flyanto
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martedì 9 ottobre 2018
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la difficoltà ad abbandonare il passato
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“Il Bene Mio” è tutto ciò che il protagonista del film ha perso, cioè, la moglie ed una casa molto vicina al collasso, in seguito alle scosse di terremoto avvenute in Puglia e, più precisamente, nel paese di Provvidenza dove egli vive. Rimasto solo ed ancora profondamente addolorato per la perdita della consorte, egli vive le sue giornate sempre nel ricordo della defunta che a lui, peraltro, sembra ancora ogni tanto di vedere e risiedendo ostinatamente nella propria casa che sta per essere abbattuta dalle autorità comunali in quanto pericolante. L’uomo non prende affatto in considerazione i consigli che quest’ultime, come anche due suoi amici, gli danno al fine di indurlo ad abbandonare il luogo e riuscire così anche a metabolizzare più velocemente la propria grande perdita.
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“Il Bene Mio” è tutto ciò che il protagonista del film ha perso, cioè, la moglie ed una casa molto vicina al collasso, in seguito alle scosse di terremoto avvenute in Puglia e, più precisamente, nel paese di Provvidenza dove egli vive. Rimasto solo ed ancora profondamente addolorato per la perdita della consorte, egli vive le sue giornate sempre nel ricordo della defunta che a lui, peraltro, sembra ancora ogni tanto di vedere e risiedendo ostinatamente nella propria casa che sta per essere abbattuta dalle autorità comunali in quanto pericolante. L’uomo non prende affatto in considerazione i consigli che quest’ultime, come anche due suoi amici, gli danno al fine di indurlo ad abbandonare il luogo e riuscire così anche a metabolizzare più velocemente la propria grande perdita. Quando, un giorno, una giovane donna clandestina si introduce di nascosto nella sua casa, il protagonista si distoglierà un poco dal suo ostinato e fervido attaccamento al passato ed alla sua terra e la aiuterà a fuggire dall’Italia di nascosto dalle Forze dell’Ordine, ma solo per breve tempo
Il regista Pippo Mezzapesa ha girato un film drammatico e molto delicato in cui viene presa in considerazione l’elaborazione di un lutto e di ingenti perdite materiali ed affettive quando si sopravvive ad una tragedia quale, appunto, quella di una catastrofe naturale, e la difficoltà conseguente a separarsi da tutto ciò per riprendere una nuova vita. Per il protagonista, ottimamente interpretato da Sergio Rubini, la propria casa rappresenta l’unico legame ancora saldo con l’amata non più presente e con un passato, sicuramente più felice, da lui trascorso insieme a lei. La disperazione e l’ostinazione con cui l’uomo si contrappone a tutti quelli che cercano di ‘alleviargli’ il profondo dolore consigliandolo, sia per la propria sicurezza fisica, sia per quella psicologica, di allontanarsi dall’abitazione che ormai è come se fosse un mausoleo di ricordi, vengono da Mezzapesa e Rubini ben rappresentati ed interpretati ed inducono lo spettatore a riflettere. Insomma, un film completamente privo di azione e, pertanto, di avvenimenti eclatanti, ma ricco di sensazioni e stati d’animo che lo rendono molto particolare e profondo.
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domenicosaracino
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lunedì 8 ottobre 2018
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un'ode ai custodi del tempo che fu
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì. Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni.
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì. Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano. Perché se ne facciano carico e li consegnino a chi segue, perché non si disperdano nel fluire insensato. Perché attraverso quelle tracce tutti i dolori, le gioie, i sogni, le aspirazioni, gli amori che in quei luoghi sono sbocciati e fioriti, tutto ciò insomma che ci fa umani e non bestie, o macchine, possano continuare ad essere. E allora qualcuno deve rimanere ad ascoltarli questi fantasmi. Il cinema, meglio di tutti, lo sa. Il complesso della mummia, lo chiamava Bazin, che il cinema lo conosceva bene e lo amava davvero. Io posso capirlo Elia, questo Sergio Rubini dal volto segnato dai ricordi, come quello dei vecchi, con quello sguardo di chi cerca, rabdomante di tempo perduto. Abbiamo sentito le stesse voci. Le voci nel tempo, direbbe Piavoli, quelle rimaste disperatamente appiccicate ai vestiti negli armadi polverosi, alle cose, alle pareti, alle piazze, ai giardini, che hanno visto e sentito tutto ciò che abbiamo fatto, che sanno di noi il bene e il male. Ci sono stato, lì. Ci siamo stati tutti, almeno una volta, nelle stanze