vanessa zarastro
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mercoledì 25 settembre 2019
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solitudini metropolitane
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Chang-dong Lee è il regista di “Beoning”, titolo originale del film, uno dei più importanti registi coreani che insieme a Park Chan-wook (“Mademoiselle”, del 2016 e “Lady vendetta” del 2006) e a Kim Ki-du (“Ferro tre – La casa vuota” del 2004, “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera“ del 2003, “Pietà” del 2012) hanno fatto conoscere la cinematografia coreana nel mondo. Chang-dong Lee negli anni 2003 e 2004 è stato anche Ministro della Cultura e del Turismo dello Stato della Corea del Sud, che ha già trascinato al successo in vari festival cinematografici europei.
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Chang-dong Lee è il regista di “Beoning”, titolo originale del film, uno dei più importanti registi coreani che insieme a Park Chan-wook (“Mademoiselle”, del 2016 e “Lady vendetta” del 2006) e a Kim Ki-du (“Ferro tre – La casa vuota” del 2004, “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera“ del 2003, “Pietà” del 2012) hanno fatto conoscere la cinematografia coreana nel mondo. Chang-dong Lee negli anni 2003 e 2004 è stato anche Ministro della Cultura e del Turismo dello Stato della Corea del Sud, che ha già trascinato al successo in vari festival cinematografici europei.
La vicenda è tratta dal racconto Granai Incendiati di Haruki Murakami, trasposta dal Giappone alla Corea del Sud di oggi. In questo film, forse non il suo migliore, Chang-dong Lee narra la storia di un triangolo sentimentale, di tre giovani, tre solitudini di diverse classi sociali, in un’attuale Corea in crisi, dove la contrapposizione città campana è molto forte ed è grande la forbice tra ricchi e poveri.
Jongsu è figlio di un contadino, ciononostante ha studiato letteratura e si è anche laureato. Il suo autore preferito è Faulkner e, curiosamente, la storia di Murakami ha lo stesso titolo di un romanzo racconto di William Faulkner, un racconto che parla di rabbia. Il suo sogno è scrivere un romanzo, anche se ancora non sa cosa scriverà. È un bravo ragazzo, mite, introverso, con un padre che ha disturbi di comportamento e talvolta diventa improvvisamente irascibile e violento. Poiché non ne poteva più del marito, la madre di Jongsu se ne era andata quando era piccolo, abbandonando così lui e la sorella.
Jongsu lavora saltuariamente come fattorino e mentre sta facendo una consegna incontra Haemi, una sua ex vicina di casa di cui però si ricorda poco. Haemi è una ragazza estroversa e, al contrario di lui, è piena di iniziative, come lavoro fa pubblicità distribuendo coupon per le strade. Haemi ha messo da parte i soldi per fare un viaggio in Africa dove pensa di trovare i “grandi affamati” e cioè le persone che si pongono problemi filosofici sul senso dell’esistenza: «Non devi sforzarti di immaginare che quella cosa ci sia. Devi piuttosto smettere di pensare che non ci sia»suggeriscea Jongsu.
Si frequentano per un po’, Jongsu si innamora di lei e, mentre Haemi è in viaggio in Kenya va tutti giorni a dare da mangiare al suo gatto, che però non riesce mai a vedere.
Haemi torna e lo cerca, ma in viaggio, ha conosciuto Ben, un sorridente e ricco ragazzo coreano di cui è rimasta affascinata. Ben all’inizio si mostra affettuoso anche con Jongsu e si frequenteranno tutti e tre, pranzando in vari locali costosi, dove si recano con la Porche Carrera di Ben, o nel suo appartamento ben arredato, in una ricca zona di Seoul. Ben, inoltre, ha uno strano hobby segreto: è un piromane che ama dare fuoco alle serre abbandonate.
Jongsu, nel frattempo è tornato a vivere in campagna nella casa del padre, finito in galera per una lite. Si occupa della stalla, dove è rimasta una sola giovane vitella di cui si prende cura.
Senza voler fare spoiler posso dire che il film, che dura due ore e mezzo, a questo punto cambia registro e si trasforma in un thriller. Di verità e finzioni, di bugie e sospetti è intrisa l’ultima parte del film in cui Jongsu, senza mai cambiare espressione, sembra prendere lentamente coscienza.
Attraverso una splendida fotografia, Chang-dong Lee ci mostra tramonti e panorami coreani, alternati a immagini metropolitane caotiche e disordinate.
