taty23
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giovedì 27 dicembre 2018
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van gogh alla ricerca dell'essere
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“Van Gogh: sulla soglia dell’eternità” racconta l’ultimo periodo di vita del pittore.
Nel film “Van Gogh: sulla soglia dell’eternità” la narrazione si sviluppa attraverso momenti chiave dell’esistenza dell’artista. L’incontro tra Van Gogh (William Defoe) e Gauguin (Oscar Isaac) e il loro soggiorno ad Arles, il ricovero al manicomio di Saint-Rémy e la permanenza del pittore ad Auvers chiusasi con la sua misteriosa morte.
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“Van Gogh: sulla soglia dell’eternità” racconta l’ultimo periodo di vita del pittore.
Nel film “Van Gogh: sulla soglia dell’eternità” la narrazione si sviluppa attraverso momenti chiave dell’esistenza dell’artista. L’incontro tra Van Gogh (William Defoe) e Gauguin (Oscar Isaac) e il loro soggiorno ad Arles, il ricovero al manicomio di Saint-Rémy e la permanenza del pittore ad Auvers chiusasi con la sua misteriosa morte.
Sempre costante il viscerale rapporto che c’era tra Van Gogh e suo fratello Theo(Rupert Friend), convinto sostenitore dell’arte di Vincent che lo supportò fino alla fine dei suoi giorni.
Un film come un dipinto
La pellicola “Van Gogh: sulla soglia dell’eternità” è un biopic essenziale, un film interiore che sottolinea l’importanza sia del silenzio sia delle parole.
Il registro e il ritmo del lungometraggio cambiano a seconda dei personaggi.
Se Gauguin si porta dietro un continuo brusio, l’allegra ed insaziabile voglia di andare oltre ed essere sempre in movimento; per Van Gogh si predilige il silenzio, il continuo logorio di un lavorio dell’anima, una sofferenza che man mano viene accettata, ma che nasconde una grande fragilità e solitudine.
Per il ruolo di Van Gogh è stato scelto Willem Dafoe che, con un’interpretazione totalizzante, riesce a trasmettere l’anima dannata del protagonista. Alterna stati d’angoscia a stati di lucidità con lo sguardo affamato di sapere, rivolto ad una realtà che non lo comprende.
Oscar Isaac convince nel ruolo di Paul Gauguin e Rupert Friend gestisce il ruolo di Theo Van Gogh con decisa pacatezza.
Interessante e significativo il dialogo che il pittore intratterrà con due personaggi secondari. Il primo un prete nella clinica di Saint-Rémy interpretato da Mads Mikkelsen, il secondo un medico interpretato da Mathieu Amalric.
Dopo il film “Basquiat” il regista Julian Schnabel torna dietro la macchina da presa per dirigere “Van Gogh: sulla soglia dell’eternità”, un film dedicato al genio incompreso di un maestro senza tempo.
Lo fa prevalentemente con l’occhio dell’artista, facendo scelte registiche particolari, utilizzando il punto di vista del pittore per creare un’esperienza quasi immersiva da parte del pubblico.
Come le pennellate di Van Gogh, il colore è un altro elemento fondamentale per questa pellicola che respira e si interroga come il protagonista.
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[+] sulla soglia dell'anima di van gogh
(di antonio montefalcone)
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ivi91
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martedì 8 gennaio 2019
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la luce di dafoe
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''Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità''
La vita artistica di Vincent Van Gogh scorre in un tracciato esistenziale sintetico, lineare, basato solo ed esclusivamente su un abstract biografico già noto - il tormento di chi nel suo contemporaneo non ce l'ha fatta, la passione ombreggiata di chi vuol rendere ''universale'' la sua scoperta, il suo talento.
Mentre la Regia di Julian Schnabel sceglie di raccontare, più che la vita del Pittore, il suo gesto, la fotografia di Benoît Delhomme, si sposa perfettamente con il concetto chiave della vita del Pittore: la luce nuova delle cose.
Le riprese oscillano tra la visione concreta e la visione ''distorta'', resa volutamente obliqua e disturbante, mentre il montaggio non convezionale, crea un punto d'incontro netto, tra Cinema e Arti visive, lasciandoci così pensare che questo progetto nasca da un'esigenza del tutto espressiva più che narrativa.
