Foxtrot - La Danza del Destino

La struttura insolita non piacerà a tutti ma l'israeliano "Foxtrot" è un grande film

Arriva da Israele, passando per la Mostra di Venezia (dove ha vinto il Gran Premio della Giuria) un film molto bello, ma che non incontrerà il gusto di tutti: per la sua struttura insolita e un po' cerebrale, controcorrente rispetto al dominante cinema di consumo. Foxtrot è suddiviso in tre capitoli, con un episodio centrale racchiuso tra due "cornici" narrative. All'inizio Michael Feldmann e sua moglie Daphna ricevono la notizia che Jonathan, il loro figlio soldato, è morto sul campo (non si tratta di uno spoiler - le sorprese verranno dopo - ma di una premessa). La donna dev'essere sedata; il padre pretende l'immediato rientro della salma. Nella parte centrale, senza precisi riferimenti temporali, vediamo proprio Jonathan, che presta servizio con alcuni commilitoni giovani come lui in un posto di blocco al confine tra Palestina e Israele. Il clima che vi si respira è sospeso e surreale, un po' alla Aspettando Godot; in perpetua attesa tra un controllo e l'altro, i militari passano il tempo in una container-house; Jonathan si distrae disegnando, su un taccuino, fumetti che hanno a che vedere col sesso e il suo rapporto col padre. Finché, a spezzare brutalmente la monotonia, non interviene un episodio che coinvolge un'auto di passaggio con a bordo quattro giovani. Ha quindi inizio l'ultima parte, che mette a confronto i coniugi Michael e Daphna assieme alla figlia minore. Dapprima è una specie di gioco al massacro, un teatro della crudeltà in cui la moglie rinfaccia all'uomo le sue insufficienze e le responsabilità nei confronti di Jonathan. Poco a poco, però, comprensione e pietà cominciano a prendere il posto delle reciproche pulsioni aggressive. La ragione per cui Foxtrot è destinato a non convincere tutti è una sorta di squilibrio tra le parti: a un certo punto (l'inizio dell'episodio centrale nel check-point) sembra addirittura di essere entrati in un altro film; anche se poi, alla fine, i conti tornano. Per di più il regista Samuel Maoz (vincitore, nove anni fa, del Leone d'Oro per Lebanon) evita scientemente di spiegare tutto, di fornire approfondimenti psicologici spicci, lasciando invece molti aspetti sospesi e affidati allo spettatore. La metafora centrale del film, che vale anche per il modo in cui è narrato, è il ballo del titolo, il foxtrot, ripreso in due scene: nella prima Jonathan danza abbracciando il fucile come fosse una ballerina; nella seconda Michael mostra alla moglie come si balla. Facendole osservare che i passi - avanti e indietro, a destra e a sinistra - rappresentano quasi un falso movimento che riporta sempre alla posizione di partenza. Metafora di una ciclicità che allude a quella della vita, dove non sono gli umani, ma la sorte, a scegliere come si svolgeranno gli eventi. Il tutto questo, poi, non manca una nota di amara ironia; soprattutto nell'episodio che (come già accadeva, ma con mezzi diversi, in Lebanon) sottolinea a tinte quasi metafisiche l'assurdità del conflitto in Medioriente.
Da La Repubblica, 22 marzo 2018


di Roberto Nepoti, 22 marzo 2018