kimkiduk
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domenica 12 novembre 2017
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complimenti!!!!!
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Ha vinto Cannes e dopo averlo visto posso dire meritatamente.
Una gioia per gli occhi, finalmente un cinema nuovo, coraggioso ma che sicuramente non piacerà a tutti.
E' il classico film che piacerà tanto o non piacerà a chi ama un cinema "normale" e a chi forse non lo capirà.
Già la provenienza del regista è importante la Svezia la terra di Bergman, però il suo precedente film Forza Maggiore non mi aveva entusiasmato.
La sceneggiatura non è la forza di questo film, ma lo è il significato della stessa e la sua realizzazione.
Il messaggio è denigrare in tutto una società malata, insicura, impaurita, diffidente e classista.
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Ha vinto Cannes e dopo averlo visto posso dire meritatamente.
Una gioia per gli occhi, finalmente un cinema nuovo, coraggioso ma che sicuramente non piacerà a tutti.
E' il classico film che piacerà tanto o non piacerà a chi ama un cinema "normale" e a chi forse non lo capirà.
Già la provenienza del regista è importante la Svezia la terra di Bergman, però il suo precedente film Forza Maggiore non mi aveva entusiasmato.
La sceneggiatura non è la forza di questo film, ma lo è il significato della stessa e la sua realizzazione.
Il messaggio è denigrare in tutto una società malata, insicura, impaurita, diffidente e classista. Mi ricorda (giudizio personale senza pretese) il modo di criticare la società di Altman, con le dovute proporzioni. Certo qui si critica una società evoluta, quella svedese, dove il quartiere povero ha le luci che si spengono al passaggio delle persone, le cassette delle lettere ad ogni porta e nemmeno una carta per terra (conosco qualche posto in Italia leggermente diverso come periferia), ma questo non ha importanza.
Il film deve o vuole (e secondo me ci riesce) far capire come la società vuole e deve raggiungere lo scopo per qualsiasi cosa ad ogni costo. Lo fa partendo da un museo e quindi dall'arte come base di partenza per quella che è la domanda fondamentale del film: esiste un limite alla decenza, alla pubblicità, all'arte o a tutto quello che è comunicazione? La censura deve esistere? Se ne parla in tanti modi qui, ponendoci di fronte a problemi attuali, le differenze di classe, la povertà, le paure della verità e la voglia di verità al tempo stesso. Tutto quello che può fare spettacolo deve essere fatto vedere, ma quando diventa reale dall'ironia si passa alla paura. Così come in realtà quanto interessa realmente alla società tutto? Forse niente, si vive di apparenza e ognuno nel proprio mondo. E anche se il mondo capisce di sbagliare, siamo in tempo a recuperare e curare una società malata?
Io non so come valutate i film, se dalla sonnolenza/attenzione che vi provoca o dall'ammirazione delle scenografie o dall'interpretazione degli attori.
Personalmente la cosa fondamentale per me è uscire dal cinema e scoprire che il tema del film mi fa parlare per ore del film stesso, massacrando anche chi lo ha visto con me. Questo film c'è riuscito.
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miraj
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sabato 11 novembre 2017
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the square - oltre il perimetro
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The square è un film particolare. Mostra con originalità fresca e mai banale temi ricorrenti. Sviluppa una trama fluida, narrandola con spezzoni tra loro separati. Come un gioco di scatole cinesi - quadrate - in cui ogni spezzone tratta un tema e tutti insieme compongono il racconto. La scenografia è azzecattissima e per tutta la proiezione lo spettatore è accompagnato dalla presenza costante di immagini quadrate e linee stilizzate: le scale, i palazzi, le porte, le vetrate, gli interni del museo, tanto da far apparire ogni tranche tematica come un quadro dentro ad un altro quadro, dove la prima situazione crea il presupposto per la successiva. Da subito il film pone al centro del l'obiettivo che vuole perseguire: lo spettatore da subito è indotto a chiedersi cosa sta dentro al perimetro del quadrato e cosa sta fuori.