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''Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità''
La vita artistica di Vincent Van Gogh scorre in un tracciato esistenziale sintetico, lineare, basato solo ed esclusivamente su un abstract biografico già noto - il tormento di chi nel suo contemporaneo non ce l'ha fatta, la passione ombreggiata di chi vuol rendere ''universale'' la sua scoperta, il suo talento.
Mentre la Regia di Julian Schnabel sceglie di raccontare, più che la vita del Pittore, il suo gesto, la fotografia di Benoît Delhomme, si sposa perfettamente con il concetto chiave della vita del Pittore: la luce nuova delle cose.
Le riprese oscillano tra la visione concreta e la visione ''distorta'', resa volutamente obliqua e disturbante, mentre il montaggio non convezionale, crea un punto d'incontro netto, tra Cinema e Arti visive, lasciandoci così pensare che questo progetto nasca da un'esigenza del tutto espressiva più che narrativa.
Willem Dafoe (Vincent Van Gogh) con la sua interpretazione dipinge un ritratto dell'autore eccelso, dove la sfumatura tenue e all'occorrenza accesa della sua espressività, rende il ''quadro'' perfetto.
Dal mio punto di vista senza tempo, eterno.
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fulviowetzl
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sabato 5 gennaio 2019
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dentro gli occhi di van gogh
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Un pittore che descrive un pittore "dal di dentro", facendoci entrare nei suoi occhi ingombri di lacrime, o intorpiditi dall'assenzio, in soggettive in cui la metà inferiore dello schermo è sfocata, oppure facendoci correre a perdifiato, con tutti i sobbalzi della macchina a mano, senza la melassa della steadycam, per campi di girasoli che svettano morti e desolati, o affondare scarpe sfondate nel fango in passi frenetici e ossessivi o in chiese dove enormi pilastri rotondi, millenari come querce, si inoltrano nel buio delle volte, o facendoci rotolare su pietre tombali dove Van Gogh si rotola, noncurante di segnare ulteriormente la sua pelle segnata da mille rughe, o immergere in campi incolti di erba alta, a farsi abbracciare dalla terra, e riempire gli occhi di giallo di sole e blu cobalto di cielo, per placare la febbre interiore, la ricerca inesausta d'amore.
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Un pittore che descrive un pittore "dal di dentro", facendoci entrare nei suoi occhi ingombri di lacrime, o intorpiditi dall'assenzio, in soggettive in cui la metà inferiore dello schermo è sfocata, oppure facendoci correre a perdifiato, con tutti i sobbalzi della macchina a mano, senza la melassa della steadycam, per campi di girasoli che svettano morti e desolati, o affondare scarpe sfondate nel fango in passi frenetici e ossessivi o in chiese dove enormi pilastri rotondi, millenari come querce, si inoltrano nel buio delle volte, o facendoci rotolare su pietre tombali dove Van Gogh si rotola, noncurante di segnare ulteriormente la sua pelle segnata da mille rughe, o immergere in campi incolti di erba alta, a farsi abbracciare dalla terra, e riempire gli occhi di giallo di sole e blu cobalto di cielo, per placare la febbre interiore, la ricerca inesausta d'amore. Willem Dafoe è straordinario, si immerge nel ruolo della vita, poco importa se 62enne a interpretare un 37enne, Van Gogh sarà giunto cosi al termine della sua breve vita, i veri solchi della faccia di Dafoe che procedono paralleli a segmentarne il volto, coincidono con le linee vorticose del vento nei cieli stellati, nelle radici contorte a riempire le sue tele fino a cacciarne i tronchi, e il suo occhio di bambino implorante affiora a cercare il nostro, commovente. Julian Schnabel, pittore magmatico di tele enormi, bistrattate da colori e segni, dove il gesto deve essere uno ed uno solo, quello, a metà sentiero tra Jackson Pollock e Van Gogh appunto, ci fa vivere un'esperienza emotiva e tattile, come già aveva fatto con Basquiat, ma là descriveva un fratello di strada, bruciante e bruciato, qui entra letteralmente nel corpo e nella mente emaciata e delirante di Vincent, e ci fa sobbalzare e stremare e soffrire con lui, a cercare di schivare i colpi di incomprensione e di pistola dei suoi concittadini sordi, cinici e opachi. Van Gogh - Sulla Soglia dell'Eternità , è un'esperienza totalizzante, un vero trip come si diceva nei Juke Box all'idrogeno, On the road che aleggiavano intorno a Schnabel, negli anni '80. E gli scarni ma preziosi dialoghi di Jean-Claude Carrière, lo sceneggiatore dei fascini discreti, dei fantasmi di libertà, degli oscuri oggetti del desiderio buñueliani, ci guidano inesorabili ma semplici a dipanare la matassa interiore, a decrittare il fascino angosciante ma imprescindibile che esercitano ancora su di noi le tele convulse di Vincent, salvo poi placarci anche noi nel giallo che invade, dopo i titoli di coda, per due minuti lo schermo. Il film è arricchito ancor più da preziosi camei, della locandiera di Emanuelle Seigner, ignara che il libro bianco da lei regalato a Vincent era riempito da 65 disegni, scoperti solo nel 2016, del reduce da Saint Quentin impazzito e tatuato di Niels Arestrup, dal sornione dottor Gachet di Mathieu Amalric, ma soprattutto dal prete scettico e sibillino di Madds Mikkelsen, nel dialogo memorabile in cui Vincent e lui si confrontano, sull'arte, sulla fede, sull'anima, di fronte ad un piccolo quadro di uccellini in un nido, sparuti come Van Gogh ora di fronte all'autorità ecclesiastica, alla sorda diffidenza della sua epoca.