“Burning – L’amore brucia “è un film sulle frustrazioni, sui desideri e sulle difficoltà dei rapporti familiari e sociali, come del resto il regista aveva già fatto nei suoi film precedenti creando una sovrapposizione nello spettatore fra la nobiltà di certi sentimenti considerati puri e l’accostamento con personaggi ai margini, misfit, mostrando in tal modorealtà ancora più solitarie. Così in “La luce segreta” del 2007, in “Poetry” del 2010, o in “Oasis” del 2002, vincitore del Premio FIPRESCI per l'audacia e il coraggio nell'esplorazione delle difficoltà della comunicazione, ma anche del SIGNIS Award e del Premio Speciale della regia.
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taty23
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mercoledì 18 settembre 2019
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tra il cinema coreano e la poesia di murakami
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Burning – L’amore brucia: la rappresentazione della sfuggente contemporaneità di un dramma esistenziale.
In Burning – L’amore brucia il giovane fattorino e aspirante scrittore Jongsu mentre sta facendo delle consegne incontra casualmente Haemi, una sua ex compagna delle elementari.
I due cominciano a frequentarsi; la ragazza prima di partire per un viaggio in solitaria in Africa chiede a Jongsu di occuparsi del suo gatto.
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Burning – L’amore brucia: la rappresentazione della sfuggente contemporaneità di un dramma esistenziale.
In Burning – L’amore brucia il giovane fattorino e aspirante scrittore Jongsu mentre sta facendo delle consegne incontra casualmente Haemi, una sua ex compagna delle elementari.
I due cominciano a frequentarsi; la ragazza prima di partire per un viaggio in solitaria in Africa chiede a Jongsu di occuparsi del suo gatto. Il ragazzo accetta anche se nel mentre dovrà tornare nella sua casa di famiglia per risolvere un problema con il padre.
Quando Haemi torna dal suo viaggio non è più sola, ha conosciuto Ben un ragazzo benestante e misterioso di cui Jongsu diffida istintivamente, rendendosi conto che dopo averlo incontrato niente sarà più come prima.
Il cinema coreano si intreccia con la poesia dei racconti di Murakami.
Il film Burning – L’amore brucia è ispirato al racconto Granai incendiati di Haruki Murakami. Dirige e sceneggia Lee Chan-Dong che dopo Poetry porta sullo schermo un mistery thriller.
Una storia che scava nell’anima dei protagonisti di questo particolare triangolo, evidenziando l’inquietudine crescente dell’intima esistenza di ognuno, che scivola lenta nelle angosce, nelle convinzioni e nelle ossessioni.
Una narrazione multistrato dove la dualità fa da padrona e porta alla luce netti contrasti, come il divario sociale tra i personaggi, il passato che travolge ed offusca il presente o la terribile scelta tra il dovere e il piacere.
Un mistery che come la pellicola si sviluppa lento, quasi impercettibile, che insinua dubbi, insicurezze e che poi esplode in questa atmosfera orientale dove il rispetto è fondamentale. Infatti la decisione di scegliere tre protagonisti giovani funziona particolarmente. Si sottolinea oltremodo la costrizione dei personaggi in un determinato ambiente socioculturale. Dove si sentono impotenti e pieni di rabbia arrancando nei propri drammi cercando un obbiettivo o una verità che stenteranno a trovare.
In conclusione
Burning – L’amore brucia, rappresenta un’istantanea frammentata di tre vite che si intrecciano e si scontrano nella sfuggente consapevolezza dell’esistenza, riuscendo a dare uno sguardo doloroso e cupo dei sentimenti dell’essere umano e delle conseguenze che ne comportano.
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matteo
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venerdì 31 luglio 2020
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cui prodest?
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Sono rimasto piacevolmente colpito dal film e dalla sua narrazione. La lentezza o presunta tale non è una caratteristica negativa ma riflessiva. Un dramma enigmatico dalle tinte gialle che non spiega per intero i fatti e gioca lo svolgersi della storia sul binomio verità/menzogna o se si vuole essere pù modernamente psicologici tra realtà e interpretazione. La conclusione a cui giunge il protagonista è una lenta indagine fatta di sospetti, pedinamenti, incontri. Film che si presta a molti piani di lettura: non c'è solo il dramma esistenziale, ma anche il conflitto sociale e il senso di colpa familiare impossibile da redimere. Ottima la fotografia e la regia.
