flyanto
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giovedì 3 maggio 2018
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due generazioni a confronto
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"Wajib - Invito al Matrimonio" della regista Annemarie Jacir racconta, appunto, l'usanza palestinese dello 'Wajib' di portare personalmente nelle case degli invitati la partecipazione di nozze con relativo invito. Ed è quello che in due giornate fanno in occasione del matrimonio della figlia/sorella un padre ed un figlio ritornato a Nazareth dall'Italia dove è emigrato. Questa sarà per loro anche, se non soprattutto, l'occasione per confrontarsi, litigare e riappacificarsi, accettandosi reciprocamente, pur avendo entrambi, per generazione differente, mentalità diverse.
Candidato meritatamente quest'anno all'Oscar come miglior film straniero, "Wajib - Invito al Matrimonio" riesce bene a rappresentare la situazione di disagio nonchè di insofferenza nei confronti degli israeliani da parte dei palestinesi cristiani residenti a Nazareth oltre, come sopra già accennato, la diversa concezione di vita e di idee dei due protagonisti, padre e figlio.
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"Wajib - Invito al Matrimonio" della regista Annemarie Jacir racconta, appunto, l'usanza palestinese dello 'Wajib' di portare personalmente nelle case degli invitati la partecipazione di nozze con relativo invito. Ed è quello che in due giornate fanno in occasione del matrimonio della figlia/sorella un padre ed un figlio ritornato a Nazareth dall'Italia dove è emigrato. Questa sarà per loro anche, se non soprattutto, l'occasione per confrontarsi, litigare e riappacificarsi, accettandosi reciprocamente, pur avendo entrambi, per generazione differente, mentalità diverse.
Candidato meritatamente quest'anno all'Oscar come miglior film straniero, "Wajib - Invito al Matrimonio" riesce bene a rappresentare la situazione di disagio nonchè di insofferenza nei confronti degli israeliani da parte dei palestinesi cristiani residenti a Nazareth oltre, come sopra già accennato, la diversa concezione di vita e di idee dei due protagonisti, padre e figlio. Di generazione differente, con esperienze di vita diverse si evince, infatti, sin dall'inizio del film l'opposta concezione dei due uomini in questione: il padre, palestinese, ormai anziano, stimato professore ormai in pensione, con un'educazione tradizionale e pertanto assai legato ancora alla propria Terra d'origine, Israele, di cui non approva certamente la situazione politica e svariate situazioni in generale ma che egli riesce ben a sopportare proprio grazie a questo amore immenso e profondo che lo lega ad essa; il figlio, architetto, anch'egli palestinese, appartenente ovviamente alla generazione più giovane e dunque più insofferente e ribelle alla situazione politica e sociale sancita dagli Israeliani nella sua Terra d'origine, che preferisce vivere in esilio in un paese straniero, l'Italia appunto. Due ritratti mirabili di uomini che, pur mantenendo ognuno la propria ideologia, alla fine, però, riescono ad incontrarsi ed a superare ogni avversità perchè in fondo appartenenti alla stessa famiglia. allo stesso ceppo come anche alla stessa amata/odiata Terra d'origine. Delicato, sensibile, profondo questa pellicola riesce bene ed anche in maniera originale con un contesto privato a rappresentare il conflitto esistente tra Palestinesi ed Israeliani, consegnando allo spettatore un'opera veramente poetica ed unica su cui anche riflettere ed emozionarsi.
Del tutto consigliabile.
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vanessa zarastro
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lunedì 30 luglio 2018
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differenze e identità
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Siamo a Nazareth ai tempi di oggi, in prossimità del Natale. È imminente il matrimonio di Amal e suo fratello Shabi, che fa l’architetto e vive in Italia, torna a casa per l’evento ad aiutare il padre Abu Shadi, un insegnante di scuola sessantenne, per organizzare la festa. La madre non vive più lì perché anni prima si era innamorata di un altro uomo e l’aveva seguito in America.