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carloalberto
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venerdì 11 gennaio 2019
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se non fosse per dafoe...
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Ennesimo film su Van Gogh, sugli ultimi anni della sua vita, tra manicomi, locande, taverne e quadri, quadri, quadri, i bellissimi quadri di Van Gogh, interpretato da un grande Dafoe. Il film non aggiunge nulla alla copiosa filmografia sull’artista e a tratti diventa inesorabilmente soporifero e lo spettatore varca la soglia dell’eternità di quell’ora e mezza di durata del film che sembra non passare mai. Incomprensibili alcune scelte stilistiche del regista, la visione sfocata nella parte bassa dello schermo e nitida in alto e le riprese con macchina in spalla a caracollare per i campi inseguendo l’artista rapito dalla bellezza della natura e dei paesaggi di Arles.
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Ennesimo film su Van Gogh, sugli ultimi anni della sua vita, tra manicomi, locande, taverne e quadri, quadri, quadri, i bellissimi quadri di Van Gogh, interpretato da un grande Dafoe. Il film non aggiunge nulla alla copiosa filmografia sull’artista e a tratti diventa inesorabilmente soporifero e lo spettatore varca la soglia dell’eternità di quell’ora e mezza di durata del film che sembra non passare mai. Incomprensibili alcune scelte stilistiche del regista, la visione sfocata nella parte bassa dello schermo e nitida in alto e le riprese con macchina in spalla a caracollare per i campi inseguendo l’artista rapito dalla bellezza della natura e dei paesaggi di Arles. Incentrato sul rapporto morboso di Van Gogh con Gauguin, il film elude gli altri aspetti della sua vita, eccetto che l’amore per il fratello, dipinto da Schnabel troppo equilibrato e tranquillo "borghese", se è vero che morì dopo sei mesi dalla morte di Vincent per il rimorso ed internato in un manicomio. Se non fosse per Dafoe l’opera non avrebbe alcun senso.
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lucio di loreto
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giovedì 16 aprile 2020
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la precaria psiche di un genio
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La fase introspettiva della vita di Van Gogh dopo le delusioni impressionistiche parigine viene portata sul grande schermo da Julian Schnabel, regista americano nonché pittore e perciò egli stesso disegnatore di numerosi affreschi presenti e primo fan del genio olandese, qui clonato fisicamente e psicologicamente in modo eccellente da Willem Dafoe, per l’occasione pure reale manovratore di pennelli su seta, premiato per ciò con la quarta nomination agli Oscar. La migrazione ad Arles per lavorare sugli estesi paesaggi che ne eleveranno poi il mito è ciò su cui si concentra la macchina da presa, ottenendo in cambio una magistrale trasposizione di tormenti d’animo da parte dell’attore, grandioso nell’impersonare i disagio dell’uomo, mentalmente solo ed isolato e all’esterno visto esclusivamente come pazzo asociale da scansare e ripudiare, diniego che ne comprometterà per sempre una psiche già di suo al limite della pazzia! Ad affiancarlo nelle tre fasi dell’arco narrativo la faranno da padrone il rapporto (l’unico) spontaneo, sincero ed affettuoso con suo fratello Theo, mendicante d’arte che inconsciamente lo farà cadere nel baratro allorquando i lavori da lui sponsorizzati non verranno apprezzati, col collega Gauguin, estimatore prima e dopo rivale contrastante ed infine quello da ospedalizzato e redento nella chiesa, a seguito di feroci disagi emotivi, per una sorta di riabilitazione spirituale e collettiva.