del tempo. Provvidenza, questo paese inventato che però esiste davvero, queste quattro case belle in cui Elia si ostina a vivere, è questo e tanto altro ancora. Lo sa Elia e lo sanno Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta, che proprio di questo volevano parlare ne Il bene mio, ritorno al cinema di un regista che ha tanto, tanto da dire, assieme alla sceneggiatrice che lo accompagna da sempre. Entrambi, del resto, scrissero Zinanà, corto che valse loro il David di Donatello. Qualcuno scrisse che quel piccolo, prezioso frammento filmico, in cui un suonatore di piatti sogna di fare la sua parte nella banda di paese senza mai azzeccare l’attacco giusto, era un elogio del non andare a tempo. A me piace pensare che quel suonatore lì, il tempo lo conoscesse bene, meglio degli altri. È che era suo, e di nessun altro. Come le marce funebri di Pinuccio Lovero, le cassanate di Fantantonio, i balli lenti di chi si ama e se ne frega che non ci sia nessuno a guardarli. Nella galleria dei personaggi di Pippo e Antonella c’è posto per tutti quelli che i tempi li dettano loro, per quelle splendide anomalie che sono resistenza all’uniformazione, alla falsificazione, ai simulacri, al plasticume. Chiaro che non sono soli. Assieme a loro ci son tanti altri figli di un Sud, di una Italia che è patria a volte dimentica delle forze del passato, tanto care a Pasolini. Un esercito di Elia che non vogliono proprio dimenticare, un mondo che non se ne parla di scordarsi di sè. Sarebbero troppi i nomi, per farne, con rispetto, una lista esauriente. Gente che non ha mai smesso di emozionarsi davanti alle bande, ai fuochi d’artificio modesti, senza pretese, che i soldi son pochi. Cinema della frugalità opposta allo sfarzo, cinema contadino che si fa beffe del virtuale, del 2.0, della liquidità. Che a questo si oppone, pur non rinnegandolo. Cinema della dignità, della pietra e della terra, degli oggetti consumati a furia di usarli. Ed Elia, e quelli che ne cantano l’ode – perchè Il bene mio questo è, un’ode, un canto lirico o una favola, se volete – di questo mondo che rischia di scomparire sono i custodi.
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valterchiappa
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domenica 7 ottobre 2018
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la necessità della memoria
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La nostra vita è racchiusa in mille oggetti, semplici cose deperibili: un vecchio giocattolo, il disegno di un bambino, l’insegna di un negozio. La loro fragilità e l’evanescenza della memoria procedono di pari passo e, come vento sulla polvere o risacca sulla sabbia, cancellano le orme del nostro passaggio. La custodia è necessaria. Già Orhan Pamuk aveva trattato il tema, scrivendo e costruendo “Il museo dell’innocenza”. Ma se lo scrittore turco legava la conservazione al bisogno di solidificare di un vissuto personale, il giovane Pippo Mezzapesa ne fa una questione sociale, ambientando “Il bene mio” in un paese, là dove l’identità del singolo e quella collettiva sono inscindibili, rendendo così unica la vitale esigenza del loro mantenimento.
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La nostra vita è racchiusa in mille oggetti, semplici cose deperibili: un vecchio giocattolo, il disegno di un bambino, l’insegna di un negozio. La loro fragilità e l’evanescenza della memoria procedono di pari passo e, come vento sulla polvere o risacca sulla sabbia, cancellano le orme del nostro passaggio. La custodia è necessaria. Già Orhan Pamuk aveva trattato il tema, scrivendo e costruendo “Il museo dell’innocenza”. Ma se lo scrittore turco legava la conservazione al bisogno di solidificare di un vissuto personale, il giovane Pippo Mezzapesa ne fa una questione sociale, ambientando “Il bene mio” in un paese, là dove l’identità del singolo e quella collettiva sono inscindibili, rendendo così unica la vitale esigenza del loro mantenimento.Dopo un disastroso terremoto, l’immaginaria cittadina di Provvidenza è stata abbandonata. Il solo Elia (Sergio Rubini) si ostina a restare, legato al ricordo della moglie morta e alle vecchie immagini del suo paese, che sostituisce alla realtà diroccata. A nulla valgono i tentativi di condurlo via dell’amico Gesualdo (Dino Abbrescia) e di Rita (Teresa Saponangelo), la donna che gli porta la spesa e gli offre il suo affetto; ancor meno quelli del sindaco, che lo vorrebbe estirpare con la forza dalle sue case. E neppure l’incontro con una profuga nordafricana (Sonya Mellah), rifugiatasi fra le rovine del borgo, per cui sembra nascere un sentimento. Elia, testardo, resta lì, quando anche gli animali abbandonano Provvidenza, preso da una febbrile quanto misteriosa attività, da una missione il cui senso si svelerà nel finale.
