michelecamero
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giovedì 7 dicembre 2017
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haneke pessimista ma in tono minore rispetto ad amour
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Haneke, torna dopo “AMOUR” vincitore dell’Oscar 2013 quale miglior film straniero, e con alcuni attori (Jean Louis Trintignant, Isabelle Huppert) presenti pure nel pluripremiato film del 2012 (vinse anche la Palma d’oro a Cannes) con una pellicola che nel rappresentarci la parabola discendente di una famiglia borghese di Calais, ci racconta con immagini crude, quasi senza commento musicale, la decadenza della ricca borghesia degli affari (qui delle costruzioni) affetta dai mali dell’individualismo, della miopia che non la fa andare alla considerazione di altro se non del proprio interesse e del timore di non riuscire a conservare il tenore e lo stile di vita conquistato. Una borghesia che ha perduto negli anni le capacità imprenditoriali di coloro che l’avevano resa ricca , qui il vecchio patriarca che appare senza eredi considerato che il figlio maschio fa altro (il chirurgo) e la figlia gestisce l’azienda soprattutto per poterla lasciare al proprio figlio che tuttavia si rivelerà completamente inidoneo.
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Haneke, torna dopo “AMOUR” vincitore dell’Oscar 2013 quale miglior film straniero, e con alcuni attori (Jean Louis Trintignant, Isabelle Huppert) presenti pure nel pluripremiato film del 2012 (vinse anche la Palma d’oro a Cannes) con una pellicola che nel rappresentarci la parabola discendente di una famiglia borghese di Calais, ci racconta con immagini crude, quasi senza commento musicale, la decadenza della ricca borghesia degli affari (qui delle costruzioni) affetta dai mali dell’individualismo, della miopia che non la fa andare alla considerazione di altro se non del proprio interesse e del timore di non riuscire a conservare il tenore e lo stile di vita conquistato. Una borghesia che ha perduto negli anni le capacità imprenditoriali di coloro che l’avevano resa ricca , qui il vecchio patriarca che appare senza eredi considerato che il figlio maschio fa altro (il chirurgo) e la figlia gestisce l’azienda soprattutto per poterla lasciare al proprio figlio che tuttavia si rivelerà completamente inidoneo. Una borghesia soprattutto incapace di quello scatto in avanti che le fa difetto probabilmente per non aver saputo coltivare attraverso la cultura e l’etica sociale, il senso del proprio ruolo sociale e solidaristico e, volendo, anche della propria storia e del proprio ruolo nella Storia. I prodromi di questo disfacimento appaiono persino negli ultimi arrivati, come la tredicenne figlia della prima moglie del figlio medico del patriarca che guarda la vita attraverso l’obiettivo della telecamera del proprio cellulare e che, perduta la madre, temendo l’abbandono del padre, immaturo Peter Pan che tradisce anche la seconda moglie, tenterà il suicidio e accompagnerà senza resistenze né emozioni il tentativo di suicidio del nonno. Film asciutto ma inferiore alle aspettative e noioso in alcuni momenti.
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[+] osservazione sarcastica di un vuoto esistenziale
(di antoniomontefalcone)
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homer52
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lunedì 4 dicembre 2017
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il vuoto dentro di noi
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Un film bellissimo sul vuoto esistenziale alimentato dallo spropositato uso dei mezzi di comunicazione tecnologici (cellulare, computer, tv...).La realtà e le relazioni vissute non tanto nella loro espressione reale e immediata, ma mediate da questi strumenti col relativo senso di estraneità che conseguentemente ne deriva. Da ciò l'apatia, l'anaffettività che permea ogni personaggio e che coinvolge anche lo spettatore ponendogli più interrogativi che soluzioni. In questo clima di asettica emotività in cui si svolge la storia anche l'angoscia che dovrebbe derivare dal tentativo di suicidio dell'anziano Georges e dalla sua confessata soppressione della moglie come gesto di eutanasia compassionevole diventano azioni comuni, quasi inevitabili e non a caso la piccola Eve prima aiuta e poi filma il nonno mentre cerca di lasciarsi affogare in mare.