“Wajib” vuol dire circa “dovere sociale” e la tradizione della Palestina settentrionale vuole che gli inviti vengano recapitati a mano dai maschi della famiglia e che ogni invitato sia contattato personalmente in modo che la sua presenza appaia di grande importanza.
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Siamo a Nazareth ai tempi di oggi, in prossimità del Natale. È imminente il matrimonio di Amal e suo fratello Shabi, che fa l’architetto e vive in Italia, torna a casa per l’evento ad aiutare il padre Abu Shadi, un insegnante di scuola sessantenne, per organizzare la festa. La madre non vive più lì perché anni prima si era innamorata di un altro uomo e l’aveva seguito in America.
“Wajib” vuol dire circa “dovere sociale” e la tradizione della Palestina settentrionale vuole che gli inviti vengano recapitati a mano dai maschi della famiglia e che ogni invitato sia contattato personalmente in modo che la sua presenza appaia di grande importanza.
Il film si svolge quasi tutto in auto, una vecchissima Volvo, lungo l’arco di una giornata. Nei discorsi tra padre e figlio (i bravissimi Mohammad Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita) e negli incontri con parenti e amici, si evince tutta la differenza che passa tra due generazioni: quella più giovane non è più attaccata alle tradizioni, è più coraggiosa – nel bene e nel male - vuole affrontare le cose e prende di petto la vita; l’altra, quella più anziana, invece ha dovuto affinare l’arte della mediazione, ad esempio Abu Shadi ha dovuto tirare su due figli dopo essere stato abbandonato dalla moglie. Inoltre, ha dovuto fare i conti con le scuole palestinesi monitorate dagli “Ispettori di conoscenza” che lavorano per il Ministero dell’Istruzione Israeliano. Diventerà un litigio tra padre e figlio consegnare l’invito a Robbie, uno dei controllori che, però, potrebbe essere cruciale nella nomina di Abu Shadi, a Preside della scuola.
Shabi a Nazareth si sente soffocare, una volta gestiva un cineclub, ma i film erano troppo politicizzati e l’attività è stata considerata sovversiva. Avendo studiato all’esterno e in particolare architettura, è particolarmente sensibile nei confronti del degrado, nota la sporcizia e la totale mancanza di gusto per il bello. Il padre lo considera un po’ uno un po’ snob che non ha dovuto rimboccarsi le maniche.
Abu Shadi non è un uomo particolarmente coraggioso, lo si deduce nel momento che investe casualmente un cagnolino bianco, sicuramente di ebrei israeliani e, preso da un attacco di vigliaccheria, scappa senza prestargli soccorso sotto gli occhi allibiti del figlio (che comunque non lo ferma…).
Nazareth è una città palestinese nello Stato di Israele, tutte salite e discese, dove le case non hanno ascensori, una città super-costruita in modo disordinato senza piano regolatore. Non ci sono marciapiedi, niente distacchi tra gli edifici. Si parcheggia davanti ai bidoni dell’immondizia strapieni. Solo per un attimo i due protagonisti si allontanano dal centro, attraversano case prefabbricate e arrivano in una zona residenziale verde dove si presume vivano gli israeliani ebrei. Gli abitanti di Nazareth sono per lo più arabi di cui 68% musulmani e il 38% cristiani. In tutto il film quello che emerge è la ricerca di una “normalità”: una fascia di piccola borghesia illuminata, minoranza arabo-cristiana, si sforza di dare una decoroso matrimonio alla figlia, rispettosa delle tradizioni che aiutano a riconoscerne l’identità, in un contesto che tende a oscurargliela. Una sopravvivenza faticosa tra un orgoglio, un compromesso, un laisser-faire e quant’altro. Annemarie Jacirb, al suo terzo lungometraggio, fa intuire tutto questo filtrato attraverso le dinamiche della famiglia e dei suoi rapporti sociali. La regista ha diretto il film con molto garbo, senza mai sovrastare la storia con la regia, aiutata sicuramente dalla coppia straordinaria di attori, alludendo ai problemi politici e sociali senza mai renderli espliciti. Mostra anche un velo di ironia, attraverso i volti, i dettagli kitsc,h come ad esempio gli abiti da sposa, l’errore di stampa del giorno delle nozze e così via.