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figliounico
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martedì 20 giugno 2023
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thiller psicologico di alto livello
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Un thriller psicologico coreano che non rifà il verso agli stereotipati prodotti dello stesso genere del cinema d’oltreoceano. Con uno stile minimalista, che ricorda quello di Ozu, Lee Chang-dong tenta, attraverso la rappresentazione di una storia particolare, di raccontare il malessere di un’intera società. Le inquadrature del paesaggio urbano degradato dalla finestra del minuscolo appartamento della ragazza, a contrasto con i tramonti strazianti della campagna aperta all’infinito e al mistero della vita, richiamano alla mente le ciminiere che Ozu immortalò nei suoi film con la stessa intenzione. Lee Chang-dong lascia l’azione in secondo piano, tutto è già accaduto o inevitabilmente è destinato a compiersi, filma soprattutto le pause, registra i silenzi, inquadra i volti degli attori a lungo per cogliere le espressioni involontarie dei suoi personaggi, ricostruisce il senso tragico di una storia a partire da pochi elementi, da qualche frase buttala lì, apparentemente senza significato, da uno sguardo distratto, da un sorriso appena accennato.
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Un thriller psicologico coreano che non rifà il verso agli stereotipati prodotti dello stesso genere del cinema d’oltreoceano. Con uno stile minimalista, che ricorda quello di Ozu, Lee Chang-dong tenta, attraverso la rappresentazione di una storia particolare, di raccontare il malessere di un’intera società. Le inquadrature del paesaggio urbano degradato dalla finestra del minuscolo appartamento della ragazza, a contrasto con i tramonti strazianti della campagna aperta all’infinito e al mistero della vita, richiamano alla mente le ciminiere che Ozu immortalò nei suoi film con la stessa intenzione. Lee Chang-dong lascia l’azione in secondo piano, tutto è già accaduto o inevitabilmente è destinato a compiersi, filma soprattutto le pause, registra i silenzi, inquadra i volti degli attori a lungo per cogliere le espressioni involontarie dei suoi personaggi, ricostruisce il senso tragico di una storia a partire da pochi elementi, da qualche frase buttala lì, apparentemente senza significato, da uno sguardo distratto, da un sorriso appena accennato. La vita del giovane protagonista è segnata dalla mancanza, l’assenza della madre scappata di casa per sottrarsi alle violenze del marito, la distanza dal padre, prima morale e poi materiale dopo la sua carcerazione, la scomparsa improvvisa della ragazza di cui era innamorato e che lo aveva trasformato guarendolo con l’amore dalla sua abulia. Assenze metaforicamente rappresentate dal gatto fantasma, che c’è ma non si vede mai, se non per rivelare alla fine la terribile verità. Le asettiche aule della giustizia, i giudici come automi, l’avvocato chiacchierone, nel processo a carico del padre, a cui ha assistito il protagonista, non sono per lui sufficienti a ristabilire l’equilibrio rotto dal male, incarnato dal giovane arricchitosi senza lavorare, emblema di una società che tutto compra e distrugge senza rimorso per il solo gusto di farlo. Non a caso nei dialoghi c’è un paragone implicito tra la società capitalistica e la natura che agisce impietosamente sugli uomini, attraverso inondazioni e catastrofi, perché semplicemente non si chiede se sia giusto o non sia giusto farlo.
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cardclau
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domenica 29 settembre 2019
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controllo e inelaborabilità
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Il film del regista coreano Chang-dong Lee racconta una storia profondissima e terribilissima, probabilmente vecchia come il mondo, anche se proiettata nella recente modernità. Dove la furiosa evoluzione tecnologica si “intorcola” [veneto, che significa intrecciarsi tenacemente] potentemente con la drammatica rarefazione delle possibilità di un lavoro dignitoso dei giovani, l’impoverimento dei moltissimi con l’opulenza dei pochissimi, e sempre grondante di sangue. Come si potrebbe scuotere questo asfittico guazzabuglio, agitando un pochino lo status quo? Politicamente, potrebbe forse servire un rivoluzione, che ne so?, tipo la rivoluzione francese, che ai tempi riuscì a scuotere l’immobilità tenacemente immobile del potere dell’aristocrazia, dei pochissimi, permettendo un maggiore pluralismo, e un po’ di respiro.
