Siamo nel middle-of-nowhere, nel cuore e centro degli Stati Uniti: il Missouri, presumibilmente ai giorni d’oggi. La piccola cittadina è concentrata lungo in una Main street con la stazione dello sceriffo e il saloon, reminiscenze di un classico western. La vicenda è difficilmente databile perché, purtroppo, le tematiche trattate nel film come il razzismo, l’omofobia, la violenza, lo stupro e la latitanza delle Istituzioni, potrebbero essere uguali oggi come negli anni ’80 o ’90.
Tre Billboards Outside Ebbing, Missouri narra la storia di Mildred Hayes (interpretata dalla strepitosa Frances McDormand) una donna dura, brusca, abituata a risolversi da sola i problemi man mano che le si presentano. Gestisce un negozio di gadget e oggettini inutili, coadiuvata da un’amica nera. Il marito l’ha lasciata per una giovane diciannovenne e lei deve crescere due figli adolescenti Angela (Kathryn Newton) e Robbie (Lucas Hedges già notato come Patrick in Mancester-by-the-Sea). La figlia un giorno viene uccisa e stuprata, ma dopo sette mesi non si sa ancora nulla dell’assassino e non ci sono né indagati né sospetti.
Mildred esasperata affetta tre billboards su una stradale secondaria (dove avvenne la tragedia) e ci fa scrivere frasi di frustrazione e di accusa nei confronti dei poliziotti, o meglio del suo capo, lo sceriffo Bill Willoughby (il bravissimo Woody Harrelson). Questa decisione attira l’attenzione dei media sul caso irrisolto dell’assassinio di sua figlia, ma sarà mal vista sia dalla polizia locale sia da molti abitanti benpensanti di Ebbing. Da lì tutta una serie di inconvenienti a catena. “La violenza genera violenza” viene ripetuto, e niente di più vero. L’escalation della violenza è malauguratamente un elemento caratteristico del film.
Il regista Martin McDonagh ha un linguaggio sulla scia dei fratelli Coen ma è più asciutto. Le sue figure sono molto bene sfaccettate e si ritrova sempre del buono nel cattivo e viceversa. La stessa protagonista da vittima, tende a passare carnefice nell’ostinata ossessione di farsi giustizia da sola. I dialoghi essenziali sono scritti con grande precisione. Qua e là McDonaugh fa l’occhiolin al teatro, basti pensare alla scena in cui lo sceriffo e la sua giovane moglie, scherzino a letto insieme, citando Shakespeare e Oscar Wilde.
Per fortuna il regista è dotato di forte ironia e spesso le sue “maschere” sono grottesche – pur rimanendo estremamente reali – e in alcuni punti diventano persino comiche. L’edipico e represso vice-sceriffo Jason Dixon (interpretato magistralmente da Sam Rockwell) che vive con la madre autoritaria, il capo della polizia che, malato di cancro, scrive lettere post-morten dando consigli ai vari personaggi. Il corteggiatore nano che si vive la sua frustrazione, lo sbruffone macho che si vanta di conquiste forzose, il neo-sceriffo nero che insinua il dubbio nei soggetti tendenzialmente psicopatici e così via.
Il regista britannico Martin McDonagh è un affermato drammaturgo al suo secondo lungometraggio, già pluri-premiato ai Golden Globe (miglior film drammatico, migliore sceneggiatura, migliore attrice protagonista, migliore attore non protagonista). I tre personaggi principali sono recitati in modo fantastico, pertanto,Tre manifesti a Ebbing, Missouri parte in pole position per gli Oscar 2018.
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