Il film è stato selezionato per rappresentare la Palestina ai premi Oscar 2018, ma non è entrato nella decina finale, ha invece vinto vari premi in Festival Internazionali di Locarno, Dubai, Londra e Mar del Plata.
Così la regista ha raccontato al Festival di Locarno 2017: «In Palestina esiste una tradizione di notevole importanza anche per i giovani d’oggi. Quando qualcuno si sposa, gli uomini della famiglia – solitamente il padre e i figli maschi –sono tenuti a consegnare personalmente le partecipazioni a ciascun invitato. Non è prevista alcuna spedizione o consegna per interposta persona. Non consegnare gli inviti di persona è considerato irrispettoso…Quando la sorella di mio marito si è sposata, è toccato a lui e a suo padre il “dovere sociale” di consegnare gli inviti, impiegando cinque giorni ad attraversare la città e i villaggi vicini per portare a termine il compito. Osservandoli in silenzio, mi sono accorta di come la cosa fosse a volte divertente e a volte dolorosa. Anche non volendo, durante il tempo trascorso insieme da padre e figlio, sono emersi gli aspetti speciali del loro legame ma anche delle tensioni che hanno testato il loro volersi bene. Dopo quei giorni, ho cominciato a lavorare all’idea di un film sulla fragile relazione padre-figlio e sul costume tutto palestinese degli inviti».
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flyanto
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giovedì 3 maggio 2018
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due generazioni a confronto
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"Wajib - Invito al Matrimonio" della regista Annemarie Jacir racconta, appunto, l'usanza palestinese dello 'Wajib' di portare personalmente nelle case degli invitati la partecipazione di nozze con relativo invito. Ed è quello che in due giornate fanno in occasione del matrimonio della figlia/sorella un padre ed un figlio ritornato a Nazareth dall'Italia dove è emigrato. Questa sarà per loro anche, se non soprattutto, l'occasione per confrontarsi, litigare e riappacificarsi, accettandosi reciprocamente, pur avendo entrambi, per generazione differente, mentalità diverse.
Candidato meritatamente quest'anno all'Oscar come miglior film straniero, "Wajib - Invito al Matrimonio" riesce bene a rappresentare la situazione di disagio nonchè di insofferenza nei confronti degli israeliani da parte dei palestinesi cristiani residenti a Nazareth oltre, come sopra già accennato, la diversa concezione di vita e di idee dei due protagonisti, padre e figlio.
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"Wajib - Invito al Matrimonio" della regista Annemarie Jacir racconta, appunto, l'usanza palestinese dello 'Wajib' di portare personalmente nelle case degli invitati la partecipazione di nozze con relativo invito. Ed è quello che in due giornate fanno in occasione del matrimonio della figlia/sorella un padre ed un figlio ritornato a Nazareth dall'Italia dove è emigrato. Questa sarà per loro anche, se non soprattutto, l'occasione per confrontarsi, litigare e riappacificarsi, accettandosi reciprocamente, pur avendo entrambi, per generazione differente, mentalità diverse.