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Un film bellissimo sul vuoto esistenziale alimentato dallo spropositato uso dei mezzi di comunicazione tecnologici (cellulare, computer, tv...).La realtà e le relazioni vissute non tanto nella loro espressione reale e immediata, ma mediate da questi strumenti col relativo senso di estraneità che conseguentemente ne deriva. Da ciò l'apatia, l'anaffettività che permea ogni personaggio e che coinvolge anche lo spettatore ponendogli più interrogativi che soluzioni. In questo clima di asettica emotività in cui si svolge la storia anche l'angoscia che dovrebbe derivare dal tentativo di suicidio dell'anziano Georges e dalla sua confessata soppressione della moglie come gesto di eutanasia compassionevole diventano azioni comuni, quasi inevitabili e non a caso la piccola Eve prima aiuta e poi filma il nonno mentre cerca di lasciarsi affogare in mare. Il tutto con estrema naturalezza, con lo stesso istinto sadico in cui filma il criceto che cade stecchito dopo averlo imbottito di psicofarmaci. Un film che mette perciò in risalto il pericolo cui ognuno di noi può andare incontro, nel momento in cui sentiamo come eventi naturali le varie disgrazie che accompagnano tanti esseri umani e che la tv quotidianamnete ci propone. A mio avviso la frase chiave del film è proprio il racconto che Georges fa alla nipote quando le parla della visione reale dell'uccello predatore che sbrana la sua vittima e la paragona alla stessa scena vista in tv, facendole notare che dal vivo ha provato un ribrezzo che mai ha avuto nella visione televisiva. Un monito che serve a tutti noi e un richiamo ai veri valori della vita.
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eugenio
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lunedì 2 aprile 2018
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haneke e il crollo dei valori occidentali
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Ho sempre apprezzato il cinema di Haneke. Asciutto, lucido, intenso, capace di rappresentare con estrema salacità il crollo dei valori moderni, passati e presenti, le crisi che inevitabilmente portano a conseguenze ineluttabili sul destino di fragili vite, talvolta troppe ottuse per rendersi conto della loro precoce fine.
Il Nastro bianco, Niente da nascondere, Amour, questi alcuni recenti e famosi titoli. Temi, interpreti diversi, in comune sempre quella vita quotidiana, quella minaccia che sottende dentro l’essere umano pronta a esplodere e rivelare nefandezze e colpe immutate e immutabili.
Happy end, la recente “fatica” del cineasta austriaco, è forse più vicina a Niente da nascondere.
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Ho sempre apprezzato il cinema di Haneke. Asciutto, lucido, intenso, capace di rappresentare con estrema salacità il crollo dei valori moderni, passati e presenti, le crisi che inevitabilmente portano a conseguenze ineluttabili sul destino di fragili vite, talvolta troppe ottuse per rendersi conto della loro precoce fine.
Il Nastro bianco, Niente da nascondere, Amour, questi alcuni recenti e famosi titoli. Temi, interpreti diversi, in comune sempre quella vita quotidiana, quella minaccia che sottende dentro l’essere umano pronta a esplodere e rivelare nefandezze e colpe immutate e immutabili.
Happy end, la recente “fatica” del cineasta austriaco, è forse più vicina a Niente da nascondere. L’inizio è similare: qualcuno col telefonino riprende in segreto la vita di qualcun altro. In questo caso, il mistero è presto svelato: si tratta di una delle giovani protagoniste della pellicola, avente come contesto la borghesia agiata di una famiglia di Calais, marcia fino al midollo in ogni suo esponente, ragazzina inclusa.
Con l’Iphone, la giovane smaliziata riprende in diretta la morte del criceto cui ha somministrato gli psicofarmaci della madre, depressa da tempo, che finirà in ospedale per overdose di medicinali, sotto lo sguardo assente del marito ora sposato con un’altra donna e fratello di una ricca erede ( interepretato da Isabelle Huppert).
Attorno a una famiglia sventrata negli affetti e nella vita, si muovono immagini simboliche e pregne di significato come il crollo, all’inizio del film, di un muro di un cantiere ripreso da una telecamera di sorveglianza e la morte, per “incidente sul lavoro”, di un operaio.