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Il film del regista coreano Chang-dong Lee racconta una storia profondissima e terribilissima, probabilmente vecchia come il mondo, anche se proiettata nella recente modernità. Dove la furiosa evoluzione tecnologica si “intorcola” [veneto, che significa intrecciarsi tenacemente] potentemente con la drammatica rarefazione delle possibilità di un lavoro dignitoso dei giovani, l’impoverimento dei moltissimi con l’opulenza dei pochissimi, e sempre grondante di sangue. Come si potrebbe scuotere questo asfittico guazzabuglio, agitando un pochino lo status quo? Politicamente, potrebbe forse servire un rivoluzione, che ne so?, tipo la rivoluzione francese, che ai tempi riuscì a scuotere l’immobilità tenacemente immobile del potere dell’aristocrazia, dei pochissimi, permettendo un maggiore pluralismo, e un po’ di respiro. Ci sono però almeno due serie di ostacoli, e se non sei nato geniale, con non molti talenti nel tuo bagagliaio, ma sei appena normale, allora sei fregato. Il primo è rappresentato dal controllo, il secondo dalla storia individuale, spesso dominata dalla inelaborabilità dell’esperienza umana individuale. La madre del protagonista, dopo un abbandono di una vita, rincontrando infine il figlio, è più attirata verso il telefonino [purtroppo], che non dal figlio stesso. Forse si tratta solamente di una madre non sufficientemente buona, ma lo strumento, al di là della sua utilità, potrebbe seriamente addormentarci negli affetti e nelle relazioni. I tre protagonisti del film, bravi attori, magistralmente diretti, con un sorprendente physique du rôle, sono tre individui deprivati. Di Jongsu [Yoo Ah-In] e Haemi [Jong seo-Jun] riusciamo a sapere qualcosa della loro vita travagliata. Ne viene fuori una Haemi che viene travolta dalla vita, e uno Jonsu che riesce a reagire. Il ruolo di Ben [Steve Yeun] suggerisce che Chang-dong Lee conosca bene come raccontare i multipli aspetti una storia. Il tutto in una recitazione e atmosfere, squisitamente orientali.
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topolinik
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martedì 28 maggio 2019
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magnetico
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Ho avuto la fortuna di vedere Burning proiettato in un cinema in città, sottotitolato in italiano, e il fascino della sala non si discute: ho fatto bene.
Il film è molto particolare, per il suo incedere lento (esasperato anche per chi conosce già i tempi del cinema coreano) e mi ha lasciato addosso una sensazione nuova. Ma andiamo con ordine.
C'è lui e c'è lei. Qualcosa nasce ma fatichi a capire cosa sia. La lenta scansione degli eventi è esaltata dalla difficoltà che ho trovato nell'empatizzare col protagonista, ambiguo, sfuggente, trasparente, vuoto: una persona che stenti a riconoscere. E poi arriva l'altro. Scompiglio.
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Ho avuto la fortuna di vedere Burning proiettato in un cinema in città, sottotitolato in italiano, e il fascino della sala non si discute: ho fatto bene.
Il film è molto particolare, per il suo incedere lento (esasperato anche per chi conosce già i tempi del cinema coreano) e mi ha lasciato addosso una sensazione nuova. Ma andiamo con ordine.
C'è lui e c'è lei. Qualcosa nasce ma fatichi a capire cosa sia. La lenta scansione degli eventi è esaltata dalla difficoltà che ho trovato nell'empatizzare col protagonista, ambiguo, sfuggente, trasparente, vuoto: una persona che stenti a riconoscere. E poi arriva l'altro. Scompiglio. Più emotivo che visivo, sia chiaro, perché il riflettore è sempre sopra il solito Jong-su che osserva, valuta, rimugina ma non agisce, a volte dubiti addirittura che pensi. E c'è qualcosa in Ben che ti colpisce, ti attira, perché lui è magico, è bello e curato, non lascia nulla al caso, è sicuro di sé e gioca per vincere, qualunque sia la partita; ma anche qualcos'altro che spaventa perché non riesci a decifrarlo, è ovvio che ti nasconda qualcosa, e l'ombra più scura che sa di indicibile e orrendo va scartarla a priori, non va bene accanto a lui, non finché non avrai provato con tutte le forze a vederci chiaro. Ma è difficile a causa della sua stessa, carismatica abilità.
Tutto il film scorre tra equilibri esili, intenzioni appena accennate, sospetti, intuizioni e smentite. Vibrante la tensione alimentata dalla colonna sonora, subdola. Poi arriva il finale, istintivo e tumultuoso, e il crescendo giunge al culmine.
E a quel punto, sui titoli di coda, ho capito: ho capito che la costruzione del film è un enigma nel quale il regista ha giocato con me, mi ha mostrato il ruolo che dovevo giocare ed io ho giocato, senza rendermene conto. Ho fatto perfettamente la mia parte, ho capito la direzione dalle carte che egli stesso mi ha passato ed ho raggiunto l'unico finale di partita possibile: godermi il film come una nuova (ennesima) esperienza che mi ha lasciato la voglia di vederlo (giocare?) ancora.
Splendido.
A margine, la sequenza di Hae-mi che danza nel tramonto è una parentesi di assoluta magnificenza nel film: poetica, tenerissima, calda del pieno della "grande fame" di cui Hae-mi stessa è consumata. Gli uomini sono lì ma lontani, piccoli, annebbiati e assenti, la telecamera è solo per lei e se lo merita: nella fusione totale tra la giovane donna e l'abbraccio malinconico della natura, un solo altissimo istante di pace, prima della fredda cenere.
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