Candidato meritatamente quest'anno all'Oscar come miglior film straniero, "Wajib - Invito al Matrimonio" riesce bene a rappresentare la situazione di disagio nonchè di insofferenza nei confronti degli israeliani da parte dei palestinesi cristiani residenti a Nazareth oltre, come sopra già accennato, la diversa concezione di vita e di idee dei due protagonisti, padre e figlio. Di generazione differente, con esperienze di vita diverse si evince, infatti, sin dall'inizio del film l'opposta concezione dei due uomini in questione: il padre, palestinese, ormai anziano, stimato professore ormai in pensione, con un'educazione tradizionale e pertanto assai legato ancora alla propria Terra d'origine, Israele, di cui non approva certamente la situazione politica e svariate situazioni in generale ma che egli riesce ben a sopportare proprio grazie a questo amore immenso e profondo che lo lega ad essa; il figlio, architetto, anch'egli palestinese, appartenente ovviamente alla generazione più giovane e dunque più insofferente e ribelle alla situazione politica e sociale sancita dagli Israeliani nella sua Terra d'origine, che preferisce vivere in esilio in un paese straniero, l'Italia appunto. Due ritratti mirabili di uomini che, pur mantenendo ognuno la propria ideologia, alla fine, però, riescono ad incontrarsi ed a superare ogni avversità perchè in fondo appartenenti alla stessa famiglia. allo stesso ceppo come anche alla stessa amata/odiata Terra d'origine. Delicato, sensibile, profondo questa pellicola riesce bene ed anche in maniera originale con un contesto privato a rappresentare il conflitto esistente tra Palestinesi ed Israeliani, consegnando allo spettatore un'opera veramente poetica ed unica su cui anche riflettere ed emozionarsi.
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michelecamero
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venerdì 27 luglio 2018
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bellissimi dialoghi generazionali
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Film ambientato e girato a Nazareth dove è rimasto a vivere un anziano professore di religione cristiana, divorziato da una moglie che lo aveva abbandonato con due figli piccoli, un maschio ed una femmina, preferendo fuggire negli Stati Uniti con il nuovo compagno poiché, come dirà nel corso della narrazione cinematografica il figlio, “voleva di più” rispetto alla vita che le particolari contingenze storiche, le avrebbero consentito in quella terra martoriata. L'occasione del matrimonio della figlia Amal e il rispetto della tradizione palestinese che vuole da parte dei familiari, un personale peregrinaggio presso le dimore degli invitati alle nozze allo scopo di consegnar loro l’invito, fa tornare da Roma dove nel frattempo è diventato architetto, lavora e convive con una ragazza palestinese figlia di un esponente dell’OLP in esilio, il figlio Shadi.
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Film ambientato e girato a Nazareth dove è rimasto a vivere un anziano professore di religione cristiana, divorziato da una moglie che lo aveva abbandonato con due figli piccoli, un maschio ed una femmina, preferendo fuggire negli Stati Uniti con il nuovo compagno poiché, come dirà nel corso della narrazione cinematografica il figlio, “voleva di più” rispetto alla vita che le particolari contingenze storiche, le avrebbero consentito in quella terra martoriata. L'occasione del matrimonio della figlia Amal e il rispetto della tradizione palestinese che vuole da parte dei familiari, un personale peregrinaggio presso le dimore degli invitati alle nozze allo scopo di consegnar loro l’invito, fa tornare da Roma dove nel frattempo è diventato architetto, lavora e convive con una ragazza palestinese figlia di un esponente dell’OLP in esilio, il figlio Shadi. Il film inizia e si concentra qui, in questo confronto bellissimo tra padre e figlio, che conosce almeno tre momenti di grande cinema riscontrabili in altrettanti dialoghi tra i due, fra una generazione e la successiva, un modo di vivere la propria vita adattandosi alle circostanze, ma anche subendole, e l’altro, ribellandosi attraverso la propria fuga all’estero. Questo confronto occupa in pratica tutta la scena vissuta soprattutto all’interno di una vecchia Volvo utilizzata per spostarsi all’interno della città che sarebbe bellissima se fosse più curata, meno sporca, più orgogliosamente attenta a se stessa, tutte cose visibilissime all’occhio di chi ritorna, invisibili a quello di chi restando vi si è così adattato, o forse rassegnato, da non accorgersene neppure. I due forse non se ne rendono conto, ma entrambi covano al proprio interno una propria insoddisfazione che conosce forme diverse ma non proprio inconciliabili come evidenziato dalla scena finale in cui, forse prendendo atto ambedue di avere sia torto che ragione, sembra che, facendosi reciproche concessioni, venendosi incontro, i due, comunque entrambi insoddisfatti, abbiano imparato a parlarsi avvicinati dal sentimento e dal reciproco rispetto. Il film merita di essere visto.