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La fase introspettiva della vita di Van Gogh dopo le delusioni impressionistiche parigine viene portata sul grande schermo da Julian Schnabel, regista americano nonché pittore e perciò egli stesso disegnatore di numerosi affreschi presenti e primo fan del genio olandese, qui clonato fisicamente e psicologicamente in modo eccellente da Willem Dafoe, per l’occasione pure reale manovratore di pennelli su seta, premiato per ciò con la quarta nomination agli Oscar. La migrazione ad Arles per lavorare sugli estesi paesaggi che ne eleveranno poi il mito è ciò su cui si concentra la macchina da presa, ottenendo in cambio una magistrale trasposizione di tormenti d’animo da parte dell’attore, grandioso nell’impersonare i disagio dell’uomo, mentalmente solo ed isolato e all’esterno visto esclusivamente come pazzo asociale da scansare e ripudiare, diniego che ne comprometterà per sempre una psiche già di suo al limite della pazzia! Ad affiancarlo nelle tre fasi dell’arco narrativo la faranno da padrone il rapporto (l’unico) spontaneo, sincero ed affettuoso con suo fratello Theo, mendicante d’arte che inconsciamente lo farà cadere nel baratro allorquando i lavori da lui sponsorizzati non verranno apprezzati, col collega Gauguin, estimatore prima e dopo rivale contrastante ed infine quello da ospedalizzato e redento nella chiesa, a seguito di feroci disagi emotivi, per una sorta di riabilitazione spirituale e collettiva. E’ l’intensità recitativa di Dafoe a lasciare il segno in questa difficile pellicola, coadiuvato da due campioni del calibro di Oscar Isaac e Mads Mikkelsen, passionali al massimo nell’accoppiarsi al collega senza prevaricarlo, per mantenere i diktat del regista, e cioè lo scorrimento della trama a senso unitario, quello del tormentato pittore olandese. Il film perciò molto spesso fa fatica a restare acceso e fluido, perdendosi (volutamente?) nel limbo cerebrale che accompagna Van Gogh dall’inizio alla fine della sua povertà. E’questa una scelta precisa ma rischiosa di Schnabel, che preferisce così rendere iconico Vincent nelle molteplici perdizioni caratteriali durante il compimento delle proprie opere in cima a colline e nell’ampiezza della verde natura, partendo però da un determinato momento della sua esistenza, quando tutto è dunque compromesso. Ciò fa smarrire a chi segue la vera natura dell’uomo, disagiata non solamente per carenza di apprezzamenti artistici o rimbrotti bigotti dell’epoca (fine ‘800), che lo spinsero ad unirsi morbosamente a chi limitrofo, ma essenzialmente per un’infanzia già triste e “alternativa” di suo! Tutto segue questo mantra, partendo dalla deludente fotografia, illuminata al minimo per ergere a punto focale del racconto la depressione del protagonista, da costumi e scenografia low cost ed esageratamente indie e da una sceneggiatura lenta e silente, utile ad impennare l’eccellente recita improvvisata, tacita e visiva, ma perciò monotona, biografica ed esageratamente noiosa e dilatata! Belle invece le visite alla Grande Galerie del Louvre e le tele di Delacroix, Veronese e Frans Hals, perfettamente efficaci a rappresentare le radici creative dense e fiammeggianti del mito, e la discrezione a trattarne la morte, tuttora oggetto di incertezza e ambiguità!
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babalerio
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venerdì 18 gennaio 2019
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le intenzioni non fanno l'opera
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"Mamma, oggi voglio fare l'artista".
Questo sembra aver detto Shnabel, regista di "At Eternity's Gate" (in italiano: "Van Gogh - Sulla Soglia dell'Eternità"). E in questo slancio creativo di dubbio gusto ha dimenticato l'oggetto primo della sua comunicazione: il pubblico. Perché, che si tratti di tensione emotiva, che si tratti di vera ispirazione, che si tratti della più pratica realizzazione dell'opera, un dipinto è un dipinto e un film è un film. Due cose diverse, che il regista ha provato ad unire senza alcun successo a discapito di una visione, tranquilla o tormentata che si desiderasse, ma comunque godibile.
