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Prendere o lasciare? Valutazione 3 stelle su cinque

di Fabal


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lunedì 2 ottobre 2017

Un uomo e una donna vivono in una casa situata in una piccola radura in mezzo ai boschi: lui è un celebre scrittore in cerca di ispirazione, lei si occupa di ricostruire l’abitazione, devastata in seguito a un incendio alcuni anni prima. Il luogo è isolato e sembra un piccolo paradiso, in cui la coppia vive in una apparente armonia. Un giorno bussa alla porta uno strano individuo, buffo e malaticcio, che desidera conoscere lo scrittore che tanto lo ha appassionato. Poi arriva anche la moglie, poi i figli, poi i parenti. La situazione degenera e la sopportazione della padrona di casa cede il passo a una iperbole ossessiva fatta di sospetto e inquietudine. Fino alle più estreme conseguenze.

Aronofsky è ormai avvezzo nel suscitare una drastica tipologia di verdetto, quella del “prendere o lasciare”. Il sentimento partorito dalla visione di mother! non può che essere inflessibilmente rigettato, talmente torturata è la sopportazione dello spettatore, oppure accolto da una volontaria passività che consenta di raggiungere quello che Pasolini definiva “il piacere di essere scandalizzati”. 

Chi già conosce il cinema di Aronofsky - e sia stato provato dall’iperbole snervante e talvolta gratuita di Requiem for a dream - e non lo ama, non può comunque non rimanere affascinato almeno dalla prima ora di mother!, che si avvale di riprese serrate sui personaggi, con la telecamera che mette fiato sul collo alla bella Jennifer Lawrence seguendola in ogni passo nella misteriosa casa, accompagnata da un sonoro eccezionale che scandaglia rumori, scricchiolii, tonfi, voci, provenienti da ogni parte e in grado di catturare al 100% l’attenzione dello spettatore.
Sembra di avere a che fare con un horror svelato a dosi omeopatiche, dove l’ambiente circostante fa da contenitore alle solite presenze occulte. L’arrivo della coppia misteriosa Harris/Pfeiffer pareggia per qualche istante lo scarto tra horror e dark comedy (con alcuni intermezzi ironici), concentrando i nervi sui dialoghi pieni di rabbia repressa, sulla progressiva invasione dello spazio privato e il sospetto di una tragedia imminente. Ma anche la veste da pièce teatrale, molto ben recitata dal cast stellare in stile Carnage, svanisce. E poi mother! sceglie di fare il salto nel buio definitivo, quello che affascina definitivamente oppure fa decadere, senza mezzi termini, quanto di buono (anzi di ottimo) è stato fatto nella prima ora.

Il film di Aronofsky diventa allora ossessivo in modo grottesco, avvalendosi di simbologie sociali e sacre ma con una pericolosissima allegoria religiosa sul tema della madre, del parto di una divinità destinata al sacrificio. Il gusto è discutibile, la credibilità ancor di più: si insinua il classico dubbio che quanto fatto sia essenzialmente pretestuoso, un esercizio di stile in cui sconvolgere lo spettatore sia un obiettivo autoreferenziale, gratuito, e assolutamente sproporzionato per spiegare un messaggio profondo che forse neanche c’è. Troviamo, comunque, una sorta di psicanalisi della religione e della divinità: la natura sostanzialmente narcisistica del maschio artista/creatore, compiaciuto dall’adorazione, quella più riservata ma altruistica della donna, a cui spetta il ruolo definitivo nella rigenerazione e nella morte.

Una cosa però è certa: dal cinema si esce provati, storditi, perché la potenza delle immagini e delle emozioni sobillate da Aronofsky è notevole. Bellissima la lettura della poesia raccontata non dalla voce della protagonista ma dalle immagini. Meno bello, invece, e meno elegante, è il caos sociale con spargimento di sangue e delirio collettivo.
In questo manicheismo equipollente tra la meraviglia e il pessimo gusto è forse più saggio non analizzare ma vivere mother! come un’esperienza di cinema provante, e che il verdetto non sia tanto un giudizio di qualità cinematografica ma emotivo. E quale che sia la reazione scaturita - il coinvolgimento o la repulsione -, essa ha comunque il pregio di essere totalizzante, calibrata in base alla sensibilità dello spettatore. 

Resta da capire se mother! potesse essere migliore, nettamente migliore, se avesse mantenuto il piglio da dramma indoor della prima ora, avvalendosi della bravura degli interpreti e non dell’esagerazione grandguignolesca dell’ultima parte: una risposta affermativa condanna il film di Aronofsky ad autosgretolarsi nella caricatura, in una rappresentazione allegorica della realtà che forza tutto quanto l’impianto narrativo. Ma c'era da aspettarselo.

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