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The square è un film particolare. Mostra con originalità fresca e mai banale temi ricorrenti. Sviluppa una trama fluida, narrandola con spezzoni tra loro separati. Come un gioco di scatole cinesi - quadrate - in cui ogni spezzone tratta un tema e tutti insieme compongono il racconto. La scenografia è azzecattissima e per tutta la proiezione lo spettatore è accompagnato dalla presenza costante di immagini quadrate e linee stilizzate: le scale, i palazzi, le porte, le vetrate, gli interni del museo, tanto da far apparire ogni tranche tematica come un quadro dentro ad un altro quadro, dove la prima situazione crea il presupposto per la successiva. Da subito il film pone al centro del l'obiettivo che vuole perseguire: lo spettatore da subito è indotto a chiedersi cosa sta dentro al perimetro del quadrato e cosa sta fuori. Il quadrato all'interno del quale si eguagliano diritti e doveri. Quale azione è inclusa? Quale reazione è esclusa? Quale atteggiamento è umanamente e profondamente vero? Quale è solo una finzione egoista e perbenista? Il film parla, e suggerisce, e smuove, ed affonda nel concetto di limite. O meglio di limiti. Poichè ne esplora molti, di varia natura, propri della società contemporanea. Continuamente rimbalza un pensiero: esistono oggi dei limiti oggettivamente accettabili alle azioni umane, oltre i quali ci collochiamo fuori dal quadrato? Parla quindi dell'arte e del suo limite. E dà una risposta: oltre il limite l'arte diviene monnezza tra la monnezza. Parla del reality show e del suo limite. E dà una risposta: oltre il limite diviene violenza. Intellettiva. Parla di come l'alta società si pone come spettatrice agghindata dei casi umani. Salvo poi esserne vittima se i casi umani da baraccone/museo inventati in laboratorio diventano reali nella loro ferocia e nella loro indole. Si osserva la bestia come si osserva la bambina mendicante. Sono solo strumenti per creare suggestione collettiva, per attirare l'attenzione in una manciata di secondi o di pochi minuti. Parla dell'utilizzo dell'immagine e del suo limite. Parla della libertà di manifestazione, di espressione, di rappresentazione e del suo limite. E dà coraggiosamente una risposta: anche la libertà deve avere oggettivamente un limite. Per non scadere nella monnezza, nel tritacarne della comunicazione contemporanea dove tutto è accolto e mostrato senza alcuna priorità di messaggio. Parla di come ogni azione causa una reazione ed il suo limite. E pure dà una risposta: siamo responsabili, sempre, delle reazioni causate dalle nostre azioni. Perchè la cosa più difficile è misurare la propria convinzione di "par condicio" nel momento in cui veniamo coinvolti in prima persona anzichè essere solo agghindati spettatori. E, a volte, può non essere sufficiente il limite di tempo utile per porre rimedio alle reazioni causate dalle nostre azioni. E collocarci silenziosamente fuori dal quadrato.
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(di antoniomontefalcone)
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tonimais
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domenica 19 novembre 2017
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un film capolavoro spiega se stesso
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L'arte altro non è se non la rappresentazione della società che l'ha prodotta con i mezzi espressivi della propria epoca : ecco dunque che il quadrato dentro il quale si hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri è utopico e la società nel bene o nel male ( decisamente più nel male ) pulsa al di fuori di quel quadrato . Nessuno sa , neppure gli addetti ai lavori sanno, chi e dove verrà colto il frutto proibito dell'arte contemporanea ( esiste un 'arte non contemporanea ? ) piochè un artista è un contemporaneo così contemporaneo da sembrare ai propri contemporanei un anticipatore. La società si guarda allo specchio e non si riconosce a tal punto far dire alla giornalista : sei dentro di me ma non sai neppure come mi chiamo .
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L'arte altro non è se non la rappresentazione della società che l'ha prodotta con i mezzi espressivi della propria epoca : ecco dunque che il quadrato dentro il quale si hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri è utopico e la società nel bene o nel male ( decisamente più nel male ) pulsa al di fuori di quel quadrato . Nessuno sa , neppure gli addetti ai lavori sanno, chi e dove verrà colto il frutto proibito dell'arte contemporanea ( esiste un 'arte non contemporanea ? ) piochè un artista è un contemporaneo così contemporaneo da sembrare ai propri contemporanei un anticipatore. La società si guarda allo specchio e non si riconosce a tal punto far dire alla giornalista : sei dentro di me ma non sai neppure come mi chiamo . Vorrà pure strappargli di mano il suo seme creativo poichè la società è avida di rinnovamento. Ma la società è anche miope e si lascia facilmente abbagliare dai falsi profeti del modernismo. l'inganno è reciproco come tutti ben sappiamo ma ciò che permette di uscire da questo tormentato girone dantesco è l'affanno della ricerca con la quale l'artista , il vero artista , affronta tra mille difficoltà la sua quotidianità di ricerca. I falsi profeti vengono facilmente smascherati, uno solo si salverà poichè ancora una volta l'Arte ( quella con la A maiuscola ) avrà adempiuto al suo dovere: avrà svelato agli occhi di uno solo ciò che per gli altri continuerà a restare invisibile ( Paul Klee )
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zarar
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martedì 28 novembre 2017
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nessuno entrerà in quel quadrato
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Finalmente torna un’opera in cui si respira a pieni polmoni un grande specifico filmico. L’interazione di immagini, sonoro, inquadrature, recitazione, dialogo è totale e crea una tensione e un ritmo che non ti abbandonano dall’inizio alla fine del film. Il tema riflette l’approccio etico rigoristico di stampo protestante che avevamo già apprezzato in Forza maggiore: basta grattare appena la vernice di umanità, correttezza, buone intenzioni di cui ci rivestiamo tanto più quanto più siamo ‘civilizzati’, ben educati, ben integrati nella società, che si rivela la bestia che è in noi, le crudeltà di cui siamo capaci, delle cui conseguenze non siamo neppure consapevoli.