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"Mamma, oggi voglio fare l'artista".
Questo sembra aver detto Shnabel, regista di "At Eternity's Gate" (in italiano: "Van Gogh - Sulla Soglia dell'Eternità"). E in questo slancio creativo di dubbio gusto ha dimenticato l'oggetto primo della sua comunicazione: il pubblico. Perché, che si tratti di tensione emotiva, che si tratti di vera ispirazione, che si tratti della più pratica realizzazione dell'opera, un dipinto è un dipinto e un film è un film. Due cose diverse, che il regista ha provato ad unire senza alcun successo a discapito di una visione, tranquilla o tormentata che si desiderasse, ma comunque godibile.
C'è da lodarne la coerenza, o quantomeno la sfumatura di autoconferita epicità dietro quel climax ascendente di veloci e fastidiosi movimenti della telecamera che verso la fine della proiezione ti fanno ringraziare che il tempo scorra, i minuti passino e anche tu sfuggirai da quella sala senza praticare la ineducata ma onesta arte dell'uscire prima che il film finisca.
L'intento è chiaro: le pennellate veloci, i pensieri che si accavallano, una nevrosi violenta; il tutto tramutato in scelte registiche che vogliono apparire ben studiate ma che in fondo lasciano semplicemente trasparire un "voglio ma non posso" a caratteri cubitali.
Il problema è che lo slancio artistico del regista finisce per mettere in ombra persino l'interpretazione di un bravissimo Dafoe che con sguardi intensi, mentre la telecamera cambia angolazione trentasette volte in un secondo, ti tengono ben stretto a lui (unico reale motivo per andare a vedere il film). Cieli bruciati, messe a fuoco inesistenti in numerosissime inquadrature, uno strano e fastidioso filtro che dovrebbe caratterizzare il punto di vista di Van Gogh ma che appare semplicemente come una telecamera con una lente bifocale davanti e che ti lascia sorpreso i primi minuti e semplicemente infastidito per tutto il resto del tempo. Persino i dialoghi finiscono per essere assolutamente inesistenti quando la narrazione li richiederebbe a gran voce ed inutilmente predominanti quando poco sarebbero necessari, per completare un quadro di confusione e snervamento generale.
Infine la narrazione incompleta, dove un secondo prima Vincent e Paul parlano tranquillamente ed il secondo dopo il protagonista si taglia un orecchio, senza aver costruito mattone dopo mattone la solidità della loro amicizia, senza aver fatto percepire la crudele realtà di due caratteri così contrastanti tra due persone che nutrono l'uno nei confronti dell'altro un sincero affetto.
Nota di merito alla capacità di far ammirare i paesaggi, di evidenziare l'importanza del silenzio e dell'osservazione, forse un po' romanzata, ma comunque gradevole, vista nell'ottica del far trasparire le sfumature artistiche dell'anima dell'artista.
A voler tirare le conclusioni si potrebbe tranquillamente dire che le buone intenzioni si sono anche viste, ma non bastano. Del resto, se ci fossero solo quelle, il cinema non esisterebbe così come lo conosciamo.
Un pregio, quello di un regista-pittore? Non saprei, forse solo uno svantaggio dovuto alla convinzione di poter offrire un punto di vista alternativo e visionario che si scontra con il grande, imponente, solido muro della teoria di base per realizzare un film gradevole.
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raffaela
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lunedì 21 gennaio 2019
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mi ha un po' delusa
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Non mi è piaciuto il modo di raccontare Van Gogh, il film è incentrato più che altro sui disturbi psichici del protagonista. Le riprese spesso si focalizzano solo sul particolare, non dando la possibilità di apprezzare l'intera scena. Il movimento della camera è troppo esagitato e lo apprezzo solo nel momento in cui si focalizza sulla sua corsa nel campo di grano, perché dimostra cosa lui dipingeva e il motivo delle sue pennellate frettolose. La musica di sottofondo è prepotente, a tratti fastidiosa. Sono presenti intere scene dove l'unico suono proviene da un pianoforte e il protagonista non parla. Bella l'idea di raccontare la vita di un pittore geniale, ma il modo di narrare non rende il film piacevole.