L’emblema di un occidente allo sbando, incarnato nei valori di quell’Europa in totale abbandono, ben palesata dalla figura dell’anziano patriarca (un bravissimo Jean-Luis Trintignant), stanco di vivere, per la falsità dei suoi parenti, per la totale sfiducia di un mondo che ha fatto del nichilismo la sua onda di progresso, si specchia nei protagonisti di Happy end. Da un lato la ricca famiglia di Calais, con il padre di cui sopra, fedifrago e lontano per converso da ogni forma d’amore in quanto tale, il giovane rampollo fuori di testa, incapace di badare a se stesso (figuriamoci prendere in mano il patrimonio familiare) e dall’altro la voce dell’innocenza, quella della ragazzina, tuttavia anche lei smembrata da ogni valore e passiva interprete dei precetti del mondo che la circonda: le allusioni sessuali spinte su Social Network che palesano l’assoluta mancanza di cura del proprio corpo sono lo specchio entro cui riflette un’anima ancora incapace di spiccare il volo dal disincanto cinico, quello con cui vorrebbe accompagnare l’anziano “nonno” alla morte (e riprender quest’ultima col cellulare).
Insomma, Haneke dice tutto e niente in questo film. Fa riflettere brechtianamente lo spettatore con immagini caustiche dotandole di in un’ambientazione simbolica: Calais, città di confine, città portuale, città di profughi in attesa di una partenza per una Eldorado promessa per la Gran Bretagna e oltre.
Ci parla di morti, distruzione, ossessione, della difficoltà che abbiamo oggi a guardar dentro noi stessi, dell’incomunicabilità con persone a noi care, dell’insano meccanismo di autodistruzione della solita borghesia ipocrita.
Insomma, carne al fuoco Happy End ne offre, la sceneggiatura è solida. Ma c’è un ma. Il film non osa. Haneke rimane sulla superficie di un mondo patinato, algido e senza approfondire psicologicamente i suoi attori. Senza l’empatia calorosa di Amour, senza la crudezza nascosta de Il nastro bianco. Ed è un peccato. Perchè la freddezza in Happy end è la punta di un iceberg immenso, dura a sciogliersi, inscalfibile, come il cuore dello spettatore dubbioso ma consapevole di un film riuscito solo a metà.
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flyanto
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giovedì 7 dicembre 2017
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la morte come liberazione da ogni sofferenza
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Torna nelle sale cinematografiche il regista tedesco Michael Haneke con la sua ultima opera "Happy End". A dispetto di quanto enunciato dal titolo, il film, come i precedenti del regista, non è affatto allegro e positivo nel suo contenuto. Haneke ha una visione molto negativa e quanto mai realistica della vita ed ancora una volta, qui, la esprime chiaramente.
La storia ruota tutta intorno ad una facoltosa e potente famiglia di imprenditori di Calais.
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Torna nelle sale cinematografiche il regista tedesco Michael Haneke con la sua ultima opera "Happy End". A dispetto di quanto enunciato dal titolo, il film, come i precedenti del regista, non è affatto allegro e positivo nel suo contenuto. Haneke ha una visione molto negativa e quanto mai realistica della vita ed ancora una volta, qui, la esprime chiaramente.
La storia ruota tutta intorno ad una facoltosa e potente famiglia di imprenditori di Calais. Il capofamiglia (Jean Louis Trintignant), ormai molto anziano ed infermo su una sedia a rotelle, ha abbandonato le redini dell'azienda che, invece, sono state prese dalla figlia (Isabelle Huppert) e dal nipote, figlio di quest'ultima. Nel frattempo, in seguito ad un grave ricovero in ospedale da parte della prima moglie dell'altro figlio (Mathieu Kassovitz) del suddetto anziano patriarca, va a vivere nella sontuosa magione di famiglia, la nipote adolescente, profondamente turbata dalle condizioni di salute della madre. Così, tra problematiche varie, familiari, private e non, trascorrono i giorni....
Haneke, ancora una volta, ribadisce il proprio concetto di guardare e considerare la morte come l'unico rimedio alle sofferenze umane, sia fisiche che psicologiche. Anche in "Happy End" essa viene ricercata e desiderata e proprio dai due personaggi all'estremo come età e, cioè: sia dall'anziano capo famiglia, ormai ridotto all'estremo, che dalla nipote adolescente, alquanto sensibile e sofferente psicologicamente per la madre malata. A differenza che in "Amour", in "Happy End" la suddetta morte viene 'scansata', almeno per il momento, ma non per questo meno ambita e ricercata in ogni modo. L'ambiente che Haneke descrive è quello di sempre dell'alta borghesia, qui nettamente all'opposto di quello circostante povero e disagiato. Ogni individuo, inoltre, sembra mosso più da un certo egoismo e da una sorta di freddezza d'animo che emergono ben distinti e al di là di una perfezione formale e controllata che si manifesta nei gesti e nei discorsi in generale. Haneke, molto lucidamente ed impietosamente analizza e presenta allo spettatore tale quadro crudo e vi riesce magnificamente, seppure con molta amarezza e tragicità.