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Finalmente torna un’opera in cui si respira a pieni polmoni un grande specifico filmico. L’interazione di immagini, sonoro, inquadrature, recitazione, dialogo è totale e crea una tensione e un ritmo che non ti abbandonano dall’inizio alla fine del film. Il tema riflette l’approccio etico rigoristico di stampo protestante che avevamo già apprezzato in Forza maggiore: basta grattare appena la vernice di umanità, correttezza, buone intenzioni di cui ci rivestiamo tanto più quanto più siamo ‘civilizzati’, ben educati, ben integrati nella società, che si rivela la bestia che è in noi, le crudeltà di cui siamo capaci, delle cui conseguenze non siamo neppure consapevoli. Un simbolo la splendida, verissima battuta del passante frettoloso ed educato che dice: “No grazie”, a chi gli chiede un’elemosina. Quel che è peggio, per una specie di primitivo istinto di sopravvivenza, la società cospira per riannodare, ricucire, minimizzare, fagocitare tutti gli strappi di coscienza che una fugace lucidità genera nell’individuo. Il protagonista Christian (un bravo Claes Bang) è il curatore di un museo di arte contemporanea a Stoccolma. Il regista gioca da par suo a livello visivo e simbolico con le provocazioni di cui quest’arte è portatrice: mai come in questo caso abbiamo la percezione che non è l’oggetto, ma il significato che gli assegniamo che conta: una borsetta, persino una pila di ghiaia, assumono valenza simbolica se “li metto lì” e decido di renderli veicolo di un messaggio. L’evento intorno a cui ruota il film è la promozione di una mostra relativa ad un’opera appena acquisita: un quadrato recintato sul selciato (the square) così etichettato: questo quadrato è un "santuario di fiducia e altruismo”, all’interno del quale tutti hanno gli stessi diritti e doveri. Che dire? La quintessenza del patto sociale. Ma tanto più il significato che assegno è nobile e alto, tanto più appare consumato e piatto, al punto che solo un’immagine atroce, capace di parlare alla pancia – diremmo oggi – spregiudicatamente proposta da un’agenzia pubblicitaria, può attrarre l’ attenzione su di esso. Si sa già che ci sarà il rituale scandalo, le rituali prevedibili proteste, che il più sprovveduto magari ci rimetterà il posto, ma alla fine l’obiettivo di attrarre l’attenzione sarà perfettamente raggiunto proprio grazie a chi ha protestato di più. E non occorre scavare molto per capire che alla fin fine dietro al santuario di fiducia e altruismo c’è il business del museo. Parafrasando in modo un po’ atipico McLuhan , potremmo veramente dire che i mezzi usati diventano i veri, desolanti, messaggi. Di fronte a questo, la perfetta vanità degli sforzi di chi, pur riluttante, pur insicuro, tenterebbe di fare qualcosa di pulito: Christian, nei suoi intermittenti lampi di consapevolezza, ci prova e noi facciamo il tifo per lui: vuole riparare il torto fatto a un bambino a causa di una stupida iniziativa per recuperare qualcosa che gli è stato rubato e quando finalmente si decide, il bambino non è più rintracciabile; ammette le sue responsabilità per la bieca campagna pubblicitaria e il suo gesto è immediatamente svilito e finalmente del tutto ignorato. Non c’è veramente via d’uscita, e tutto è inghiottito dalle asettiche geometrie, dai flussi insieme convulsi e rituali del quotidiano, da un rimbombo aggressivo di rumori non significanti sullo sfondo. Resta come rifugio (un po’ troppo facile? Un po’ disperato?) lo sguardo innocente/indignato dei bambini.
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robertalamonica
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venerdì 1 dicembre 2017
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la scimmia nuda
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Il regista svedese Ruben Östlund vince la Palma d’oro al festival di Cannes con un film sorprendente, altamente simbolico e a tratti disturbante.