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vittorio
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sabato 2 febbraio 2019
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bello se compreso nel tormento di van gogh
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L’ immersione nell’anima di Van Gogh si compie attraverso il contatto metafisico con la “sua”natura, con il movimento incessante, frenetico del corpo, che la telecamera a mano rende , a volte fastidiosamente ,altre meno, percettibile e vissuto dal telespettatore. I primi piani su ogni particolare , di natura, di oggetti, di volti, rendono la visione sezionata, intimista, più spesso avvertita all’unisono con l’immagine. Ed il mondo di Vincent diventa nostro, per piacere o per forza, in un ritmo incalzante nel senso, ma purtroppo lento nel dipanarsi registico.
Predisposti a compartecipare dello snodarsi visivo e simbolico, il film riesce bello e gradevole.
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L’ immersione nell’anima di Van Gogh si compie attraverso il contatto metafisico con la “sua”natura, con il movimento incessante, frenetico del corpo, che la telecamera a mano rende , a volte fastidiosamente ,altre meno, percettibile e vissuto dal telespettatore. I primi piani su ogni particolare , di natura, di oggetti, di volti, rendono la visione sezionata, intimista, più spesso avvertita all’unisono con l’immagine. Ed il mondo di Vincent diventa nostro, per piacere o per forza, in un ritmo incalzante nel senso, ma purtroppo lento nel dipanarsi registico.
Predisposti a compartecipare dello snodarsi visivo e simbolico, il film riesce bello e gradevole.
Da sottolineare , le interpretazioni non soltanto del magnifico, scultoreo Dafoe, ma anche di tutti i coprotagonisti che di volta in volta con lui interloquiscono nel dialogo alla ricerca della comprensione di se. Dal fratello Theo( Rupert Friend) a Paul Gauguin (Oscar Isaac) alla sempre magnetica Emmanuelle Seigner con Madame Ginoux ed ai magnifici Niels Arestrup e Mads Mikkelsen rispettivamente del paziente dell’ospedale psichiatrico e del prete.
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gabriella
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martedì 12 febbraio 2019
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tra il grano e il cielo
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Julian Shnabel, pittore a regista , racconta la breve vita di un genio, uno dei più amati ed apprezzati artisti di tutti i tempi ,Vincent Van Gogh, concentrandosi nella fase finale della sua esistenza, forse la più tormentata, ma anche la più produttiva. Dopo gli anni olandesi, la Francia, l'incontro con gli impressionisti e i post impressionisti, lo troviamo ad Arles, nell’assolata Provenza, dove per un periodo divide l'alloggio con il suo amico Gauguain, la Casa Gialla, una convivenza che si rivelerà però problematica per molti aspetti, sia per caratteri radicalmente diversi e in conflitto tra loro, sia per i continui sbalzi d'umore di Vincent ,per cui, dopo solo nove mesi, il pittore francese scappa a Parigi.
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Julian Shnabel, pittore a regista , racconta la breve vita di un genio, uno dei più amati ed apprezzati artisti di tutti i tempi ,Vincent Van Gogh, concentrandosi nella fase finale della sua esistenza, forse la più tormentata, ma anche la più produttiva. Dopo gli anni olandesi, la Francia, l'incontro con gli impressionisti e i post impressionisti, lo troviamo ad Arles, nell’assolata Provenza, dove per un periodo divide l'alloggio con il suo amico Gauguain, la Casa Gialla, una convivenza che si rivelerà però problematica per molti aspetti, sia per caratteri radicalmente diversi e in conflitto tra loro, sia per i continui sbalzi d'umore di Vincent ,per cui, dopo solo nove mesi, il pittore francese scappa a Parigi. Amareggiato, sopraffatto da un turbinio emotivo che sfocerà poi in pazzia, Vincent si mutila un orecchio. Trascorrerà un periodo in un ospedale psichiatrico a Saint Remy, gli saranno di conforto le rare visite e le numerosissime lettere del fratello Theo con il quale ha un legame molto profondo , il suo fedele alleato la calma del suo sfacelo. Il regista si sofferma principalmente sul rapporto tra ll’uomo e la natura, nella sua totalizzante immersione; affamato di luce e colore, l’urgenza di mettere su tela le sue pennellate veloci, dense, pastose, , i caratteristici piccoli tratti, la febbrile ricerca di i luce che sconfina in gialli accecanti, caldi,di chi ha un grande fuoco nell’anima, ma, come scriveva al fratello, nessuno viene mai a scaldarsi, i passanti ne scorgono un po' dsi fumo in cima al comignolo e se ne vanno per la loro strada. Vincent attende il momento in cui qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco e si fermerà, ma è consapevole di appartenere a una generazione che verrà.In inquadrature sghembe, quasi statiche, ossessive e disturbanti, opppure in immagini sfocate, in contrasto con la vibrante percezione della voce della natura, la sua finestra di infinito, rendono il film non sempre godibile, distoglie cioè da quella sensazione di sintonia che si ha solitamente quando si ammira un’opera d’arte. William Dafoe, nonostante la notevole differenza d’età dal personaggio che interpreta, è intenso e convincente con il suo viso solcato da rughe , ma non riesce a condurci, a introdurci nella sua visione di mondo, si rimane in disparte, anche noi in attesa di scorgere qualcosa in più del fumo del comignolo.