michelecamero
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fabiofeli
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sabato 28 aprile 2018
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mentre cala la sera a nazareth
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Il Wajib è una tradizione palestinese: gli inviti al matrimonio di una giovane donna di casa li portano personalmente a casa degli invitati il padre e, se ci sono, i fratelli maschi della ragazza. Siamo a Nazareth, caotica città nella quale vivono molti palestinesi che dal 1948 hanno dovuto prendere la cittadinanza dello stato di Israele. Il 60% dei palestinesi residenti è mussulmano, mentre l’altro 40% è cristiano. Abu Shadi (Mohammed Bakri) e Shadi (Saleh Bakri) sono il padre ed il fratello di Amal (Maria Zreik) e spetta a loro portare a mano, a bordo della vecchia Volvo, il wajib a tutti gli invitati.
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Il Wajib è una tradizione palestinese: gli inviti al matrimonio di una giovane donna di casa li portano personalmente a casa degli invitati il padre e, se ci sono, i fratelli maschi della ragazza. Siamo a Nazareth, caotica città nella quale vivono molti palestinesi che dal 1948 hanno dovuto prendere la cittadinanza dello stato di Israele. Il 60% dei palestinesi residenti è mussulmano, mentre l’altro 40% è cristiano. Abu Shadi (Mohammed Bakri) e Shadi (Saleh Bakri) sono il padre ed il fratello di Amal (Maria Zreik) e spetta a loro portare a mano, a bordo della vecchia Volvo, il wajib a tutti gli invitati. Abu è insegnante e spera di diventare preside alla fine della carriera; per questo si sente in dovere di invitare anche un uomo che è notoriamente una spia che fornisce informazioni agli israeliani sugli orientamenti politici dei conterranei. Shadi non è d’accordo; è emigrato in Italia dove è diventato architetto, quando la madre ha abbandonato suo padre per divorziare e sposare un uomo negli Stati Uniti. Mentre consegnano gli inviti nelle case è impossibile rifiutare l’offerta di bevande e dolci; padre e figlio rifiutano soltanto le sigarette che tutti fumano copiosamente: Abu, infatti, ha mentito al figlio dicendo che non fuma più dopo i gravi problemi al cuore e Shadi ha mentito al padre per non fumare in sua presenza. I due hanno appuntamento con Amal per consigliarla sulla scelta dell’abito nuziale. Ma sulla cerimonia c’è una nuvola temporalesca: forse la madre di Amal e Shadi non potrà presenziare alla festa del matrimonio, perché il suo attuale marito è gravemente malato ed è in pericolo di vita …
Annemarie Jacir è una regista palestinese di 44 anni, con alcune buone prove alle spalle. E’ anche scrittrice, poetessa e sceneggiatrice. Ha un modo di filmare, un linguaggio cinematografico estremamente maturo: le scene si susseguono con ritmo serrato e spesso le parole del dialogo dell’azione precedente prefigurano l’azione successiva. Si riesce a capire anche quali siano le difficoltà della vita di un palestinese di Nazareth, per giunta di confessione cristiana, come sono i due personaggi principali, padre e figlio anche nella vita. E’ chiaro che la situazione politica influisce pesantemente sulle vite dei residenti, ma anche le tradizioni di un popolo sembrano spesso poco sensate a chi vive in una realtà diversa, lontana mille miglia da Nazareth. Abu e Shadi si scontrano continuamente: sui pantaloni rossi e la camicia a fiori violetta, che Shadi, con i lunghi capelli raccolti a crocchio sulla nuca, indossa con naturalezza. Oppure sul fatto che Abu giudica “strano” un giovane omosessuale. O infine sul cantante scelto per la cerimonia che a Shadi proprio non va giù. E poi, soprattutto, sul