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Il regista svedese Ruben Östlund vince la Palma d’oro al festival di Cannes con un film sorprendente, altamente simbolico e a tratti disturbante.
The Square è ‘un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri’.
Questo l’intento filantropico dietro il lancio dell’opera che dovrà dare un impulso ulteriore al museo di arte contemporanea di cui Christian (un fantastico Claes Bang) è curatore a Stoccolma. E che l’idea dietro questa installazione sia in qualche modo ‘sovversiva e definitiva’ lo si capisce chiaramente dalla goffa ma incontrovertibile tenacia con cui si eradica l’antica statua equestre simbolo di un’arte figurativa ormai senza alcun messaggio di cui ‘il quadrato’ prende il posto.
Il quadrato, simbolo di definizione e delimitazione fa da cornice alla vita di Christian, intellettuale moderno che si compiace della posizione di potere dalla quale guarda il mondo, non è consapevole dei limiti paradossali che il suo ruolo impone all’essenza stessa dell’arte che propone e promuove e si circonda di subalterni acquiescenti, patrocinatori inconsapevoli e adoranti ammiratori.
Tutto ha un posto perfetto nella sua vita, fino a quando un incidente banale, il furto di portafogli e telefono, sposta la prospettiva e ridefinisce il punto di vista. E proprio la rottura dei limiti, la confusione e un sano, istintivo e primordiale desiderio di vendetta, spingono Christian a lasciare la sua torre d’Avorio per scendere agli Inferi dei palazzoni popolari alla periferia di Stoccolma dove il suo orizzonte diventa assolutamente indistinto e caotico. ‘Renderò la tua vita un caos’, minaccia il ragazzino dei palazzoni di periferia e non per il comportamento irragionevole tenuto dal curatore ma per aver infranto l’ordine delle cose.
The Square si può definire come una critica feroce alla società occidentale tronfia e autoreferenziale e in particolare a un certo ambiente borghese che definisce gli standard del gusto e degli orientamenti culturali e artistici. E questa critica risulta tanto più efficace per il fatto di essere il film ambientato in Svezia, riconosciuto modello di evoluzione etica e progressista dei valori fondanti della civiltà occidentale.
E invece anche in Svezia ci sono gli zingari e gli zingari sono colorati e ‘molesti’ come in ogni altra metropoli europea e l’intellettuale svedese dà loro dei soldi e compra loro del cibo fintanto che la sua confort zone non viene invasa e il suo mondo non viene scosso nelle piccole certezze nelle quali si culla.
E allora l’unica possibilità di fronte al fallimento del modello perfetto e allo sbigottimento conseguente resta la deflagrazione o la regressione e una nietzschiana palingenesi reazionaria dell’umanità.
Ma ogni palingenesi comporta una rinascita e in quest’opera nascita e infanzia assumono contorni desolanti.
La nascita è totalmente negata come si deduce dalla battaglia per gettare il profilattico ingaggiata tra Christian e Anne. Il profilattico è conteso, teso, tirato per eliminare e disperdere il seme generatore di vita dalla cui perpetrazione Christian è terrorizzato.
L’infanzia invece è distorta, manipolata... essa assume tratti isterici nel bambino che reclama la ‘sua’ giustizia, note di disorientamento nelle due figlie-pacco di Christian, carattere di orpello inutile nel neonato portato nelle riunioni di lavoro dal collaboratore del direttore e infine ha tragica funzione di agnello sacrificale nel ‘quadrato’ che avrebbe dovuto segnare il punto massimo di concettualizzazione del gusto estetico e artistico di un certo mondo e che in realtà si rivela un buco nero che con sé tutto trascina e annienta.
In quest’ottica acquista quindi un significato fortemente simbolico il gorilla che inaspettatamente compare nell’appartamento di Anne durante il suo incontro intimo con Christian e la sconvolgente performance di Terry Notary che spinge l’opera d’arte che egli stesso rappresenta oltre i limiti della finzione a invadere il mondo patinato e ingessato dell’alta borghesia svedese che comunque china il capo di fronte alla violenza della forza generatrice e primordiale che Notary in qualità di ‘primate’ incarna.
Östlund compie un’indagine etologica del campionario umano che ha a disposizione in cui non si possono non cogliere echi e suggestioni dalla ‘scimmia nuda’ di Desmond Morris.
Curiosamente la centralità della figura materna cui Morris fa riferimento nel suo trattato divulgativo è totalmente assente nel film del regista svedese nell’ottica dell’impossibilità di una perpetrazione del genere umano secondo la prospettiva e il sistema di valori definiti da ‘The Square’. Solo nella commistione tra la pioggia che lava e rigenera e il pattume che lorda e delimita si intravede una vaga possibilità di rinascita.
