che vivere in totale schiavitu' in una piantagione di tabacco nei primi anni novanta, agli ordini di una marchesa cinica e spietata sia poi cosi peggio che campare di stenti al freddo e al gelo delle citta' inquinate di oggi, nella nostra celebrata democrazia sociale. magari al soldo gramo di qualche capo zingaro? E Lazzaro? schiavo degli schiavi nella piantagione di ieri, martire purificatore tra la gente di oggi. Lazzaro, un nome nel destino, modello di semplicita', generosita', ingenuita', candore, che qui muore e risorge non per mano del Signore, ma per l' energia vitale e libera di una lupa, e morira' di nuovo nel linciaggio dei cosiddettii onesti della societa'.
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Ma e' proprio sicuro che vivere in totale schiavitu' in una piantagione di tabacco nei primi anni novanta, agli ordini di una marchesa cinica e spietata sia poi cosi peggio che campare di stenti al freddo e al gelo delle citta' inquinate di oggi, nella nostra celebrata democrazia sociale. magari al soldo gramo di qualche capo zingaro? E Lazzaro? schiavo degli schiavi nella piantagione di ieri, martire purificatore tra la gente di oggi. Lazzaro, un nome nel destino, modello di semplicita', generosita', ingenuita', candore, che qui muore e risorge non per mano del Signore, ma per l' energia vitale e libera di una lupa, e morira' di nuovo nel linciaggio dei cosiddettii onesti della societa'. Alla " sua" lupa non restera' altra scelta,che quella di ritornare correndo attraversando strade rumorose e trafficate, forte e selvaggia, verso l' orizzonte dei suoi boschi lontani . Opera affascinante e intrigante, l' ultima di Alice Rorhwacher, anche se discontinua e irrisolta. Tra l' odore bucolico delle campagne e l' asprezza soffocante delle polveri sottili, le due epoche della vicenda faticano a fondersi, ma ciononostante Lazzaro Felice " prende" l' anima e commuove. Un po' Albero degli zoccoli, un po' Miracolo a MIlano. Ma non fa niente. E poi basta un'aria di Bach, e tutto finisce per diventare bello e prezioso
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no_data
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lunedì 11 giugno 2018
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evviva la magia del cinema
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Un film stupendo, ti dimentichi tutto e sei catapultato in quella realtà di cui, nel mio caso, hai flebili ricordi d'infanzia. C'è il mondo contadino, questo film sarebbe piaciuto a Olmi, ma c'è poi il mondo contemporaneo, raccontato in maniera poetica e neorealista. I personaggi sono tutti ben interpretati, ma su tutti svetta Lazzaro, Adriano Tardiolo, che recita in stato di grazia, novello San Francesco, uomo buono, puro, ingenuo. "Lazzaro felice" andrebbe proiettato nelle scuole, per confrontarsi con i ragazzi e con le ragazze di oggi sui tanti temi che tocca, sulla miriade di emozioni che suscita. Il personaggio di Antonia adulta interpretato da Alba Rohrwacher è un esempio di forza e di coraggio femminile malgrado le avversità della vita.
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Un film stupendo, ti dimentichi tutto e sei catapultato in quella realtà di cui, nel mio caso, hai flebili ricordi d'infanzia. C'è il mondo contadino, questo film sarebbe piaciuto a Olmi, ma c'è poi il mondo contemporaneo, raccontato in maniera poetica e neorealista. I personaggi sono tutti ben interpretati, ma su tutti svetta Lazzaro, Adriano Tardiolo, che recita in stato di grazia, novello San Francesco, uomo buono, puro, ingenuo. "Lazzaro felice" andrebbe proiettato nelle scuole, per confrontarsi con i ragazzi e con le ragazze di oggi sui tanti temi che tocca, sulla miriade di emozioni che suscita. Il personaggio di Antonia adulta interpretato da Alba Rohrwacher è un esempio di forza e di coraggio femminile malgrado le avversità della vita.
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stefanocapasso
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giovedì 27 dicembre 2018
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essere buoni aiuta a salvarsi
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Nei primi anni 90 c’è una comunità che risiede nell’appennino centrale ed è rimasta legata a valori della società superati da tempo. L’Inviolata è un podere in cui famiglie di contadini lavorano per la proprietaria, Marchesa De Latte in condizione di servitù. Tra questi Lazzaro è un ragazzo buono e semplice al quale tutti si rivolgono per affidare lavori e al quale nessuno presta attenzione. Casualmente stringe amicizia con Tancredi, figlio ribelle della marchesa, un’amicizia che durerà nel tempo, anche quando Lazzaro si ritrova catapultato nella società contemporanea.
