Trentacinque anni fa Roy Batty / Rutger Hauer ci disse una cosa che non avremmo più dimenticato:
"E tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia. È tempo di morire".
La verità è che sapevamo (e inconsciamente volevamo) che quello non fosse il sigillo definitivo a Blade Runner. Ed è come se la colomba liberata dal morente Roy Batty nei cieli della Los Angeles 2019 fosse stata un testimone lanciato verso il futuro. A raccoglierlo Denis Villeneuve e una troupe che, animata dallo spirito mai domo del supervisore / produttore Ridley Scott, è riuscita a riportarci dentro l’atmosfera del 1982.
Un’altra persona, insieme al regista canadese, ha reso questo Blade Runner 2049 epocale quanto il film generatore: lui è Roger Deakins, direttore della fotografia capace di disegnare ogni singola inquadratura con abilità pittorica. Uno che, nonostante le 13 nomination agli Oscar (mai giunte a una statuetta), con le luci ci sa fare, riuscendo a isolare le emozioni con la giusta disposizione dei fattori illuminanti. Basta pensare a una qualsiasi inquadratura dei film da lui realizzati (Le ali della libertà, Fargo, Il Grinta, Sicario) per riuscire a entrare subito nella storia, soprattutto grazie alla composizione studiata per accordarsi con le intenzioni del regista. Immaginiamo la macchina da presa come l’acqua di una moka e la fotografia come il filtro: la loro azione combinata è decisiva perché i grani di caffè (il resto della troupe) diventino la migliore tazza di caffè che possiamo sorbire.
Forse Blade Runner 2049 è la volta buona perché l’Academy assegni la statuetta a Roger Deakins, parte di un film che ha tanto da dire soprattutto una volta che sono finiti i titoli di coda. Sì, perché del film di Denis Villeneuve ci rimane addosso una rugiada di sensazioni che continuano il discorso aperto nel 1982 da Ridley Scott e mettono in moto un’interessante comparazione con l’Alien: Covenant del cineasta britannico. L’atto della creazione è al centro della storia, il diritto ad autodeterminarsi che è comune ai replicanti di Blade Runner e agli androidi di Alien. Un punto di contatto fra Scott e Villeneuve così come l’intenzione della Scott Free Production di dare continuità alla saga uscita dalla mente di Philip K. Dick.
Siamo dentro uno spettacolo visivo eccezionale in cui sappiamo chi abbiamo di fronte: l’agente K (Ryan Gosling) è un replicante Nexus 9 in forza alla LAPD col compito di ritirare i vecchi modelli ancora in circolazione; modelli come Sapper Morton (interpretato da un grandissimo Dave Bautista), che i cultori del film avevano già visto in uno dei tre cortometraggi di “avvicinamento” al film e intitolato 2048: Nowhere to Run (regista Luke Scott). Tre corti voluti da Villeneuve per rendere più completa allo spettatore l’esperienza Blade Runner; gli altri due sono 2036: Nexus Down ancora di Luke Scott e Black Out 2022 di Shinichiro Watanabe.
Tutto ha origine in quell’angolo di metropoli dove Morton si è nascosto per coltivare proteine, lì dov’era cominciata la storia di un replicante che potrebbe essere più umano degli umani; e tutto ha davvero inizio quando il Nexus 8 Sapper Morton dice all’agente K che lo sta per “ritirare”:
"Because you’ve never seen a miracle".
Il miracolo di una vita artificiale non solo creata. Ma il miracolo di una vita che è nata. Poco dopo, sotto un albero morto, l’agente K rinverrà una cassa contenente le ossa, perfettamente conservate, appartenenti a una replicante. Incinta. Ecco il principio dell’avventura che vedrà K inseguire a ogni costo l’agente Deckard scomparso trent’anni prima e zittire così una rivelazione che può cambiare ogni cosa. Mettere tutto a tacere come vuole il capo della polizia, il tenente Joshi (Robin Wright).
La scrittura di Blade Runner 2049 ritrova alla tastiera—in coppia con Michael Green— quell’Hampton Fancher che Scott escluse nel mezzo del film del 1982 (salvo poi richiamarlo). Ed è una sceneggiatura che si salda alla perfezione alla storia-madre, trovando in Niander Wallace (Jared Leto) un sostituto ancora più cupo di Eldon Tyrell della Tyrell Corporation. Wallace ha salvato l’umanità dalla fame grazie alla bioingegneria e ha fondato un impero che ha creato nuovi immortali modelli di replicanti.
E va ad Hampton Fancher anche il merito di aver riportato dentro la storia un aspetto che era stato tralasciato nella prima trasposizione cinematografica di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Si tratta del kipple che ammorba ogni anfratto della Los Angeles del romanzo, l’informe massa di detriti che scorre viva fra le pagine del libro e che qui l’agente K attraversa nella periferia della città, scoprendo il nervo aperto di una metafora ambientale già cara allo scrittore americano.
Anche nel 2049 siamo in un mondo che non riesce a redimersi dalle sue colpe contro il pianeta Terra, già trent’anni prima bombardato da piogge acide. Eppure ora c’è la neve a scendere come fuliggine sulle teste di uomini e replicanti; forse c’è una speranza sottile come polvere, nebulosa come lo smog dove scompare la silhouette di Ryan Gosling, al centro di frame che sono veri e propri quadri.
La ricerca di un senso dell’identità è lo scheletro di un’opera che nei suoi 163 minuti ci immerge nell’atmosfera dell’originale fra degrado urbano e luci al neon che gridano i nomi di Atari, Coca-Cola, Sony, Peugeot, fra prostitute come Mariette (Mackenzie Davis) che strizzano l’occhio alla sexy Pris / Daryl Hannah, e con in più la tecnologia del XXI secolo che sa disegnare il personaggio dell’intelligenza artificiale Joi (Ana de Armas), per i fan di science fiction un aggiornamento inimmaginabile della donna virtuale del 6° Giorno (Roger Spottiswoode, 2000).
Più di tutto, Blade Runner 2049 ci immerge nel grande cinema, facendoci incontrare soltanto nella parte finale Rick Deckard (Harrison Ford) e la spiegazione di un enigma che l’agente K è andato inseguendo come fosse un uomo nato dall’amore. Allora, nel bianco della neve, l’agente K si congeda (davvero?) mentre la musica di Vangelis, orchestrata da Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, entra come un calco della scena liberatoria di trentacinque anni prima e ci accompagna verso il finale. Forse, però, non è ancora tempo di morire.
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