Tra umana disumanità, isteriche recriminazioni, falsa cortesia, comici fraintendimenti e disorientanti scale a chiocciola si consuma la fine di ciò che si può ‘dire’ nell’arte e di ciò che si può vivere nella bolla alto borghese di cui Christian è un sommo rappresentante.
Con questo scopo Östlund protrae oltre i limiti la durata del suo film come ultimo omaggio allo sventurato protagonista della sua analisi sociale e antropologica, un uomo che non può più stare nel ‘quadrato’ perché solo fuori, solo spingendosi oltre i limiti può sperare di ritrovare la propria raison d’etre.
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nanni
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lunedì 27 novembre 2017
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the square
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Il Direttore del Museo di Arte Contemporanea di Stoccolma (il bravissimo Claes Bang) è impegnato nell'allestimento dell'istallazione "The Square"......santuario di fiducia e di altruismo entro i cui confini tutti hanno uguali diritti e doveri. Si imbatterà nel frattempo in una serie di disavventure che riveleranno, invece e forse suo malgrado, la distanza tra il valore simbolico e fortemente evocativo del senso di appartenza alla comunità che l'opera d'arte ha in sè ed il mondo reale. La parola "aiuto", come rappresentazione potente della crisi profonda del progetto sociale, sarà la più pronunciata e la più disattesa.
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Il Direttore del Museo di Arte Contemporanea di Stoccolma (il bravissimo Claes Bang) è impegnato nell'allestimento dell'istallazione "The Square"......santuario di fiducia e di altruismo entro i cui confini tutti hanno uguali diritti e doveri. Si imbatterà nel frattempo in una serie di disavventure che riveleranno, invece e forse suo malgrado, la distanza tra il valore simbolico e fortemente evocativo del senso di appartenza alla comunità che l'opera d'arte ha in sè ed il mondo reale. La parola "aiuto", come rappresentazione potente della crisi profonda del progetto sociale, sarà la più pronunciata e la più disattesa. Ostlund ci raffigura un presente smarrito, che non sa più prendersi cura degli ultimi e dove il mondo, in questo caso, dell'arte si/ci illude, facendo presuntuosamente la sua parte, di poter, come si dice, far rientrare dalla finestra ciò che forse è uscito irrimediabilmente dalla porta. Peccato che la narrazione, dell'interessante ed oggi ineluttabile riflessione sulla crisi profonda del welfare nel mondo globalizzato, procedendo per tesi, risulti a tratti farraginosa e troppo scollata dalle vicende personali del protagonista e come un compitino ben fatto, anche se con un finale troppo didascalico, centra l'obbiettivo ma non emoziona mai. Due stelle e mezzo. Ciao Nanni
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zim
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lunedì 20 novembre 2017
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duchamp al quadrato
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Si entra ed esce dal quadro partendo da un presupposto: Per quale tempo e in quale spazio l'ovvio quotidiano diventa arte? L'esercizio ce lo ha insegnato Duchamp e a partire da lui nulla é risulta scontato nell'arte d'oggi. Perplessità e il dubbio di essere presi per i fondelli minacciano la nostra spensierata contemplazione dell'arte. Una statua equestre è rimossa, rovina sbilenca, lasciando libero lo spazio al luogo dell'opera: Un quadrato delimitato da sampietrini e da una sottile cornice di led luminosi che nell'intenzione dell'artista dovrebbe essere segno, concreto, "santuario di fiducia e amore, all' interno del quale tutti abbiamo gli stessi diritti e obblighi.
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Si entra ed esce dal quadro partendo da un presupposto: Per quale tempo e in quale spazio l'ovvio quotidiano diventa arte? L'esercizio ce lo ha insegnato Duchamp e a partire da lui nulla é risulta scontato nell'arte d'oggi. Perplessità e il dubbio di essere presi per i fondelli minacciano la nostra spensierata contemplazione dell'arte. Una statua equestre è rimossa, rovina sbilenca, lasciando libero lo spazio al luogo dell'opera: Un quadrato delimitato da sampietrini e da una sottile cornice di led luminosi che nell'intenzione dell'artista dovrebbe essere segno, concreto, "santuario di fiducia e amore, all' interno del quale tutti abbiamo gli stessi diritti e obblighi." in somma il quadrato è cifra d'ordine amorevole contrapposto al caos del mondo. Di fatti all'interno del quadrato avviene di tutto, la sua potenza riverbera nella galleria, nelle sue installazioni, nella casa del produttore artistico, in un triste quartiere periferico e all'interno dei suoi anonimi falansteri, in una sfarzosa cena sociale con tanto di performance savage e persino nell'alcova di un incontro amoroso occasionale del nostro protagonista produttore artistico. L'inquadratura è ferma, rari e strettamente funzionali i movimenti di macchina, il regista indugia nel montaggio interno, gioca col suono off, sembra quasi rincorrere una verginità di sguardo che fu dei fratelli Lumière salvo poi a far saltare in aria una bimba in una clip promozionale del quadrato e far dire ad un personaggio che un tempo un adulto che avvicina ad un bimbo era percezione di protezione e sicurezza oggi innesca ansia e preoccupazione per indicibili perversioni. (ricordiamo la colazione del bebè dei Lumière il finale di arancia meccanica.) Insomma non c'è pace e la dinamica della complessità è declinata in un ironico crescendo di eventi che hanno del paradossale, ironia ed estrema stupidità. La forza del quadrato sta più che nell'ordinare nel disordinare, meglio forse nel complicare e domandare sulla miseria del mondo, la sua immondizia e quantità di orrore necessaria per intrappolare l'attenzione.