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great steven
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sabato 27 aprile 2019
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il travaglio a colori del pittore disturbato.
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VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL'ETERNITà (USA/FR, 2018) diretto da JULIAN SCHNABEL. Interpretato da WILLEM DAFOE, RUPERT FRIEND, MATHIEU AMALRIC, MADS MIKKELSEN, EMMANUELLE SEIGNER, OSCAR ISAAC, VLADIMIR CONSIGNY, STELLA SCHNABEL, NIELS ARESTRUP, AMIRA CASAR
Vincent Van Gogh, dopo un’esperienza parigina che non gli frutta la medesima fortuna che all’epoca (fine anni 1880) ebbero gli Impressionisti, si reca ad Arles, paesino francese di campagna ideale per dipingere gli ampi paesaggi da lui amati. Gli abitanti, però, lo considerano un deviante e lo maltrattano provocandogli nell’animo irrequieto reazioni impulsive. Durante i ricoveri in ospedale, il fratello minore Theo, unica persona al mondo che comprende il pittore e crede nelle sue capacità artistiche, gli consiglia di farsi spedire le opere a Parigi, cosicché lui, stimato mercante d’arte, le possa vendere.
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VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL'ETERNITà (USA/FR, 2018) diretto da JULIAN SCHNABEL. Interpretato da WILLEM DAFOE, RUPERT FRIEND, MATHIEU AMALRIC, MADS MIKKELSEN, EMMANUELLE SEIGNER, OSCAR ISAAC, VLADIMIR CONSIGNY, STELLA SCHNABEL, NIELS ARESTRUP, AMIRA CASAR
Vincent Van Gogh, dopo un’esperienza parigina che non gli frutta la medesima fortuna che all’epoca (fine anni 1880) ebbero gli Impressionisti, si reca ad Arles, paesino francese di campagna ideale per dipingere gli ampi paesaggi da lui amati. Gli abitanti, però, lo considerano un deviante e lo maltrattano provocandogli nell’animo irrequieto reazioni impulsive. Durante i ricoveri in ospedale, il fratello minore Theo, unica persona al mondo che comprende il pittore e crede nelle sue capacità artistiche, gli consiglia di farsi spedire le opere a Parigi, cosicché lui, stimato mercante d’arte, le possa vendere. Ma neanche questo funziona: i quadri di Vincent non riscuotono successo e lui continua a vivere da povero ad Arles, dove fa la conoscenza di Madame Ginoux, procace tenutaria di un’osteria, alla quale dedica, all’insaputa di lei, un intero quaderno di acquerelli. Theo convince il pittore francese Paul Gauguin a dividere un appartamento col fratello maggiore, proponendogli lo stesso contratto offerto a Vincent, in modo che Gauguin possa ricavare da quella convivenza in affitto il denaro occorrente per partire alla volta della Martinica. Gauguin accetta e Vincent è ben lieto di avere accanto a sé un collega che adora, ma il rapporto fra i due è complicato dal fatto che il francese disprezza il mondo di dipingere di Vincent e che quest’ultimo continua a comportarsi in modo irrazionale e nervoso di fronte anche a queste intemperanze. Va a finire che Paul lo abbandona e Vincent, disperatamente solo, si mozza il lobo d’un orecchio e, in seguito a questa autolesione, decide di farsi ricoverare nel manicomio di Saint-Rémy. Lui prova a spiegare ai medici che lo assistono e ad un prete che si apre a lui (ma in maniera non troppo cordiale) il motivo che lo spinge ad esternare il suo mondo interiore mediante la pittura. Successivamente, poiché a livello clinico sembra guarito, Vincent va a vivere ad Auvers-sur-Oise, ospite del dottor Paul-Ferdinand Gachet, per cui realizza un ritratto, finché un pomeriggio un colpo di pistola inferto al ventre gli toglie la vita a soli trentasette anni. Ennesimo film sul pittore più controverso, ammirato, incompreso e