Pippo Mezzapesa realizza un’opera necessaria nell’epoca dell’effimero. Lo fa utilizzando appropriatamente gli strumenti a sua disposizione: la forte valenza simbolico del suo personaggio principale, la prevedibile bravura di Sergio Rubini, che domina la scena, lasciando però briciole ai suoi comprimari, il coinvolgimento della musica, in particolare quella della tradizione popolare. Ma lo fa soprattutto con una sentita e palpabile partecipazione personale, che accende fiaccole di emotività nell’andamento monocorde della storia, così come il calore umano di Elia riscalda il gelo dei suoi ruderi e che, alfine, esplode nello struggente finale.
Il problema è che il messaggio, che si svela a pieno solo nell’epilogo, sembra essere tutto ciò che il regista bitontino aveva da raccontare. Quegli ultimi minuti di girato diventano l’unico fine dell’opera di Mezzapesa, il traguardo verso cui far giungere una vicenda che risulta svuotata di importanza e che procede con scene oltremodo dilatate e talora senza sbocchi (come l’artificio iniziale del ghost movie), fino a raggiungere faticosamente il minutaggio, peraltro ridotto, di 94 minuti.
Sul valore artistico di “Il bene mio”, comunque non trascurabile, finisce per prevalere l’importanza di quel messaggio. Che è drammaticamente attuale in una società che, al di là dei terremoti, tende a desertificare i contesti – paesi ma anche centri storici - dove si annidano ancora gli ultimi residui di umanità (e come non sentir riecheggiare la voce sempre troppo poco ascoltata di Pier Paolo Pasolini?). Ma che ci ricorda anche un intimo bisogno, eterno ed universale: quello, nonostante tutto, di sopravvivere.
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michelecamero
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mercoledì 10 ottobre 2018
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poesia e nostalgia non bastano a fare buon cinema
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A seguito di un terremoto che ha provocato morti anche nel fabbricato che ospitava la Scuola Elementare, il paese di Provvidenza viene abbandonato per essere ricostruito altrove. Resiste caparbiamente solo un abitante, Elia, cui presta volto sofferente e corpo sgangherato Sergio Rubini, il quale per essere salvaguardato, vi deve essere allontanato a cura del Sindaco, suo cognato. Elia vive nel ricordo della moglie deceduta all’interno della scuola dove insegnava e forse anche nel rimorso di non essere stato presente in paese al momento del sisma perché fuori con un suo amico titolare di una agenzia viaggi. La sua solitudine viene interrotta solo dalle visite di questo amico che di tanto in tanto porta al vecchio paese comitive di turisti stranieri (frecciatina al cosiddetto turismo del macabro) ed una ex collega della moglie che gli porta il necessario a vivere la quale in cuor suo spera di convincerlo a trasferirsi nelle nuove case per unire la sua solitudine sofferta a quella dolorosa di Elia.
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A seguito di un terremoto che ha provocato morti anche nel fabbricato che ospitava la Scuola Elementare, il paese di Provvidenza viene abbandonato per essere ricostruito altrove. Resiste caparbiamente solo un abitante, Elia, cui presta volto sofferente e corpo sgangherato Sergio Rubini, il quale per essere salvaguardato, vi deve essere allontanato a cura del Sindaco, suo cognato. Elia vive nel ricordo della moglie deceduta all’interno della scuola dove insegnava e forse anche nel rimorso di non essere stato presente in paese al momento del sisma perché fuori con un suo amico titolare di una agenzia viaggi. La sua solitudine viene interrotta solo dalle visite di questo amico che di tanto in tanto porta al vecchio paese comitive di turisti stranieri (frecciatina al cosiddetto turismo del macabro) ed una ex collega della moglie che gli porta il necessario a vivere la quale in cuor suo spera di convincerlo a trasferirsi nelle nuove case per unire la sua solitudine sofferta a quella dolorosa di Elia. Ma c’è improvvisamente un’altra presenza misteriosa che Elia prima sente e poi scopre per essere quella di una ragazza magrebina in viaggio verso la Francia dove vuole ricongiungersi con la propria gemella. Elia dopo una iniziale avversione l’accoglierà e la aiuterà nel suo intento. Un passaggio dunque al tema dell’accoglienza aperta e disponibile a contrasto di quanto non si farebbe da noi ultimamente. La parte migliore del film sta nel lavoro testardo e continuo nel quale ostinatamente Elia si è impegnato in solitudine ed in segreto e che consiste nella raccolta e nella conservazione in un unico luogo, quasi un museo della memoria, degli oggetti abbandonati che rappresentano per gli abitanti del paese il ricordo, la memoria delle loro storie individuali e della storia di tutti. Dunque un richiamo al rapporto tra ciò che siamo e che siamo diventati ed i luoghi dai quali veniamo. In definitiva una fiaba, una metafora che sfiora in alcuni tratti la poesia, un film per certi versi teneramente visionario, ma che ci è parso appesantito da alcuni temi di militanza politica (ad esempio quello dell’accoglienza) quasi a voler marcare su quel fronte una propria presenza in un momento non propizio per certe prese di posizione. Non credo che questa strada di apparente candore bucolico, di visionarietà poetica, di sorrisi tristi e nostalgici di una vita che non c’è più e che probabilmente gli stessi autori hanno conosciuto non direttamente ma solo attraverso i racconti altri, sulla quale si sono incamminati certi cineasti pugliesi (il riferimento è anche a Winspeare ed al suo La vita in Comune ad esempio) possa portarli lontano. Ci sono tante questioni e tante storie in questo mondo che meriterebbero attenzione. Non si può fare cinema solo pensando alla poesia o a compiacere i propri circoli culturali e familiari.
