Rachel

   
   
   

Affrontando soltanto il tema dell'ambiguità il remake di "Rachel" è a rischio noia

di Roberto Nepoti La Repubblica

L'uscita italiana è stata rinviata più volte: causa la scarsa fiducia, s'immagina, nelle potenzialità economiche di un film che in America ha incassato meno di tre milioni di dollari. Eppure Rachel non è da respingere in blocco. Il paragone con la versione del 1952, Mia cugina Rachele, interpretata da Olivia de Havilland e Richard Burton, gioca a suo sfavore; però pochi se la ricorderanno (la tv l'ha dimenticata da secoli) e non può essere questa la vera ragione. Certo, il romanzo di Daphne du Maurier, scrittrice molto amata da Alfred Hitchcock (Rebecca la prima moglie, Gli uccelli), è di gusto decisamente "ottocentesco", pur essendo stato scritto a metà del secolo scorso. Dopo gli studi a Londra, il giovane Philip si occupa della tenuta in Cornovaglia del cugino Ambrose, il quale soggiorna in Italia nella speranza che il nostro Paese giovi alla sua fragile salute. Comunicando col parente solo per lettera, Philip apprende che Ambrose ha sposato una cugina, già vedova, di nome Rachel. Poco a poco le missive assumono un tono misterioso e persecutorio. Finché Rachel in persona non giunge in Cornovaglia. All'inizio sospettoso e ostile, in breve il giovane ne resta ammaliato; tanto da compiere gesti che il suo tutore giudica sconsiderati. Se il film diretto da Henry Koster nel 1952 valorizzava, nella fotografia in bianco e nero dai toni quasi surreali, l'atmosfera da romanzo gotico delle pagine della scrittrice inglese, il remake di Roger Michell è più lineare e convenzionale. Le scenografie sono accurate, i costumi perfetti; e anche Rachel Weisz (decisamente "adulta" per la parte, ma senza che si noti troppo) è una scelta giusta; molto più di quella di Sam Clafm (Hunger Games), ingessato nella parte dello sprovveduto innamorato. Però la debolezza del film risiede nella chiave narrativa adottata. Bisogna considerare il contesto della storia, una società preindustriale - l'Inghilterra dell'800 - in cui le relazioni tra i sessi sono basate sul non-detto e i rapporti di potere poggiano su un'ambiguità secolare, che oggi non ci appartiene più: tutto è nelle mani degli uomini, ma le donne esercitano su di loro un'influenza occulta, spaventandoli. Il punto sarebbe, dunque: la pericolosità di Rachel è reale, oppure si tratta di una fantasia persecutoria di Philip? La fragilità del film sta nel portare avanti questa ambiguità per due ore, crogiolandosi nel dilemma senza stabilire un'alchimia tra i due protagonisti né sforzarsi di rinnovare in alcun modo il genere "period film", ormai fuori moda, agli occhi del pubblico d'oggi, per temi e modi di rappresentazione. Sir Alfred Hitchcock ci ha insegnato che perfino la suspense, se protratta a oltranza, può diventare noiosa; e che bisogna irrobustirla con iniezioni di temi complementari. Che nel caso potevano riguardare la passione d'amore e le false apparenze dell'amato nella psiche dell'amante. Una nota positiva per il nostro Pierfrancesco Favino, nella piccola parte dell'ambiguo Enrico Rainaldi.
Da La Repubblica, 15 marzo 2018


di Roberto Nepoti, 15 marzo 2018

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