delatore-spia. Saremmo subito a fianco di Shadi, istintivamente, dalla parte dell’OLP, parte oppressa, quella dei filistei (Philistini=Palestini) che dovrebbero morire tutti con Sansone nel tempio che crolla. E invece no: devono vivere tutti, Sansone e i Filistei, in pace ed uguali, come affermano Amos Gitai in a Ovest di Gaza e David Grossmann nell’articolo apparso su Repubblica di un paio di giorni fa. Non ci sentiamo lontani da Abu, quando abbraccia la figlia Amal approvando la sua scelta sull’abito da sposa rosa, perché l’abito deve piacere soprattutto a lei. E la distanza da Abu si riduce ancora quando Shadi tratta male il padre e torna a casa da solo. Abu arriva a casa, capisce che c’è Shadi che per riconciliarsi ha preparato il te per loro due: tira fuori una sigaretta per tutti e due – un lusso proibito e dannoso, ma che importa? -, mentre la sera cala su Nazareth e ristabilisce il contatto tra padre e figlio. Il tendone verde di plastica – ammette Abu - per nascondere i serbatoi di plastica di acqua durante la festa di matrimonio di Amal è proprio orrendo, come sostiene Shadi. Come si fa a non applaudire il finale di un film che muove spesso al riso e sa commuovere alle lacrime, mentre scende una sera serena su padre e figlio a Nazareth? Non mancatelo.
Valutazione ****
FabioFeli
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carlosantoni
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domenica 6 maggio 2018
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la palestina nel confronto tra un padre e un figli
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Trovo la recensione di Francesca Ferri così puntuale e convincente che potrei astenermi da aggiungere alcunché. Se invece mi provo a dire qualcosa, è per cercare di rendere onore, seppure solo con qualche impressione modesta, a un film intelligente, sensibile e proprio ben fatto.
Un aspetto che potrebbe sembrare secondario o peggio ancora casuale, ma credo proprio non lo sia, è che chi interpreta i ruoli di padre e figlio, Abu Shadi e Shadi, siano davvero padre e figlio nella vita: Mohammad Bakri e Saled Bakri,. Un po’ come in E.W.S. di Kubrick, dove i coniugi Bill e Alice sono interpretati dai realmente coniugi Cruise e Kidman. È sicuramente una scelta stilistica e contenutistica voluta dalla regista Annemarie Jacir: due uomini, padre e figlio in carne ed ossa, che interpretano più o meno se stessi, ovvero le loro diverse generazioni, con i relativamente diversi modi di affrontare la dura realtà del servaggio palestinese in terra sionista.
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Trovo la recensione di Francesca Ferri così puntuale e convincente che potrei astenermi da aggiungere alcunché. Se invece mi provo a dire qualcosa, è per cercare di rendere onore, seppure solo con qualche impressione modesta, a un film intelligente, sensibile e proprio ben fatto.
Un aspetto che potrebbe sembrare secondario o peggio ancora casuale, ma credo proprio non lo sia, è che chi interpreta i ruoli di padre e figlio, Abu Shadi e Shadi, siano davvero padre e figlio nella vita: Mohammad Bakri e Saled Bakri,. Un po’ come in E.W.S. di Kubrick, dove i coniugi Bill e Alice sono interpretati dai realmente coniugi Cruise e Kidman. È sicuramente una scelta stilistica e contenutistica voluta dalla regista Annemarie Jacir: due uomini, padre e figlio in carne ed ossa, che interpretano più o meno se stessi, ovvero le loro diverse generazioni, con i relativamente diversi modi di affrontare la dura realtà del servaggio palestinese in terra sionista. Che dura resta anche per quei palestinesi che, come nel nostro caso, appartengono ad una classe sociale decisamente agiata.