michelecamero
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martedì 16 ottobre 2018
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elia, l'ultimo granello della clessidra
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“Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova persone che ha conosciuto. E’ segno che sono morto anch’io. E’ segno che l’Aldilà non è felice”. Italo Calvino. Provvidenza è un paese fantasma, dopo il terremoto i suoi abitanti si sono trasferiti a valle, a Nuova Provvidenza. Provvidenza vecchia è abitata da un unico, irremovibile e testardo abitante, Elia, che nel terremoto ha perso la moglie, la maestra, e si rifiuta di abbandonare il paese, la sua casa e di lasciare andare i ricordi d’amore che le sue mura racchiudono. Lui ha un grande rimorso; il giorno del terremoto non c’era in paese, era in viaggio con l’amico. C’è un ponte che collega e separa Provvidenza vecchia e nuova, le collega nello spazio e le separa nel tempo del prima e del dopo.
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“Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova persone che ha conosciuto. E’ segno che sono morto anch’io. E’ segno che l’Aldilà non è felice”. Italo Calvino. Provvidenza è un paese fantasma, dopo il terremoto i suoi abitanti si sono trasferiti a valle, a Nuova Provvidenza. Provvidenza vecchia è abitata da un unico, irremovibile e testardo abitante, Elia, che nel terremoto ha perso la moglie, la maestra, e si rifiuta di abbandonare il paese, la sua casa e di lasciare andare i ricordi d’amore che le sue mura racchiudono. Lui ha un grande rimorso; il giorno del terremoto non c’era in paese, era in viaggio con l’amico. C’è un ponte che collega e separa Provvidenza vecchia e nuova, le collega nello spazio e le separa nel tempo del prima e del dopo. I due paesi sono come le due ampolle di una clessidra, funzionali l'una all'altra. La comunità di Provvidenza nuova vuole andare avanti, dimenticare, lasciarsi il dolore alla spalle. Elia, un grandioso Sergio Rubini, invece, è il paladino del passato, custode degli oggetti dispersi e sepolti dalle macerie, delle voci dei morti, dei luoghi della comunità. Lui continua a frequentare il bar, la chiesa, recupera oggetti sommersi dalla polvere, li aggiusta e li costudisce nel museo. C’è un solo posto a cui non accede più, la scuola in cui sua moglie morì. Il film è ambientato ad Apice vecchia, evacuata dopo il terremoto del 1962 e dove l’orologio è fermo a quella data. Ci sono ancora le insegna delle botteghe, del telefono pubblico, le architetture del dopoguerra. Io ci sono stata di sera e, come nel film, si avvertono presenze, forse animali notturni, presenze umane o forse suggestioni. E’ una storia che noi irpini conosciamo bene, anche Conza venne evacuata dopo il terremoto dell’80 e il nuovo nucleo abitativo fu ricostruito ai suoi piedi. Elia che fruga nei cumuli di pietre mi ha fatto ricordare di quando, da bambini, dopo il terremoto, ci inoltravamo nelle “caselle”, i vicoli di Lioni abbandonati, quando tutti abitavano le aree prefabbricate, poste a corollario del paese, andavamo a perlustrare le case con i calendari fermi sulla pagina del mese di novembre, i giocattoli, i mobili e gli oggetti tra le macerie. Per noi bambini era solo un gioco. La comunità del film si trasferisce e vuole dimenticare, Elia, invece, vuole ricordare e vuole restare. Le due reazioni, apparentemente opposte, rappresentano le due fasi necessarie della coscienza collettiva, di elaborazione del lutto e del trauma subito. Ricordo che nella nostra comunità, il decennio successivo al terremoto, è stato segnato dal silenzio. Il grande torto e il dolore erano troppo forti per poterne parlare, per poter ricordare e nominare i morti. Il terremoto divenne un tabù, un fagotto che tutti ci portavamo dietro, ma in cui non si andava più a guardare dentro. La reazione della comunità di Provvidenza è la reazione immediata di una comunità sotto shock, è l’istinto di sopravvivenza, è il richiamo alla vita, il rifiuto del dolore. Tante persone, negli anni successivi al terremoto, si sono sposate, hanno messo al mondo bambini, perché la vita ha bisogno di vincere sulla morte. Elia rappresenta la fase successiva, il recupero della memoria; per poter vivere in pace, per poter liberarci dagli incubi e dalll’ansia delle notti insonni, bisogna frugare nelle macerie, salvare le persone e gli oggetti cari dalla dispersione, recuperare, custodire e trasmettere la memoria attraverso la parola, il racconto, il dialogo collettivo. Elia da solo non oltrepassa mai il cancello della scuola, lo farà solo quando verrà raggiunto dalla comunità, è solo con la comunità, con il suo supporto, che potrà affrontare il suo limite, far pace col passato e andare avanti. Provvidenza vecchia è abitata anche da una clandestina. Elia le dirà che sono entrambi illegali in quel posto e l’aiuterà a lasciare l’italia e raggiungere la sorella gemella in francia. Elia è quindi un fuorilegge? Elia è il simbolo vero della società, intesa come “consortium”, che significa “partecipare alla stessa sorte”.