Tra gli ottimi attori del cast occorre rimarcare che spicca su tutti il sempre ottimo Jean-LouisTrintignant.
Del tutto consigliabile ma a coloro che amano Haneke
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udiego
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venerdì 8 dicembre 2017
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felice finale
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Siamo a Calais, nell'estate del 2016. Una famiglia dell'alta borghesia del posto si scontra ogni giorno con gli intrecci e le problematiche che i suoi componenti vivono nel loro essere quotidiano, nella vita di tutti i giorni, sia nella sfera privata che in quella pubblica.
A cinque anni di distanza dall'acclamato "Amour" Michael Haneke torna sul grande schermo con lo spaccato di vita di questa famiglia dell'alta borghesia francese. Lo fa attraversando tutti i suoi componenti, dall'ormai ottantenne capo famiglia, interpretato dal grandissimo Jean-Louis Trintignant, fino alla giovane tredicenne appena entrata nella famiglia dopo essere andata a vivere con il padre ormai risposato per via della prematura scomparsa della madre.
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Siamo a Calais, nell'estate del 2016. Una famiglia dell'alta borghesia del posto si scontra ogni giorno con gli intrecci e le problematiche che i suoi componenti vivono nel loro essere quotidiano, nella vita di tutti i giorni, sia nella sfera privata che in quella pubblica.
A cinque anni di distanza dall'acclamato "Amour" Michael Haneke torna sul grande schermo con lo spaccato di vita di questa famiglia dell'alta borghesia francese. Lo fa attraversando tutti i suoi componenti, dall'ormai ottantenne capo famiglia, interpretato dal grandissimo Jean-Louis Trintignant, fino alla giovane tredicenne appena entrata nella famiglia dopo essere andata a vivere con il padre ormai risposato per via della prematura scomparsa della madre. Il regista tedesco anche in questa occasione non si discosta dal suo stile, la sceneggiatura è asciutta, in certi frangenti anche aspra, ma soprattutto diretta, senza fronzoli. Haneke non usa giri di parole per rappresentare la sua vicenda, ci racconta quello che vuole raccontarci e lo fa in modo diretto, schietto e senza retorica. Se in un film come Amour erano il dolore, l'amore e la sofferenza ad essere narrati, qui troviamo invece il pessimismo ed il cinismo, che in modi diversi, pervadono tutti i personaggi dell'opera. Qui lo spettatore non può fare altro che lo spettatore. Le vicende scivolano via, a volte strappano un sorriso, altre mettono un pizzico di tristezza, ma tutto si vede per quello che è. Non c'è interpretazione dei sentimenti, non ci sono messaggi nascosti ai quali il pubblico deve dare un significato, tutto quello che il regista vuole raccontarci lo vediamo nell'evolversi della vicenda. Happy End è un film che colpisce, capace a volte di strappare anche un sorriso amaro. La metafora della vita è ben rappresentata con il cerchio che va a chiudersi nelle battute finali dove i due personaggi più lontani di età si trovano dinanzi ad un incontro-scontro generazionale che metterà in luce le loro similitudini e le loro differenze. voto 4/5
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giovanni_b_southern
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venerdì 22 dicembre 2017
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film molto "politico". da vedere
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Un "fascino discreto della borghesia" meno paradossale ma più cinico e pessimista. Un pugno allo stomaco a certi, finti, valori alto-borghesi. Una classe sociale fatta 'moralmente' a pezzi. l tono è severo, quasi a dire 'censorio'. Il vecchio in buona salute, eppure afflitto da assurdi istitinti depressivi che volgono al suicidio. La ragazzina assolutamente priva di una qualche direzione morale, tutta incentrata sulla sua auto-protezione, schermata dal suo cellulare ed in grado di commettere qualsiasi cosa pur di difendere questo suo stato di 'anomia'. Il padre, già divorziato, risposato e di nuovo padre di una bambina appena nata che chatta con una ninfomane di sodomie e altro ancora.