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piergiorgio
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martedì 3 aprile 2018
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grandi pretese risultato modesto
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Ovvero l'ambizione di fare un discorso serio mettendo in fila situazioni di vario tipo, spesso irritanti, slegate tra di loro dove la nota prevalente è l'inverosimiglianza. La vicenda principale è quella dell'idea bislacca di promuovere un'installazione artistica sul bene con un video ultra cinico. Anche se la scena più inquietante è quella del giornalista che contesta al responsabile le sue dimissioni perchè non si può limitare la libertà d'espressione. Questo forse è il migliore spunto del film. La vicenda del furto risolto accusando tutti gli abitanti di un condominio con reazione inviperita di un ragazzino potrebbe essere interessante ma che c'entra con il resto? Situazione pure vanificata da un finale che ci informa che il ragazzino neanche viveva lì.
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Ovvero l'ambizione di fare un discorso serio mettendo in fila situazioni di vario tipo, spesso irritanti, slegate tra di loro dove la nota prevalente è l'inverosimiglianza. La vicenda principale è quella dell'idea bislacca di promuovere un'installazione artistica sul bene con un video ultra cinico. Anche se la scena più inquietante è quella del giornalista che contesta al responsabile le sue dimissioni perchè non si può limitare la libertà d'espressione. Questo forse è il migliore spunto del film. La vicenda del furto risolto accusando tutti gli abitanti di un condominio con reazione inviperita di un ragazzino potrebbe essere interessante ma che c'entra con il resto? Situazione pure vanificata da un finale che ci informa che il ragazzino neanche viveva lì... e allora? Mistero. La scena della cena con "intrattenimento", diciamo così, è insopportabile non solo per la violenza quanto per la gratuità assoluta. Qui non si tratta di indifferenza ma di paura di fronte a una minaccia molto reale ma al tempo stesso troppo assurda per poter parlare di situazione realistica. Alla fine lodevole il tentativo di ricordarci certi doveri di solidarietà ma quanto è inutilmente contorta e piena di vicoli ciechi la strada scelta.
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lizzy
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mercoledì 30 maggio 2018
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vuoto e senza senso...come l'arte contemporanea...
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Questo film, proprio come la famosa "arte contemporanea" (della quale abbiamo un esempio nei mucchietti di ghiaia tanto ignorati visto che di visitatori non ne hanno e tanto inutilmente presidiati manco fossero importanti come "La Gioconda"), non vuol dire nulla. E' una scatola vuota.
Non dice niente e nemmeno suggerisce qualcosa.
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Questo film, proprio come la famosa "arte contemporanea" (della quale abbiamo un esempio nei mucchietti di ghiaia tanto ignorati visto che di visitatori non ne hanno e tanto inutilmente presidiati manco fossero importanti come "La Gioconda"), non vuol dire nulla. E' una scatola vuota.
Non dice niente e nemmeno suggerisce qualcosa.
Vicende apparentemente slegate fra di loro che descrivono un uomo che non si sa come faccia il lavoro che fa e come tiri a campare vista la sua totale incapacità in tutto.
L' improbabile donna di facili costumi (che vive improbabilmente con una scimmia) che se lo rimorchia in una toilette e poi pretende la storia importante (!), l' improbabile bambino che riesce non si sa come a risalire all' indirizzo del tipo (forse glielo da il collaboratore del protagonista?) e che nemmeno si capisce se buttato dalle scale si fa male, dove è finito (che scendendo ed uscendo fuori il protagonista manco lo incrocia!).
Tutto improbabile fin dalla scena iniziale del furto.