Il lavoro di Alice Rohrwacher è diviso in due parti piuttosto nette, la prima quella più lirica è la ricostruzione della vita dei contadini nel podere, la seconda è il ritorno al contemporaneo dove a tratti i personaggi faticano a calarsi in quella parte straniante che è la cifra linguistica di tutto il film, e dove la presenza di attori diviene preponderante rispetto a quella dei non professionisti cosi efficace nella prima.
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Nei primi anni 90 c’è una comunità che risiede nell’appennino centrale ed è rimasta legata a valori della società superati da tempo. L’Inviolata è un podere in cui famiglie di contadini lavorano per la proprietaria, Marchesa De Latte in condizione di servitù. Tra questi Lazzaro è un ragazzo buono e semplice al quale tutti si rivolgono per affidare lavori e al quale nessuno presta attenzione. Casualmente stringe amicizia con Tancredi, figlio ribelle della marchesa, un’amicizia che durerà nel tempo, anche quando Lazzaro si ritrova catapultato nella società contemporanea.
Il lavoro di Alice Rohrwacher è diviso in due parti piuttosto nette, la prima quella più lirica è la ricostruzione della vita dei contadini nel podere, la seconda è il ritorno al contemporaneo dove a tratti i personaggi faticano a calarsi in quella parte straniante che è la cifra linguistica di tutto il film, e dove la presenza di attori diviene preponderante rispetto a quella dei non professionisti cosi efficace nella prima. E’ una fiaba amara sulla bontà necessaria in un mondo che pur cambiando nel tempo, negli oggetti, nelle apparenze mantiene la logica dell’oppressione verso il più debole, creando una ripetizione infinità. Mantenere la capacità di amare, l’integrità morale e la fedeltà ai valori più importanti permette di passare quasi indenne attraverso il gioco dei poteri attuato costantemente dagli uomini. Una rivisitazione in chiave favolistica di san Francesco e anche un forte rimando al neorealismo Zavattiniano di Miracolo a Milano
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francesca meneghetti
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giovedì 31 maggio 2018
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peace and love
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. La narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in cui dei mezzadri, residenti in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, faticano senza guadagnare nulla al servizio della marchesa De Luna, e tra i quali si disegna il profilo del giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità, si insinuano dei segnali dissonanti dal punto di vista cronologico: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie.
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. La narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in cui dei mezzadri, residenti in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, faticano senza guadagnare nulla al servizio della marchesa De Luna, e tra i quali si disegna il profilo del giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità, si insinuano dei segnali dissonanti dal punto di vista cronologico: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie. Il solo amico, anche se di un’amicizia superficiale,di Lazzaro. Ma Lazzaro, febbricitante, precipita in un dirupo. Lo salva un lupo,figura ricorrente nel film, per presenza diretta o peri suoi ululati. Lazzaro dorme non 700 anni come il pastore Aligi della dannunziana opera teatrale La figlia di Jorio, ma abbastanza per ritrovare, abbandonato, il suo microcosmo: che, una volta scovato dagli elicotteri delle forze dell’ordine, è stato ricondotto alla civiltà. In realtà, i protagonisti di quell’arcaica comunità resteranno emarginati, nonostante il riconoscimento dei loro diritti. Casualmente,seguendo dei ladri giunti a saccheggiare la villa della marchesa, ritrova i compagni di infanzia, persino l’amico-quasi-fratello Tancredi. Gli scenari, ora urbani e degradati, sono nettamente cambiati. I vecchi amici sono invecchiati, ma lui no. E,nonostante, gli sgarbi e le violenze, persiste nella sua missione di innocenza. Perdente purtroppo. Per queste ragioni, Lazzaro, interpretato da uno splendido, nel suo candore, Adriano Tardiolo, richiama alla mente la vittima sacrificale per eccellenza: Gesù Cristo. Non è necessario condividere credo religiosi improntati a dogmatismo per riconoscere certe qualità umane come la bontà e l’amore per il prossimo. Peace and Love.
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francesca meneghetti
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venerdì 1 giugno 2018
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peace and love (ma a senso unico)
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher (Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, con dimostrazione che essa produce felicità, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente, se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. Ma la narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, vivono dei mezzadri, al servizio della marchesa De Luna, che faticano restando sempre debitori.