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yarince
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mercoledì 17 ottobre 2018
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elia, l'ultimo granello della clessidra di yarince
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“Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova persone che ha conosciuto. E’ segno che sono morto anch’io. E’ segno che l’Aldilà non è felice”. Italo Calvino.
Provvidenza è un paese fantasma, dopo il terremoto i suoi abitanti si sono trasferiti a valle, a Nuova Provvidenza.
Provvidenza vecchia è abitata da un unico, irremovibile e testardo abitante, Elia, che nel terremoto ha perso la moglie, la maestra, e si rifiuta di abbandonare il paese, la sua casa e di lasciare andare i ricordi d’amore che le sue mura racchiudono. Lui ha un grande rimorso; il giorno del terremoto non c’era in paese, era in viaggio con l’amico.
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“Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova persone che ha conosciuto. E’ segno che sono morto anch’io. E’ segno che l’Aldilà non è felice”. Italo Calvino.
Provvidenza è un paese fantasma, dopo il terremoto i suoi abitanti si sono trasferiti a valle, a Nuova Provvidenza.
Provvidenza vecchia è abitata da un unico, irremovibile e testardo abitante, Elia, che nel terremoto ha perso la moglie, la maestra, e si rifiuta di abbandonare il paese, la sua casa e di lasciare andare i ricordi d’amore che le sue mura racchiudono. Lui ha un grande rimorso; il giorno del terremoto non c’era in paese, era in viaggio con l’amico.
C’è un ponte che collega e separa Provvidenza vecchia e nuova, le collega nello spazio e le separa nel tempo del prima e del dopo. I due paesi sono come le due ampolle di una clessidra, funzionali l'una all'altra. La comunità di Provvidenza nuova vuole andare avanti, dimenticare, lasciarsi il dolore alla spalle. Elia, un grandioso Sergio Rubini, invece, è il paladino del passato, custode degli oggetti dispersi e sepolti dalle macerie, delle voci dei morti, dei luoghi della comunità. Lui continua a frequentare il bar, la chiesa, recupera oggetti sommersi dalla polvere, li aggiusta e li costudisce nel museo. C’è un solo posto a cui non accede più, la scuola in cui sua moglie morì.
Il film è ambientato ad Apice vecchia, evacuata dopo il terremoto del 1962 e dove l’orologio è fermo a quella data. Ci sono ancora le insegna delle botteghe, del telefono pubblico, le architetture del dopoguerra. Io ci sono stata di sera e, come nel film, si avvertono presenze, forse animali notturni, presenze umane o forse suggestioni.
E’ una storia che noi irpini conosciamo bene, anche Conza venne evacuata dopo il terremoto dell’80 e il nuovo nucleo abitativo fu ricostruito ai suoi piedi.
Elia che fruga nei cumuli di pietre mi ha fatto ricordare di quando, da bambini, dopo il terremoto, ci inoltravamo nelle “caselle”, i vicoli di Lioni abbandonati, nelle case fatiscenti con i calendari fermi sulla pagina del mese di novembre, e i giocattoli, i mobili, gli oggetti tra le macerie. Per noi bambini era solo un gioco.
