Il nuovo film di Guadagnino, candidato a quattro premi Oscar e uscito finalmente anche in Italia, spalanca un dibattito cinematografico che non si ricordava dai tempi di Sorrentino e di quella Grande Bellezza vista con gli occhi degli americani.
Sì, perché ‘Chiamami col tuo nome’ è affannosamente incensato dai cineasti d’oltreoceano, innamoratissimi della dolce vita italiana. Se poi tutto è ambientato negli anni ’80 e si posa -letteralmente- sul tavolo un caffè italiano e una crema di nocciole, tra maestosi paesaggi di campagna e ville d’epoca di una famiglia italo-americana borghese, allora la confezione per gli Oscar è pronta.
Ma la visione di Guadagnino si appresta a costruire più una pellicola di maniera, a tratti stucchevole ed eccessivamente protesa all’estetismo che non una vera e personale interpretazione delle vicende dei protagonisti del libro di André Aciman.
Il film risulta in certe scene esageratamente lento: considerati i 132 minuti a disposizione e la naturalmente gradevole sensazione di vacanza, molte riprese sanno di inutile ripetizione. Questo tempo poteva essere sfruttato per scavare meglio nei personaggi, invece di farli giocare in un’interpretazione che rimane costantemente in superficie senza saper tirare fuori la veemenza che dovrebbe contraddistinguerli. L’eccezione è fornita solo dal protagonista Timothée Chalamet, unico fra i ruoli a meritare un eventuale premio.
Questa calma, da alcuni apprezzata e comunque non rispondente ai turbamenti dell’età adolescenziale, non è bilanciata: la prevedibilità con la quale si riconoscono i film di Guadagnino lascia perplessi per una candidatura a miglior film e fa ricordare la (tecnicamente) triste scena in piscina di 'A Bigger Splash'.
Per il modo in cui la tematica viene trattata, ci si aspettava più coraggio: un coraggio che, se così deciso e tracciato dalla sceneggiatura di Ivory per gli anni ambientati, doveva andare fino in fondo per abbracciare a pieno lo spettatore e non concludersi con un ordinario e scialbo epilogo, tra l’altro troncato in quanto il libro prosegue.
Perché la pellicola è fin troppo utopistica -o almeno relegata in esigui ambienti per quegli anni- e se si vuole rimanere in tal ambito, per gridare al capolavoro avrebbe dovuto inseguire una sceneggiatura più audace, maggiormente completa, e una regia meno dogmatica e più intensa.
Un plauso forse va segnalato al discorso finale del padre di Elio.
Alcuni errori tecnici, soprattutto sulle automobili e sui treni d’epoca, sono perdonati dall’ottima fotografia: radiosa, accogliente, perfetta; Mukdeeprom ha fatto davvero un bel lavoro. Ci si chiede perché non sia arrivata una nomination per questa categoria.
La bellezza della regia di Guadagnino qui si trova nei primi piani dei volti che raggiungono lo spettatore, nelle mani dei personaggi che tengono libri al posto di cellulari, nelle scene dei vari laghi e laghetti in cui si consumano le vacanze e si sposa bene con i costumi -sempre attuali- della Piersanti, soprattutto quelli appesi in bagno.
La scenografia di Deshors è manieristica come il resto della regia, ma apprezzabile.
Gli attori, tolto Chalamet, non hanno saputo portare nulla di più profondo, come forse questo film meritava.
E’ un bel film, ma non una pellicola sincera per una corsa agli Oscar.
Eccessivamente osannato dalla stampa, soprattutto quella americana che ama l’estetica italiana, Guadagnino propone un gradevolissimo spettacolo mascherato da opera ricercata, offrendo allo spettatore un’immane delicatezza che però odora più di sogno cinematografico che di storia d’amore.
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