Il fantomatico video della bimba che esplode che comunque nulla ha a che fare col senso dell' opera e che dovrebbe far saltare la testa del protagonista (mi dimetto, ma non subito...vedremo...ma che razza di discorso è).
Per non parlare delle figlie che, mute e solamente decorative, seguono il padre senza veramente interagire con lui (si vede che la madre ha altro a che fare e le scodella all'ex marito saltuariamente).
E che dire del protagonista stesso... uno che odia l'elemosina, ma poi accetta di comprare un panino alla questuante nel locale dove è andato per vedere se il ladro avesse riportato la refurtiva, tranne poi fregarsene allegramente del gusto della stracciona e ordinarglielo senza levare le cipolle (te le togli da sola le cipolle, urla buttando il cibo alla donna).
Uno che fa il grande e poi soccombe al collaboratore bugiardo e si passa il tempo ad infilare le lettere ad una ad una nelle buche delle porte del palazzo.
E cosa investe questo benedetto collaboratore scappando? Davanti a lui ci sono persone...forse che ne mette sotto una? Una magari in bici o in moto? Il protagonista dopo poco scende a controllare il danno...ma non si vede nulla.
Ecco....tutto il film così: si inizia a raccontare, ma poi non si dice nulla.
Comodo. Bello così.
C'era una volta....e finisci da solo!
Quindi...non sappiamo se il bambino è vivo o si è solo fatto male. Non sappiamo cosa abbiano investito i due. Non sappiamo se la stalker continuerà nel suo piano. Non sappiamo se lui si dimetterà. Non sappiamo niente.
Personalmente so solo una cosa: per vedere questo film ci sono voluti cinque giorni…non sono riuscito a vederlo tutto di seguito. Però ho voluto terminare la visione a tutti i costi per non fare la figura della persona prevenuta.
E non reputo questa “opera” un film, ma quattro scene messe qua e la alla meno peggio da qualcuno che, evidentemente, pensa che siamo tutti dei cretini.
Cretini a tal punto di considerare valida una cosa inutile come questa.
P.S. Nessuno saprebbe spiegarmi il significato del gesto della stalker nella toilette (quando batte le mani e dice “troia”)??? Grazie!
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[+] disattenzione
(di rayl)
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francesca meneghetti
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martedì 28 novembre 2017
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tra kaos e kosmos
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Square: piazza o quadrato sono i significati prevalenti di questo termine inglese, che deriva dal latino quadrum e, a sua volta da quattor,quattro. Per i Pitagorici il quadrato era simbolo di giustizia: era la metaforica squadratura dell’informe e del disordine originario dell’universo. Platone, nel Timeo, attribuiva precisamente questa funzione al dio Demiurgo: grazie alla sua arte ordinatrice si passò dal Kàos al Kòsmos, cioè ad un mondo armonioso.
Ignoriamo gli eventuali studi filosofici del regista svedese Ruben Östlund, ma il titolo e un tema, il principale del film, alludono proprio a questa contrapposizione. Al centro della storia, che è impossibile riferire sinteticamente senza amputazioni, c’è una creazione artistica collocata in una piazza: un quadrato, il cui perimetro segna il confine tra l’area del poligono (la zona della giustizia, dove diritti e doveri sono equamente ripartiti, “un santuario di fiducia e altruismo”), e il resto dello spazio fisico, che rappresenta l’antitesi di quei valori.
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Square: piazza o quadrato sono i significati prevalenti di questo termine inglese, che deriva dal latino quadrum e, a sua volta da quattor,quattro. Per i Pitagorici il quadrato era simbolo di giustizia: era la metaforica squadratura dell’informe e del disordine originario dell’universo. Platone, nel Timeo, attribuiva precisamente questa funzione al dio Demiurgo: grazie alla sua arte ordinatrice si passò dal Kàos al Kòsmos, cioè ad un mondo armonioso.
Ignoriamo gli eventuali studi filosofici del regista svedese Ruben Östlund, ma il titolo e un tema, il principale del film, alludono proprio a questa contrapposizione. Al centro della storia, che è impossibile riferire sinteticamente senza amputazioni, c’è una creazione artistica collocata in una piazza: un quadrato, il cui perimetro segna il confine tra l’area del poligono (la zona della giustizia, dove diritti e doveri sono equamente ripartiti, “un santuario di fiducia e altruismo”), e il resto dello spazio fisico, che rappresenta l’antitesi di quei valori. E’ l’arte che si fa Demiurga, che vuole creare artificialmente un Kòsmos virtuale, in polemica con il mondo reale, improntato al Kàos.