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Un "fascino discreto della borghesia" meno paradossale ma più cinico e pessimista. Un pugno allo stomaco a certi, finti, valori alto-borghesi. Una classe sociale fatta 'moralmente' a pezzi. l tono è severo, quasi a dire 'censorio'. Il vecchio in buona salute, eppure afflitto da assurdi istitinti depressivi che volgono al suicidio. La ragazzina assolutamente priva di una qualche direzione morale, tutta incentrata sulla sua auto-protezione, schermata dal suo cellulare ed in grado di commettere qualsiasi cosa pur di difendere questo suo stato di 'anomia'. Il padre, già divorziato, risposato e di nuovo padre di una bambina appena nata che chatta con una ninfomane di sodomie e altro ancora. Un figlio che avrebbe tutto per avere successo (soldi, educazione e quant'altro), invece non è capace nemmeno di gestire un cantiere di periferia. La madre, cinica ma razionale, che avendo capito la inutilità del figlio ad un certo punto cede l'impresa di famiglia a quello che diventerà il suo compagno.
In questo ritratto tagliente e disperato ne escono bene gli immigrati che alla richiesta del vecchio di ucciderlo fanno spallucce e il barbiere, che con la sua morale piccolo borghese invece resiste con garbo ed educazione alle lusinghe capziose del vecchio depresso e la famiglia di domestici marocchini, di servi come li chiama il figlio della Huppert, che hanno una dignità etica e morale che la famiglia del sempre eccellente Trintignant se la sogna. Tranquilli, a risolvere tutto ci sarà la ragazzina, completamente 'anomica' e capace di fare di tutto. Cosa dire, film ovviamente non per tutti ma per quei pochi che ne sanno cogliere il registro davvero ottimo!
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francesco2
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domenica 3 giugno 2018
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società al capolinea
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In questo nuovo film, l”End » su cui si ( sof ?) del titolo assume ( troppo?) chiaramente una doppia valenza, personale ed universale. E ‘sin eccessivamente ovvio e scontato che si tratti di un titolo ironico, fuorché il finale assuma un significato “liberatorio”, per Haneke quanto per il protagonista: sarebbe, probabilmente, una forzatura, anche –ma non solo –poiché il succitato finale è QUANTOMAI aperto. Dunque, le eventuali perplessità sul film non sono legate ad un ‘assenza di temi, ma semmai ad un eccesso. Ad esempio, la società occidentale giunta ormai al capolinea, esemplificato nella scena –non a caso- “muta” degli immigrati giunti a Calais, come anche dagli “sfoghi” del figlio ribelle, riconducibili ad un’insofferenza per un microcosmo ipocritamente borghese -esplorato con alterni risultati- ma, al contempo, per una società considerata ostile verso i diversi.
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In questo nuovo film, l”End » su cui si ( sof ?) del titolo assume ( troppo?) chiaramente una doppia valenza, personale ed universale. E ‘sin eccessivamente ovvio e scontato che si tratti di un titolo ironico, fuorché il finale assuma un significato “liberatorio”, per Haneke quanto per il protagonista: sarebbe, probabilmente, una forzatura, anche –ma non solo –poiché il succitato finale è QUANTOMAI aperto. Dunque, le eventuali perplessità sul film non sono legate ad un ‘assenza di temi, ma semmai ad un eccesso. Ad esempio, la società occidentale giunta ormai al capolinea, esemplificato nella scena –non a caso- “muta” degli immigrati giunti a Calais, come anche dagli “sfoghi” del figlio ribelle, riconducibili ad un’insofferenza per un microcosmo ipocritamente borghese -esplorato con alterni risultati- ma, al contempo, per una società considerata ostile verso i diversi. Dunque, anche qui “personale” ed “universale” tornerebbero a coincidere. Un altro elemento caratterizzante, potrebbe essere una differenza rispetto ai celebratissimi“Amour” e “Funny Games”, di cui venne risaputamente girato un remake senza neanche la (relativa) forza dell’originale. In ciascuna diqueste opere, come anche nella “Pianista”, il pilastro era l’amore, la coercizione, la violenza pronta ad esplodere, che a giudizio di chi scrive due Palme d’Oro avrebbe fruttargli, sia quella avuta per “Il nastro bianco”, sia quella per un’opera ancora superiore, “Niente da nascondere”. Qui, invece, il discorso verrebbe ampliato, soffermandosi sul capolinea di un sistema che, pur con alcuni – veri o presunti- cambiamenti, ha retto la nostra società, in termini di credenze e persino di strumenti della comunicazione. E’ cosi, forse, che andrebbero interpretati i gesti estremi dei due protagonisti più anziani, si tratti di prendere decisioni radicali o di instaurare un dialogo con la nipotina –come se la generazione di mezzo, impersonata da una Huppert e dal rapporto a caso?