La comunità del film si trasferisce e vuole dimenticare, Elia, invece, vuole ricordare e vuole restare. Le due reazioni, apparentemente opposte, rappresentano le due fasi necessarie della coscienza collettiva, di elaborazione del lutto e del trauma subito. Ricordo che nella nostra comunità, il decennio successivo al terremoto, è stato segnato dal silenzio. Il grande torto e il dolore erano troppo forti per poterne parlare, per poter ricordare e nominare i morti. Il terremoto divenne un tabù, un fagotto che tutti ci portavamo dietro, ma in cui non si andava più a guardare dentro. La reazione della comunità di Provvidenza è la reazione immediata di una comunità sotto shock, è l’istinto di sopravvivenza, è il richiamo alla vita, il rifiuto del dolore. Tante persone, negli anni successivi al terremoto, si sono sposate, hanno messo al mondo bambini, perché la vita ha bisogno di vincere sulla morte. Elia rappresenta la fase successiva, il recupero della memoria; per poter vivere in pace, per poter liberarci dagli incubi e dalll’ansia delle notti insonni, bisogna frugare nelle macerie, salvare le persone e gli oggetti cari dalla dispersione, recuperare, custodire e trasmettere la memoria attraverso la parola, il racconto, il dialogo collettivo. Elia da solo non oltrepassa mai il cancello della scuola, lo farà solo quando verrà raggiunto dalla comunità, è solo con la comunità, con il suo supporto, che potrà affrontare il suo limite, far pace col passato e andare avanti.
Provvidenza vecchia è abitata anche da una clandestina, Elia le dirà che sono entrambi illegali in quel posto e aiuterà la donna a lasciare l’Italia e raggiungere la sorella gemella in Francia. Elia è quindi un fuorilegge? Elia è il simbolo vero della società, intesa come “consortium”, che significa “partecipare alla stessa sorte”.
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mauridal
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lunedì 5 aprile 2021
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bene mio core mio
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Si possono cancellare i ricordi? Questo sembra il tema del film, ma a ben guardare nel racconto il film aggiunge, si può ricostruire una vita o un luogo , senza una memoria del passato , abbandonando del tutto ciò che è stato , seppure distrutto o scomparso per eventi tragici il terremoto ad esempio oppure per una morte dolorosa. Il racconto tra realtà e fantasia onirica, trae spunto dalle vicende dei paesini terremotati dell’Irpinia e Basilicata dopo il terremoto dell’ 80 Il personaggio protagonista Elia interpretato dall’ottimo Sergio Rubini , non vuole abbandonare il suo paese terremotato per trasferirsi nel nuovo insediamento ricostruito ,nuovo, senza storia e soprattutto senza memoria.
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Si possono cancellare i ricordi? Questo sembra il tema del film, ma a ben guardare nel racconto il film aggiunge, si può ricostruire una vita o un luogo , senza una memoria del passato , abbandonando del tutto ciò che è stato , seppure distrutto o scomparso per eventi tragici il terremoto ad esempio oppure per una morte dolorosa. Il racconto tra realtà e fantasia onirica, trae spunto dalle vicende dei paesini terremotati dell’Irpinia e Basilicata dopo il terremoto dell’ 80 Il personaggio protagonista Elia interpretato dall’ottimo Sergio Rubini , non vuole abbandonare il suo paese terremotato per trasferirsi nel nuovo insediamento ricostruito ,nuovo, senza storia e soprattutto senza memoria. Elia ha perso la giovane moglie maestra della scuola e non riesce a rivivere una nuova vita se non nei ricordi e aggrappandosi a alla sua vecchia casa dove conserva gelosamente tutti i suoi vecchi cimeli oggetti foto e giocattoli. Dunque sopravvive solitario e isolato dal resto della comunità che invece ha scelto di continuare a rivivere in altro luogo . Anche quando il sindaco e altri paesani cercano di allontanarlo dalla sua vecchia casa pericolante, addirittura con la minaccia di chiuderlo con un muro e filo spinato definitivamente. Elia non vuole cedere e mentre si procede alla recinzione della casa da parte della polizia municipale intervengono nella storia sceneggiata da Massimo De Angelis, due figure femminili , Rita ex collega viva della moglie di Elia e Noor una giovane immigrata clandestina rifugiatasi nel paesino abbandonato per sfuggire alla polizia, Potrebbero cambiare la vita di Elia che si mostra attento e aperto all’amicizia femminile , ma mentre accoglie provvisoriamente la immigrata in casa per rifugio, vietandole intanto di vestire gli abiti della moglie, respinge Rita perché gli propone di vivere con lei una nuova vita reale . Elia è come lui stesso dice una capa tosta, tipica figura eccentrica e anomala dei paesini del sud italiano. Intanto Elia spiega ai suoi compaesani e al suo unico amico Gesualdo ,il motivo di questa strenua resistenza, non vuole dimenticare la sua storie e quella del paese in cambio di una modernità vuota omologata a tutto il resto , di un paese lanciato in un futuro senza memoria e senza storia. Grande tema culturale che il film tratta ,con fantasia e dramma , anche leggerezza nella figura di Elia cucita addosso per Sergio Rubini che si assume la risoluzione del film quando costretto ad abbandonare la casa , convince Noor che non voleva lasciarlo solo, a partire per la Francia mentre lui stesso rimane fermo simbolicamente davanti al cancello chiuso della scuola dove morì la moglie. Nelle immagini finali il regista chiude poeticamente la storia di un uomo e di luoghi, ormai perduti fisicamente ma redivivi nella memoria .(mauridal)
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domenica 7 ottobre 2018
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un'ode ai custodi del tempo che fu
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì.
Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano.
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì.
Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano. Perché se ne facciano carico e li consegnino a chi segue, perché non si disperdano nel fluire insensato. Perché attraverso quelle tracce tutti i dolori, le gioie, i sogni, le aspirazioni, gli amori che in quei luoghi sono sbocciati e fioriti, tutto ciò insomma che ci fa umani e non bestie, o macchine, possano continuare ad essere. E allora qualcuno deve rimanere ad ascoltarli questi fantasmi. Il cinema, meglio di tutti, lo sa. Il complesso della mummia, lo chiamava Bazin, che il cinema lo conosceva bene e lo amava davvero.
Io posso capirlo Elia, questo Sergio Rubini dal volto segnato dai ricordi, come quello dei vecchi, con quello sguardo di chi cerca, rabdomante di tempo perduto. Abbiamo sentito le stesse voci. Le voci nel tempo, direbbe Piavoli, quelle rimaste disperatamente appiccicate ai vestiti negli armadi polverosi, alle cose, alle pareti, alle piazze, ai giardini, che hanno visto e sentito tutto ciò che abbiamo fatto, che sanno di noi il bene e il male. Ci sono stato, lì. Ci siamo stati tutti, almeno una volta, nelle stanze del tempo.
Provvidenza, questo paese inventato che però esiste davvero, queste quattro case belle in cui Elia si ostina a vivere, è questo e tanto altro ancora. Lo sa Elia e lo sanno Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta, che proprio di questo volevano parlare ne Il bene mio, ritorno al cinema di un regista che ha tanto, tanto da dire, assieme alla sceneggiatrice che lo accompagna da sempre. Entrambi, del resto, scrissero Zinanà, corto che valse loro il David di Donatello. Qualcuno scrisse che quel piccolo, prezioso frammento filmico, in cui un suonatore di piatti sogna di fare la sua parte nella banda di paese senza mai azzeccare l’attacco giusto, era un elogio del non andare a tempo. A me piace pensare che quel suonatore lì, il tempo lo conoscesse bene, meglio degli altri. È che era suo, e di nessun altro. Come le marce funebri di Pinuccio Lovero, le cassanate di Fantantonio, i balli lenti di chi si ama e se ne frega che non ci sia nessuno a guardarli. Nella galleria dei personaggi di Pippo e Antonella c’è posto per tutti quelli che i tempi li dettano loro, per quelle splendide anomalie che sono resistenza all’uniformazione, alla falsificazione, ai simulacri, al plasticume.
Chiaro che non sono soli. Assieme a loro ci son tanti altri figli di un Sud, di una Italia che è patria a volte dimentica delle forze del passato, tanto care a Pasolini. Un esercito di Elia che non vogliono proprio dimenticare, un mondo che non se ne parla di scordarsi di sè. Sarebbero troppi i nomi, per farne, con rispetto, una lista esauriente. Gente che non ha mai smesso di emozionarsi davanti alle bande, ai fuochi d’artificio modesti, senza pretese, che i soldi son pochi. Cinema della frugalità opposta allo sfarzo, cinema contadino che si fa beffe del virtuale, del 2.0, della liquidità. Che a questo si oppone, pur non rinnegandolo. Cinema della dignità, della pietra e della terra, degli oggetti consumati a furia di usarli.
Ed Elia, e quelli che ne cantano l’ode – perchè Il bene mio questo è, un’ode, un canto lirico o una favola, se volete – di questo mondo che rischia di scomparire sono i custodi. Custodi che non se ne vanno, come Tommaso Cestrone, l’angelo di Carditello cui uno dei luogotenenti dell’esercito di questo cinema di resistenza, Pietro Marcello, dedicava quel capolavoro poetico che è Bella e perduta.
Bella e perduta, appunto. Provvidenza come Apice, la cultura, l’amore che fu. Gli altri se ne fottono dei morti, dei fantasmi, delle voci. Delle case, delle regge, delle scuole crollate. Vogliono dimenticare, vogliono andare avanti, dicono. Dove non lo sanno bene neanche loro, barche contro corrente, in balia dei flutti, come nella indescrivibile scena finale di Roma di Cuaron, per chi scrive la vetta indiscussa di questa ricchissima 75esima Mostra del cinema. Forse qualcuno, magari Elia, o Cleo, o un Cristo qualunque, farà ancora in tempo a salvarci.