Lo sviluppo delle scienze tra fine ‘800 e ‘900 ci ha insegnato che anche in natura l’entropia, ovvero il disordine, spesso collegato al caso, tende a prevalere sull’ordine. Se poi ci aggiungiamo la follia degli uomini, accentuata dalla tecnologia, e le differenze tra gruppi sociali ed etnici, arriviamo al caos presente. La civiltà occidentale vive in questo disordine, ma, essendo figlia, tra l’altro, dell’illuminismo e dei suoi solenni proclami sui diritti dell’uomo e del cittadino, a queste lontane radici si aggrappa tenacemente per non smarrirsi di fronte a una realtà sempre più complessa ed entropica. Il politicamente corretto attecchisce soprattutto tra chi possiede uno status privilegiato, e magari professa valori di solidarietà che vorrebbe anche praticare. In un Paese dalla solida tradizione di Welfare come la Svezia, indenne da ideologie di destra, tese cioè a marcare le differenze tra gli uomini, questa è la situazione prevalente. Ma anche densa di contraddizioni. Quando un uomo ricco e affermato come Christian si trova a dover uscire da quel quadrato magico in cui crede, finisce per scoprire una realtà diversa: chi è senza diritti e senza denaro rimane indifferente alle belle idee e, anziché suscitare compassione, finisce per indignare: perché ruba, mente, inganna, risulta arrogante e magari violento. E allora ci si rinchiude in un altro quadrato: quello dell’indifferenza, di un’indifferenza carica di sensi di colpa che è impossibile espiare, perché non c’è via d’uscita. L’esito è un crescendo di angoscia che accompagna il film e che raggiunge forse il suo acme nella scena della tromba delle scale (in una cornice, non caso quadrata), dove, nel buio, risuona il lamento e il grido d’aiuto di un bambino, che il buon Christian ha spedito a casa in una notte di pioggia torrenziale, negandogli quella sola parola di scusa che lui gli chiedeva, e chiudendo gli occhi alla vista della piccola bici con cui il bambino avrebbe dovuto tornarsene nel suo quartiere popolare: lontano, lontanissimo.
Focalizzando l’attenzione su questo tema, il film è grande e tale da giustificare la Palma d’oro. Ma altri aspetti portano a valutazioni diverse. C’è, ad esempio, il tema dell’arte contemporanea, talmente pregante che il film (che in fondo rappresenta anch’esso una manifestazione artistica) può essere considerato come un discorso di metaarte, per usare il termine coniato nel 1972 da Piper Adrian: l’arte che parla di se stessa, della sua libertà, del suo farsi e proporsi agli utenti, all’interno di spazi o contesti precisi, i quali possono mutare il significato di un’opera o di un oggetto, dei suoi problemi economici, del suo modo di comunicare. In questo caso, ci pare, siamo fuori da qualsiasi quadrato normativo, da un codice o da regole condivise: impera, se non il caos, il relativismo. L’episodio dell’artista gorilla (v. la locandina), che domina tanta bella gente elegante, seduta a tavola, si inserisce in questo filone. Dove sta l’arte in questa violenta, angosciosa e fin troppo lunga performance? Si allude forse a un latente spirito di ribellione verso il perbenismo della buona società svedese (e occidentale), analogo a quello che, simbolicamente, promana dal portatore di sindrome di Tourette, con il suo turpiloquio?
Al di fuori di quel quadrato ideale si pone anche il regista nel tessere la trama del film. Nessuno si aspetti un edificio solido e armonioso come un tempio greco: con la base, le colonne portanti e il timpano. Un edificio finito, cioè classico. Dal ramo principale, partono altri rami, che a volte vanno chissà dove, in una cornice improntata al surrealismo, più che al realismo. Che ci fa lo scimmione che si mette il rossetto e che passa davanti a una stanza da letto, nella casa della bella giornalista? Un richiamo a Buñuel? E la stessa giornalista riesce a diventare incinta con il seme rubato a un preservativo? E l’attore gorilla, che fine fa? E i bambino ostinato nel pretendere le scuse del protagonista? E i due geniali creativi, che per pubblicizzare il museo inventano un video terrificante? Si è detto, di questo film, che è aperto: sembra piuttosto votato stilisticamente al non finito. Per questo suo essere anticlassico non può piacere a chi ama trovare nel cinema finitezza, equilibrio compositivo e una conclusione netta, sia essa comica o tragica. Certo Östlund non vuole spettatori che se ne escano in pace con il mondo: e piega in tale direzione il sonoro, asimmetrico, fatto di scatti sonori violenti, e di refrain angoscianti.
L’interpretazione di Claes Bang è notevole. Il film è senz’altro interessante e degno di essere visto, una volta fatte le avvertenze del caso. E soprattutto di essere discusso. Magari in un cineforum.
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