- problematico col figlio, fosse saltata. I “mostri da abbattere”, a differenza di quanto avveniva nella nostra, noiosa “Meglio gioventù” cercano di autoabbattersi da soli, consapevoli che la loro realtà si è conclusa, e che il “Nuovo-mondo” di crialesana memoria è quello dei personaggi succitati: la nipotina, i neri che sbarcano a Calais..... Quella consapevolezza –piutosto estrema, in “verità”- che tuttavia manca ad Haneke, il quale sembra ignorare cheIl cinema corale raggiunge livelli più alti solo quando ogni storia o frammento, per un ‘alchimia forse inspiegabile, è un tassello che –secondo codici, per esempio, altmaniani- trova sempre posto in un mosaico più grande.
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fabio
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venerdì 31 agosto 2018
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si può perdere.
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Il film mi ha deluso. Aldila' delle aspettative, con cui è inevitabile fare i conti se ti chiami Haneke, non ho trovato granchè: manca di originalità.
Al pessimismo di fondo della vita fa da contraltare il virtuale: le frasi più dolci, le emozioni più sincere sono quelle che vengono scambiate attraverso una chat.
Il resto è un fallimento, un lento logorio in solitudine.
I dialoghi sono insignificanti, quasi nulli eccetto quello tra il vecchio capofamiglia e la giovane nipote.
Il sorriso strappato nell'ultima scena non riscatta le quasi due ore di trascinamento senza mai un vero sussulto. Forse il film avrebbe avuto una migliore riuscita se fosse stato condensato in mezz'ora?
Immagino che questo film finirà nel dimenticatoio però lo segnalo a chi cerca una storia che parli della vita: quella che inizia, quella che finisce.
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Il film mi ha deluso. Aldila' delle aspettative, con cui è inevitabile fare i conti se ti chiami Haneke, non ho trovato granchè: manca di originalità.
Al pessimismo di fondo della vita fa da contraltare il virtuale: le frasi più dolci, le emozioni più sincere sono quelle che vengono scambiate attraverso una chat.
Il resto è un fallimento, un lento logorio in solitudine.
I dialoghi sono insignificanti, quasi nulli eccetto quello tra il vecchio capofamiglia e la giovane nipote.
Il sorriso strappato nell'ultima scena non riscatta le quasi due ore di trascinamento senza mai un vero sussulto. Forse il film avrebbe avuto una migliore riuscita se fosse stato condensato in mezz'ora?
Immagino che questo film finirà nel dimenticatoio però lo segnalo a chi cerca una storia che parli della vita: quella che inizia, quella che finisce.
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vanessa zarastro
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sabato 2 dicembre 2017
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declino e sofferenze della borghesia
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Laurent è una famiglia di industriali che vive a Calais. Un incidente sul lavoro di un loro operaio costituisce un problema che deve cercare di risolvere e costituisce la vicenda attorno alla quale si raccolgono i vari membri. L’ottantacinquenne Georges (un bravissimo Jean-Louis Trintignant) è capostipite ed è rimasto vedovo dopo una lunga malattia di sua moglie che l’ha vista paralizzata a letto per anni. Ha due figli Thomas e Anne entrambi separati. Anne ha un figlio maschio Pierre (Franz Rogowski) che, pur lavorando anche lui in fabbrica, è molto infantile e si comporta in modo irresponsabile. Anne (la sempre impeccabile Isabelle Huppert) ha una relazione amorosa con Lawrence, un avvocato inglese (Toby Jones), mentre Thomas (Mathieu Kassovitz) ha una seconda moglie da cui ha appena avuto una bimba.