Ciò che rende il film sapiente, denso e leggero allo stesso tempo, è che si parla di questo servaggio, di questa apartheid, e se ne mostrano abbastanza i termini, senza far ricorso al confronto-scontro diretto tra palestinesi e sionisti, ma giovandosi di allusioni, di commenti indiretti. Non a caso il film inizia con un elenco radiofonico di necrologi, officiati secondo le diverse religioni dei defunti: come a dire che questa di Palestina, in terra dominata da Israele, dovrebbe essere terra di tutti. Lo è soltanto la terra per la sepoltura. Poi si vede un’enorme stella di David troneggiare sul panorama della città vista dall’alto, poi bandiere con i colori d’Israele. Il dominio bianco-azzurro è assoluto. Poi due soldati con la divisa israeliana seduti in un barrino arabo: la loro presenza suona offesa, provocazione agli occhi di Shadi, ma il fatto è che in quel locale si può gustare un ottimo falafel, come gli rivela suo padre, quasi per scusarsi della loro fastidiosa presenza. Poi si apprende che ai cittadini israeliani di etnia araba non è permesso di poter fare i piloti, secondo la rigida legge dell’apartheid sionista. Poi che è pericoloso esternare opinioni antisioniste su Facebook: si è facilmente arrestati. Poi che un professore deve asservirsi all’ideologia di regime se vuol continuare a fare il prof.
La descrizione è quella di una prigione a cielo aperto, di un razzismo “democratico” che si erige a stato totalitario, e come tale la popolazione araba è costretta a subirlo. A tutto ciò fa riscontro la prosopopea di quadri dell’ANP “(quella dei “gloriosi anni ‘50”, come commenta sarcastica la cugina di Shadi) ora imborghesiti e imboscati, che fanno la bella vita all’estero. C’è perfino una bella, doverosa espressione di omaggio e riconoscenza a Mawhan Barghuthi, eroico combattente palestinese, segregato nelle galere sioniste dal 2002.
Un film che racconta con sapiente ironia il dramma di un popolo delle cui sofferenze inenarrabili tutti noi più o meno facciamo fatica a ricordarci.
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rabbit58
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mercoledì 2 maggio 2018
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parziale
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Film deludente. Scarsa l'introspezione dei personaggi anche se le tematiche accennate sono senza dubbio importanti. Non c'è alcun cenno esplicito all'appartenenza religiosa nè questa sembra entrare nelle vite dei personaggi se non come folklore natalizio. L'unica presenza religiosa, in una città come Nazareth piena di chiese e di conventi, è un prete ortodosso al quale il protagonista mostra l'indice in segno di disprezzo. Manca del tutto l'elemento costituito dal rapporto spesso estremamente difficile con i musulmani ossia un elemento, al contrario, costantemente presente in una città (e non è l'unica: si pensi a Betlemme) in cui il radicalismo islamico tende costantemente a riemergere per sottomettere i cristiani (non molto tempo fa gli islamici avevano manifestato l'intenzione di erigere pretestuosamente una moschea con un minareto che sovrastasse la cupola della basilica della Natività).
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Film deludente. Scarsa l'introspezione dei personaggi anche se le tematiche accennate sono senza dubbio importanti. Non c'è alcun cenno esplicito all'appartenenza religiosa nè questa sembra entrare nelle vite dei personaggi se non come folklore natalizio. L'unica presenza religiosa, in una città come Nazareth piena di chiese e di conventi, è un prete ortodosso al quale il protagonista mostra l'indice in segno di disprezzo. Manca del tutto l'elemento costituito dal rapporto spesso estremamente difficile con i musulmani ossia un elemento, al contrario, costantemente presente in una città (e non è l'unica: si pensi a Betlemme) in cui il radicalismo islamico tende costantemente a riemergere per sottomettere i cristiani (non molto tempo fa gli islamici avevano manifestato l'intenzione di erigere pretestuosamente una moschea con un minareto che sovrastasse la cupola della basilica della Natività). La presenza israeliana sembrerebbe essere il problema principale se non l'unico per i cristiani (dimenticando che talvolta proprio per il fatto di essere nello stato d'Israele i cristinai palestinesi sono protetti), ma chi conosce Nazareth sa che non è così: nascondere che vi siano tensioni tra cristinai e musulmani significa mistificare la realtà ed è intellettualmente disonesto.