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antoniol
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giovedì 6 dicembre 2018
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un film di rara poesia
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Elia, custode di un paese abbandonato e della memoria smarrita di una comunità, è un personaggio come non se ne trovano facilmente nel cinema italiano. Affidato a un Sergio Rubini in stato di grazia, che contrariamente a molti film precedenti non cade in eccessi e sbavature, è il pastore di un gregge smarrito, un profeta che resiste ingabbiato nella incapacità di eleborare il lutto. Grande fotografia e regia estremamente raffinata, che non cade mai nella retorica. La conferma di un talento del nostro cinema.
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ritabranca
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martedì 23 ottobre 2018
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“la necessità della memoria ”
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Il bene mio (2018) film diretto da Pippo Mezzapesa con Sergio Rubini, Dino Abbrescia, Sonya Mellah, Teresa Saponangelo, Caterina Valente, Francesco de Vito e Michele Sinisi
Sergio Rubini supera sé stesso in questo film poetico dalla prima all’ultima sequenza e la tentazione di alzarsi ad applaudire durante la proiezione è frequente.
Si tratta della storia semplice di un amore apparentemente moncato da un terremoto, come tanti nel mondo, che distrugge un piccolo paese pugliese dall’ironico nome di Provvidenza.
Tutti gli abitanti abbandonano il borgo, quasi completamente ridotto a ruderi, eccetto un pastore con le sue pecore ed Elia, interpretato da Rubini, vedovo di Maria, una delle maestre della scuola, anch’essa distrutta dal terremoto e dove la donna ha trovato la morte.
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Il bene mio (2018) film diretto da Pippo Mezzapesa con Sergio Rubini, Dino Abbrescia, Sonya Mellah, Teresa Saponangelo, Caterina Valente, Francesco de Vito e Michele Sinisi
Sergio Rubini supera sé stesso in questo film poetico dalla prima all’ultima sequenza e la tentazione di alzarsi ad applaudire durante la proiezione è frequente.
Si tratta della storia semplice di un amore apparentemente moncato da un terremoto, come tanti nel mondo, che distrugge un piccolo paese pugliese dall’ironico nome di Provvidenza.
Tutti gli abitanti abbandonano il borgo, quasi completamente ridotto a ruderi, eccetto un pastore con le sue pecore ed Elia, interpretato da Rubini, vedovo di Maria, una delle maestre della scuola, anch’essa distrutta dal terremoto e dove la donna ha trovato la morte.
A niente servono le sollecitazioni affettuose dell’amico Gesualdo, interpretato in maniera davvero convincente dal bravissimo Gino Abbrescia, dal cognato, nonché sindaco del paese vicino, e di Rita, l’ex collega della moglie, miracolosamente sopravvissuta al sisma.
Elia è caparbiamente convinto che si abbia il dovere di mantenere vivo il ricordo del proprio bene, l’amatissima moglie recuperando tutto ciò che è possibile e ricostruendo il paese distrutto. Perciò impedisce a chiunque di avvicinarsi ad un cancello dal quale si accedeva alla scuola e conserva come reliquie tutto ciò che era appartenuto a Maria. Provvidenza diventa meta di visite turistiche guidate da Gesualdo e di scorribande di teppistelli locali che importunano il pacifico e solitario Elia, raggiunto solo con regolarità da Rita che gli porta la spesa che lui commissiona.
Misteriosi fatti turbano il protagonista, che ha la sensazione di una presenza nei dintorni e all’interno della casa, che lo convincono che lo spirito dell’amato bene sia lì a fargli compagnia, cosa che gli attira i dubbi dei conoscenti sulla sua sanità mentale.
Ma Elia non è un visionario che soffre di allucinazioni, in effetti una presenza si rivela nei panni della defunta, però non si tratta di lei, ma di un’altra donna viva anche se malandata, una clandestina che tenta di sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine.
Elia non la accoglie affatto benevolmente ma non può non aiutarla poiché tossisce violentemente e, fradicia di pioggia, è a serio rischio di vita.
E’ è un uomo sensibile, delicato, al pari di Gesualdo ed entrambi lo mostrano nel corso di tutte le azioni dove i colpi di scena e le sorprese non mancano.
La musicalità dei dialoghi in vernacolo colpisce, commuove e a tratti strappa qualche risatina. Perfetti anche quelli in cui Elia e l’immigrata clandestina comunicano, ognuno con la sua lingua e tanta gestualità, un’efficace dimostrazione che per capirsi non è indispensabile aver frequentato la facoltà di lingue straniere, ma è sufficiente un cuore benevolo e tanta empatia.
Bella la fotografia, struggente la canzone di Matteo Salvatore che si sente a tratti.
Ottima regia.
Applausi, applausi… attendiamo l’Oscar.
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