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Laurent è una famiglia di industriali che vive a Calais. Un incidente sul lavoro di un loro operaio costituisce un problema che deve cercare di risolvere e costituisce la vicenda attorno alla quale si raccolgono i vari membri. L’ottantacinquenne Georges (un bravissimo Jean-Louis Trintignant) è capostipite ed è rimasto vedovo dopo una lunga malattia di sua moglie che l’ha vista paralizzata a letto per anni. Ha due figli Thomas e Anne entrambi separati. Anne ha un figlio maschio Pierre (Franz Rogowski) che, pur lavorando anche lui in fabbrica, è molto infantile e si comporta in modo irresponsabile. Anne (la sempre impeccabile Isabelle Huppert) ha una relazione amorosa con Lawrence, un avvocato inglese (Toby Jones), mentre Thomas (Mathieu Kassovitz) ha una seconda moglie da cui ha appena avuto una bimba. La sua prima moglie, sempre depressa e in preda a psicofarmaci, ha appena avuto un incidente in auto prendendo in pieno un palo (ma sarà veramente un incidente?) quindi Eve, la figlia dodicenne di entrambi, arriva anche lei a vivere (temporaneamente?) nella ricca dimora patriarcale dei Laurent.
Con questo film Michael Haneke indaga tra i rapporti affettivi e/o anaffettivi dei membri di questa famiglia della buona borghesia francese, ne descrive le sofferenze, le depressioni, i desideri di morte, e ne scopre le perversioni. Ognuno della famiglia ha una sua sofferenza profonda più o meno palese. Il vecchio desidera l’eutanasia pur stando bene fisicamente, La piccola Eve (Fantine Harduin), una classica figlia di genitori separati, non si sente amata da nessuno dei due. Pierre affoga le sofferenze nell’alcool, si rende conto della sua inadeguatezza a dirigere l’azienda di famiglia, ma non riesce proprio a crescere a ed emanciparsi. Ad Anne tocca il ruolo più difficile e importante quello di mediare, di tenere i fili sia dei brandelli di famiglia sia dell’azienda. Passa la vita tra ospedali, transazioni, fabbrica, avvocati e casa da dirigere, riesce sempre a essere “perfetta”, e a trovare le parole giuste di un buon comportamento borghese. Organizza la festa degli ottantacinque anni del padre, così come il pranzo del suo fidanzamento ufficiale (ma si festeggia ancora?) in un ristorante sul mare, mentre il figlio con i suoi stravaganti atteggiamenti provocatori le dà sempre del filo da torcere e serie preoccupazioni.
Thomas è forse il personaggio riuscito meglio di tutti: maldestro nel rapporto con la figlia Eve, distante anni luce dalla moglie e dalla neonata, apparentemente sempre preso dal suo lavoro di medico, è vigliacco e bugiardo. Sembra che non riesca proprio né ad amare – come gli dice la figlia adolescente - né a essere felice perché il suo desiderio è sempre spostato rispetto al presente: ha un’amante con cui si scrive e. mail dal contenuto hard, così come non era riuscito a restare con la prima moglie.
Sono i temi e i sottotemi tipici della filmografia di Michael Haneke. Qui tra morti, crolli e distruzioni è probabile rintracciare una metafora della crisi del Mondo occidentale, della cultura europea così come anche la fabbrica di famiglia viene ceduta. Non credo che Calais sia stata scelta a caso perché è un punto dove gli immigrati si sono ammassati, dove il contrasto tra i ricchi e poveri è molto accentuata e Haneke lo mostra in un paio di scene. Secondo Francesco Boille di Internazionale.it “Il film finisce per essere speculare a quanto vuole criticare”.
E poi il film pone l’accento sullo sguardo, sul cinema, sull’osservare attraverso lo smartphone il mondo delle azioni ordinarie, come pettinarsi e lavarsi i denti, o del riprendere con sadismo la reazione del criceto imbottito di psicofarmaci.
A mio avviso le scene con le inquadrature dell’adolescente sullo sfondo del mare con luce nordica evocano tanta cinematografia francese come ad esempio quelli di Éric Rohmer ma anche del più recente Bruno Dumont. Il film è stato presentato al Festival di Cannes 2017 e selezionato per rappresentare l’Austria agli Oscar del 2018.
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