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cardclau
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giovedì 10 maggio 2018
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un posto per tutti?
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Il film di Annemarie Jacir, Wajib - Invito al Matrimonio, narra una storia apparentemente semplice: due palestinesi, padre e figlio, attraversano la città di Nazareth, sotto il dominio israeliano, per andare personalmente a consegnare gli inviti del matrimonio della figlia. L'ordito, apparentemente senza particolari problemi, del tessuto del racconto narrato, si complica rapidamente in una trama complessa e variegata. Gli israeliani, presenti fisicamente solo una sera dove possono gustare delle prelbatezze della cucina palestinese, sono una presenza perenne e minacciosa, dalle continue notizie alla radio, nel covato odio verso di loro dei palestinesi, nella drammatica loro sensazione (dei palentinesi) che quella terra non sia pIù la loro, che lì per loro non ci sia un futuro dignitoso; dove l'unica via di scampo consisterebbe dell'abbandono, se possibile, di quella terra, per cercare fortuna altrove, in un alto paese.
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Il film di Annemarie Jacir, Wajib - Invito al Matrimonio, narra una storia apparentemente semplice: due palestinesi, padre e figlio, attraversano la città di Nazareth, sotto il dominio israeliano, per andare personalmente a consegnare gli inviti del matrimonio della figlia. L'ordito, apparentemente senza particolari problemi, del tessuto del racconto narrato, si complica rapidamente in una trama complessa e variegata. Gli israeliani, presenti fisicamente solo una sera dove possono gustare delle prelbatezze della cucina palestinese, sono una presenza perenne e minacciosa, dalle continue notizie alla radio, nel covato odio verso di loro dei palestinesi, nella drammatica loro sensazione (dei palentinesi) che quella terra non sia pIù la loro, che lì per loro non ci sia un futuro dignitoso; dove l'unica via di scampo consisterebbe dell'abbandono, se possibile, di quella terra, per cercare fortuna altrove, in un alto paese. A complicare questa storia già non semplice, si mettono in mezzo problematiche familiari e difficoltà culturali. La madre ha abbandonato il marito, il figlio e la figlia, per emigrare negli Stati Uniti e vivere con un altro uomo. Il padre ha dovuto tirar su da solo il figlio e la figlia, ovviamente rimanendo fermo là, a Nazareth, facendo i conti col potere, lui professore di scuola pubblica, ingoiando all'uopo anche dei rospi particolarmente indigesti. Il figlio vive in Italia, sta con una ragazza palestinese (sempre in Italia, dove si è laureato in architettura), ha un profondo risentimento contro gli israeliani, contro suo padre che ha dovuto accettare di fare dei patti onerosi col sistema, dove i delatori abbondano. Il figlio e la figlia, nell'abbandono inelaborabile della madre, rimproverano il padre di non essere stato all'altezza, come marito. E la gente, i parenti, cosa ne hanno pensato, a parte l'iniziale affabilità di facciata? La gente palestinese appare inoltre particolarmente abbarbicata alle tradizioni culturali, dove l'uomo e la donna non possono allontanarsi da un rigidissimo cliché, in parte come unica difesa all'oppressione. Un film asciutto, puntuale, essenzialmente drammatico, con bravi attori, che nutre la nostra consapevolezza e potrebbe ridure la nostra tendenza a vedere il mondo in modo semplicistico e dicotomico.
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