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher (Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, con dimostrazione che essa produce felicità, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente, se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. Ma la narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, vivono dei mezzadri, al servizio della marchesa De Luna, che faticano restando sempre debitori. Tra di loro c’è il giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità. Presto si insinuano dei segnali dissonanti, degli anacronismi verrebbe da credere: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie. Il solo a diventare amico, anche se di un’amicizia superficiale, del povero Lazzaro, privo di genitori. A un certi punto, Lazzaro, febbricitante e alla ricerca di Tancredi, precipita in un dirupo. Lo salva (?) un lupo, figura ricorrente nel film, per presenza diretta o peri suoi ululati. Lazzaro dorme, non 700 anni come il pastore Aligi della dannunziana opera teatrale La figlia di Jorio, ma abbastanza, circa trent’anni. Così da ritrovare, abbandonato, il suo microcosmo: che, una volta scovato dagli elicotteri dei carabinieri, è stato a suo tempo ricondotto alla "civiltà". In realtà, i protagonisti di quell’arcaica comunità, dopo aver scoperto di essere stati ingannati, essendo la mezzadria scomparsa, resteranno emarginati. Si comprende allora che il film mescola con estrema libertà realismo (e temi sociali) con la fantasia o il simbolismo, su tutti i livelli. In particolare, è il lupo la figura-simbolo ricorrente, sino alla fine. Se si concede questa licenza, che per altro si ritrova nel cinema italiano (Fellini, più che Olmi), il giudizio sul film è positivo,tanto più che i due piani narrativi sono assecondati da una fotografia ed un registro coerente. Se si pretende rigore narrativo in senso classico, la sceneggiatura può risultare bislacca, come ha ammesso la stessa regista.. Ma, per concludere la storia, seguendo dei ladri giunti a saccheggiare la villa della marchesa, il risorto Lazzaro ritrova i compagni di infanzia, persino l’amico-quasi-fratello Tancredi. Gli scenari, ora urbani e degradati, sono nettamente cambiati. I vecchi amici sono invecchiati, ma lui no. E,nonostante, gli sgarbi e le violenze, persiste nella sua missione di innocenza accompagnato da uno sguardo limpido, diretto, buono. Perdente purtroppo. Per queste ragioni, Lazzaro, interpretato da uno splendido, nel suo candore, Adriano Tardiolo, richiama alla mente la vittima buona e sacrificale per eccellenza: Gesù Cristo. Non è necessario condividere credo religiosi improntati a dogmatismo per riconoscere qualità umane come la bontà e l’amore per il prossimo. Peace and Love, ma, quest’ultimo, a senso unico.
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[+] evviva i buoni film!
(di mariaf.)
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lizzy
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giovedì 25 ottobre 2018
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fra "l'albero degli zoccoli" ed "accattone".
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Si, lo so cosa potrebbe pensare qualcuno leggendo il titolo: che ci azzeccano gli Olmi con Pasolini... E beh.. il degrado e le miserie umane, le ambientazioni bucoliche, la povera vita dei contadini chiusi in una gabbia medievale, i mezzucci per sopravvivere… No, io non posso gioire per un protagonista evidentemente con gravi problemi psichici e comportamentali. La sua non è bontà, non ci vedo nessuna gioia di vivere. Non sa chi sono i genitori, non riesce a distinguere fra bene e male… E poi ci sono troppe discrepanze nel film: cellulari che non dovrebbero funzionare che all’ improvviso prendono il segnale, i contadini che non si fanno nessuna domanda sulle varie tecnologie e su cosa c’è oltre il territorio dove abitano (va bene esser schiavi, ma l’umana curiosità???).
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Si, lo so cosa potrebbe pensare qualcuno leggendo il titolo: che ci azzeccano gli Olmi con Pasolini... E beh.. il degrado e le miserie umane, le ambientazioni bucoliche, la povera vita dei contadini chiusi in una gabbia medievale, i mezzucci per sopravvivere… No, io non posso gioire per un protagonista evidentemente con gravi problemi psichici e comportamentali. La sua non è bontà, non ci vedo nessuna gioia di vivere. Non sa chi sono i genitori, non riesce a distinguere fra bene e male… E poi ci sono troppe discrepanze nel film: cellulari che non dovrebbero funzionare che all’ improvviso prendono il segnale, i contadini che non si fanno nessuna domanda sulle varie tecnologie e su cosa c’è oltre il territorio dove abitano (va bene esser schiavi, ma l’umana curiosità???). Ovvio poi che la seconda parte del film è esclusivamente “onirica”: Lazzaro morto e reincarnato in Lupo “resuscita” dopo poco (appena vent’anni?) e comincia a scorrazzare in giro per il mondo nemmeno invecchiato di un giorno (e nessuno se ne chiede il perchè) solo per poi morire in una banca linciato dai clienti forse più innervositi dal fatto che lui volesse saltar la fila che tentare una rapina finendo per clonare di brutto il Gesù Cristo-Accattone del film di Pasolini (e se fate bene attenzione e mettete a confronto le due scene gli attori alla fine si assomigliano in maniera lampante) che, dopo morto, torna Lupo. Qua siamo lontanissimi da “Le Meraviglie”, filmetto deboluccio, ma con una sua idea di fondo, dove comunque ambientazione e tematiche “rurali” la fanno quasi sempre da padrone come in questo Lazzaro Felice. Ma poi “Felice” perchè… io non vedo felicità in questo Lazzaro, ma solo tanta rassegnazione e incapacità di capire la vita per quel che è. Da “Accattone” credo venga mutuata la “malattia” che porta Lazzaro a cadere dal dirupo lasciandolo prima in una sorta di catatonia (“Si è bloccato”) e poi confondendolo fino a fargli mettere il piede in fallo. Una fine (di Accattone) qua suddivisa in due (Malattia e morte prima e scena in banca dopo). No, non mi è per nulla piaciuto Lazzaro Felice. E non ci vedo nessun motivo di entusiasmo o di premiazione, malgrado vedo molti quasi cerchino di gridare al “Miracolo Italiano”. La regista è ancora acerba. Ma se le premesse son queste…
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caregnato sergio
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lunedì 4 febbraio 2019
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lazzaro e il lupo
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Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
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Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
Nelle loro dimore un centinaio di mezzadri e le loro famiglie vivono 'ammucchiati', regolati da ruoli di inclusione ed esclusione tipici del branco: “bestie” li definisce infatti la 'marchesa', padrona delle loro vite e non solo della terra che coltivano. E tuttavia, nonostante essi presentino ora tratti deformi ora impulsi sadici, il gruppo resta una comunità coesa coinvolta com'è nei riti tradizionali del mondo contadino.