discusso di ogni epoca, lo si potrebbe credere, prima di entrare in sala a vederlo (perché merita assolutamente d’essere visto in sala), una biografia con un andamento più rapido e denotato da un minor ammasso di psicologia, mentre si presenta come un’opera finemente concentrata sull’obiettivo di una rappresentazione scenica imperniata sulla coralità della mente di Van Gogh e, al tempo stesso, una spiegazione sintetica ma efficace della sua arte, intesa, come traspare dai dialoghi, quale suo unico sistema di sopravvivere. Dafoe, premiato con la Coppa Volpi a Venezia 2018, gli dà l’acqua della vita parlando spesso a mezza voce e gettando nel vuoto sguardi trasognati, cosicché il suo protagonista dai capelli rossi e il volto precocemente invecchiato risulti la conseguenza di un cervello alienato che va in cerca di comprensione umana trovando soltanto rifiuti sdegnosi e senza raccogliere mai un cenno di apprezzamento sul proprio repertorio. Una cosa che però il film di J. Schnabel non sottolinea – e in ciò ha un torto piuttosto riprovevole – è l’abilità che ebbe Van Gogh nella scrittura: è vero che il mito del pittore pazzo ha da sempre affascinato migliaia di critici e semplici appassionati d’arte, ma più che darvi retta ciecamente, sarebbe più educativo far leva su quel carteggio epistolare che per moltissimi anni Vincent intrattenne con Theo, carteggio denso di un talento letterario davvero stupefacente, forse addirittura migliore nel descrivere la sua personalità tormentata che non i colori accesi e intensi dei quadri. Dopotutto, nell’intimo profondo, Vincent fu un osservatore poco attento e più che altro meditabondo sui propri pensieri, le cui riflessioni andavano sovente a una sorta di autarchia psicoanalitica di vedere ciò che disegnava, il che non corrispondeva con troppa aderenza alla realtà, ma costituiva una triste fuoriuscita di un sentimento brutalmente ferito: invece, le emozioni che trasudano con coraggio dalle lettere rivelano (e in parte la pellicola lo dimostra nei monologhi a schermo buio) un caleidoscopio interiore molto sincero in merito alle cose che si guardano ogni giorno, alle persone che si conoscono approfondendone il linguaggio espressivo e alla natura che in ogni senso sputa fuori un senso relativo a come è fatta. Schnabel, insieme ai co-sceneggiatori Louise Kugelberg e Jean-Claude Carrière, gli restituisce dignità senza drammatizzarne il mesto itinerario, sbagliando solo nel finale in cui avvalora la tesi ben poco credibile che, a ucciderlo, fossero stati senza volerlo due ragazzini con inclinazioni delinquenziali, di cui uno armato di rivoltella. Quanto agli altri attori, spiccano E. Séigner con la sua Madame Ginoux col suo sguardo contemplativo, M. Amalric (peccato per il suo ruolo, ridotto a poco più di un cameo) nei panni del dott. Gachet, O. Isaac nelle vesti di un Gauguin fascinoso e inflessibile sulle metodologie lavorative e M. Mikkelsen col suo sacerdote ottuso. Menzione speciale per un formidabile R. Friend che recita Theodorus Van Gogh con un trasporto affettivo eccellente, dimostrando quanto i due fratelli si volessero bene al di là del rapporto di parentela, ma proprio e principalmente per la vicendevole fiducia. Contribuiscono a renderlo un prodotto di buon artigianato, nonostante le sue numerose imperfezioni, la fotografia di Benoît Delhomme e gli effetti speciali di Thibaut Granier. Dedicato allo stilista tunisino Azzedine Alaïa. Di forte pregio la cura ambientale, assai meno incisiva l’amarezza di fondo che lascia al termine della proiezione (virata con destrezza scaltra verso un involontario compatimento). Distribuito in Italia da Lucky Red.
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