Dentro l'anima di una famiglia
di Fabio Ferzetti L'Espresso
Se c'è una cosa che il cinema oggi non sa più filmare è l'intimità. Non solo i legami sentimentali o familiari, ma proprio quella sensazione fisica di vicinanza che è non solo delle coppie ma di certi gruppi, clan o famiglie. Nel sorprendente esordio di questo allievo del grande Sokurov, nato nel 1991 a Nalchik, Caucaso del Nord, tutto invece viaggia su questo registro con intensità dolorosa. Siamo nel 1998, avverte un'insolita didascalia in prima persona, e questa è una storia vera. Ma soprattutto siamo in Cabardino-Balcaria, repubblica autonoma inclusa dal 1936 nella Russia in cui si parla cabardo (lingua non slava) e convivono varie comunità fra cui una ebraica che durante l'invasione nazista fu protetta dai cabardi mentre oggi, sempre più sguarnita, sconta l'odioso antisemitismo risorgente. Tutto questo però possiamo solo intuirlo perché in "Tesnota" (cioè ristrettezza, costrizione, isolamento) tutto è visto con gli occhi della protagonista Ilana (la mercuriale, superlativa Darya Zhovner), un maschiaccio prorompente di femminilità, proprio così, in una chiave appunto di assoluta e fino a un certo punto beata intimità. Quella condivisa col padre meccanico, che aiuta con amore in officina. O quella quasi incestuosa che la lega al fratello minore, prossimo alla nozze con un'altra ragazza ebrea. Anche se dopo una cena di fidanzamento rutilante di affetto e speranza, malgrado lo spazio esiguo dei festeggiamenti, i promessi sposi vengono rapiti a scopo riscatto e il film sterza in una dimensione morale che mette a dura prova, appunto, tutta quell'intimità. Perché per pagare il riscatto bisognerà fare compromessi, svendere l'officina, forse "vendere" Ilana al futuro cognato, anche se lei ama segretamente un ragazzone cabardo. E al giallo, appena accennato, o agli echi horror dello sfondo storico (in tv Ilana e i suoi amici guardano il video, vero, di una decapitazione che riporta alla guerra cecena) si sovrappone una dimensione intima, quasi psicanalitica, che ispira a Balagov le note più felici. Inquadrature serrate, colori dissonanti, affetti compressi e insieme esplosivi. Ogni gesto, ogni volto (che attori!), ogni dettaglio, fossero anche le pozzanghere o i tristi edifici sovietici di Nalchik, sfiora e insieme sfida l'elegia. Premiato a Cannes 2017. Per chi ancora cerca un cinema diverso, da non perdere.
Da L'Espresso, 4 agosto 2019
di Fabio Ferzetti, 4 agosto 2019