Lazzaro è l'unico membro della comunità le cui origini rimangono incerte. Per la sua condizione di orfano egli è costretto a subire, senza ribellarsi, una doppia discriminazione – da un lato la discriminazione esercitata sui mezzadri dall'aristocratica famiglia che possiede le terre, dall'altro anche quella dei mezzadri. Significativa, a questo proposito, è la conversazione tra la Marchesa e il figlio, Tancredi. Qando il giovane obietta alla madre che la relazione della famiglia con in contadini è 'tutto un inganno', la marchesa respinge l'accusa: secondo lei, tutta la vita sarebbe regolata da un rapporto di sopraffazione tra forte e debole. Allora, ribadisce Tancredi, quale sarebbe lo statuto di chi nella vita, come Lazzaro, si trova nello scalino più basso e non ha nessuno su cui esercitare una qualche 'forza'?
Sfruttato da sfruttatori e da sfruttati, Lazzaro è degradato allo statuto di 'sub-schiavo'. Una delle scene iniziali in cui gli viene riservato il ruolo di 'cane da guardia' contro i possibili attacchi dei lupi, testimonia di una condizione di inferiorità che egli accetta come 'naturale'. La scena è la prima di una serie che infittisce le allusioni ad una relazione con gli uomini mediata da un rapporto privilegiato con il mondo dei cani e dei lupi. I riferimenti al mondo dei lupi consente a Lazzaro di articolare due opposti livelli simbolici – quello 'basso' (o quasi-umano) e, d' altro canto, quello di una spiritualità 'alta' attraverso l'allusione alla riconciliazione tra lupo e uomo associata all'agiografia francescana. Il cane da salotto di Tancredi, vero e proprio 'lap-dog', costituisce un filo che consentirà il finale ritrovamento dei due. Lazzaro, cane egli stesso e in simbiotica relazione coi lupi, reincontra Tancredi grazie al 'lap-dog', simbolo innocente di una diminuzione urbana e borghese del cane/lupo.
La sua seconda vita , a partire dalla morte e resurrezione, è sotto la tutela dello spirito della selva e del selvatico, delle piante, delle erbe, delle cose e della parola degli uomini, entità mescolate ma sempre, per Lazzaro, portatrici di un segno unico di verità. Le cose, coinvolte tra loro, non hanno mai l'aspetto 'altro': sono come appaiono o come sono dette – questo è l'aspetto sacrale di Lazzaro. Nessuna duplicità o molteciplità semantica è ammessa – l'assenza di sotterfugio, di qualsiasi lasco tra parola e cosa, indicano lo spazio di una sacralità primitiva. Essa è intangibile e incomprensibile al mondo dei 'normali', siano essi dandy urbani (Tancredi), oppure appartenenti al micro cosmo della società rurale.
Quando il gruppo viene integrato nella società moderna, si sperde in mille rivoli. Ognuno si potrà difendere, forse, individualmente, o per piccole bande, disperse, che vivono di espedienti. Il degrado e l'emarginazione sono il 'campo' degli ex-lavoratori schiavi, persino peggiore di quel recinto concluso organizzato dalla signora marchesa. In quel mondo nuovo, luogo di salvazione secondo l'ipocrisia mediatica, gli emarginati si degradano ulteriormente, e il sub-umano Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, scende l'ultimo gradino e affronta, inconsapevole, la condanna e la morte.
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